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Prendersi cura degli essenti è la via maestra che conduce all'essere

di Francesco Lamendola - 28/08/2007

 

 

 

 

 

 

Senza dubbio la lettura di Emmanuel Levinass ci ha familiarizzati con il concetto del prendersi cura dell'altro, e questa è una importante acquisizione del pensiero contemporaneo; anche se, in fondo, non fa altro che riprendere il comandamento cristiano dell'ama il prossimo tuo come te stesso. Eppure non si può dire che tale concetto sia stato introiettato a fondo dalla cultura del nostro tempo, come è provato dalla scarsa reazione che suscita in noi l'esercizio gratuito e brutale della violenza, sia a livello politico-sociale (repressioni, guerre, deportazioni) sia a livello individuale; e non occorre pensare subito a crimini di sangue, basta riflettere sulla diffusa malevolenza, invidia, gelosia e cattiveria spicciola che caratterizza così largamente la rete delle relazioni umane nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nei rapporti interpersonali in genere. Né si può dire che i filosofi abbiano adeguatamente approfondito le implicazioni del prendersi cura dell'altro dal punto di vista ontologico, limitandosi, in genere, a  riflessioni e considerazioni di natura etica. Ma l'etica non dovrebbe essere concepita come una branca del tutto indipendente della filosofia, altrimenti la si imprigiona in un recinto che rischia di vanificarne il suo complessivo orizzonte di senso. Infatti, alla semplice domanda: Perché l'io dovrebbe prendersi cura del tu?, siano le risposte di tipo normativo-astratto (come il tu devi kantiano), siano di tipo pratico-morale (come l'ama il prossimo tuo cristiano), si rischia di perdere di vista il legame necessario che le lega al più vasto ambito dell'ontologia.

Abbiamo sostenuto, in altro luogo (vedi l'articolo Si entra nell'essere con un atto di fedeltà e di amore), che fare filosofia è essenzialmente interrogarsi sull'Essere, sul nostro rapporto con l'essere, sulle condizioni che rendono possibile il nostro entrare nell'essere e il penetrare dell'essere in noi; e che sempre, senza stancarci, dobbiamo continuare a bussare e ribussare alla porta dell'essere, perché solo in tale tentativo possiamo trovare il nostro orizzonte di senso, non certo nell'inseguire senza pace e senza misura il divenire e le sue effimere apparenze. Abbiamo anche sostenuto che tutti gli enti, da un punto di vista ontologico, sono effettivamente già presenti nell'Essere, ma in maniera inconsapevole e astratta; e solo con un atto di amore e di fedeltà nei confronti della vita gli enti possono porsi su un piano di partecipazione concreta, piena e appagante alla sostanza dell'Essere, ritrovando così la strada smarrita per quel ritorno degli enti all'Unità da cui provengono e da cui si sono, inconsapevolmente (e sia pure illusoriamente) distaccati.

Qualcosa del genere era già stato detto da Plotino a proposito dell'anelito delle anime individuali verso l'Anima universale dalla quale provengono e alla quale aspirano a fare ritorno, allorché si lasciano trasportare dalla propria parte nobile e superiore e non già trascinare verso il basso dalla parte legata ai disordinati desideri relativi  al mondo della materia (cfr. il nostro articolo Spunti per una ricostruzione dell'estetica contemporanea). Ora desideriamo approfondire questo aspetto e ci proponiamo di mostrare, se possibile, che la cura del tu e la sollecitudine verso gli essenti è la via maestra per ricostituire quel legame originario fra noi e l'Essere che si è allentato (anche se mai definitivamente rotto) allorché, presi nel vortice degli appetiti e dei timori propri del mondo del divenire, abbiamo obliato la nostra vera origine e la nostra vera destinazione. Esistono altre vie per tornare all'Essere, prima fra tutte quella dell'ascesi e della contemplazione; ma si tratta di vie eminentemente aristocratiche, in teoria accessibili a chiunque ma, in pratica, possibili solo a un numero estremamente limitato di persone; e, poiché volevamo porre la questione da un punto di vista il più ampio possibile, in questa sede ci prenderemo la libertà di trascurarle del tutto, concentrandoci sulle vie realmente praticabili da ogni individuo dotato di buona volontà, retta intenzione e animo puro.

 

Una prima riflessione che ci sembra importante è che se l'altro deve intendersi, senz'altro, nel senso più ampio possibile, fino a includervi non solo l'estraneo, ma il nemico stesso (cfr. la parabola del buon Samaritano), è pur vero che sarebbe al tempo stesso cosa astratta e velleitaria pretendere di orientare così, ipso facto, i nostri sentimenti di benevolenza e sollecitudini verso tutti gli essenti indiscriminatamente, verso una umanità generica o verso un generico mondo della natura; specialmente nella nostra cultura occidentale dove l'animale, per non dire della pianta, non è mai stato visto come un "tu" (tranne per pochi pensatori isolati) ma solo come un oggetto di sfruttamento, manipolazione e dominio. Bisognerà dunque tendere a questo obiettivo, ma con passi graduali; e partire, quindi, dalla riscoperta del nostro senso di responsabilità nei confronti degli essenti vicini e concreti che popolano l'orizzonte della nostra vita quotidiana (famiglia, lavoro, quartiere, ecc.) e, più particolarmente, quelli che in modo più o meno diretto e intenzionale abbiamo coinvolto nel nostro progetto di vita o, comunque, nelle nostre scelte esistenziali.

Non vi è  dubbio che, da un punto di vista profondo, tutti gli enti e tutti gli essenti sono legati tra loro da innumerevoli fili, per quanto sottili o - al nostro occhio limitato - invisibili; ma è altrettanto vero che, mentre la nostra possibilità di esercitare una qualche forma di sollecitudine sugli enti più lontani è limitatissima, forte e - talvolta - decisiva è quella che abbiamo di esercitarla verso quelli a noi più prossimi.  Tra essi, la nostra responsabilità personale è particolarmente evidente nei confronti di quegli essenti che noi, ad un certo punto del nostro cammino di vita, abbiamo incrociato e che, per tutta una serie di motivazioni, a volte banali e accidentali, altre volte estremamente profonde e sentite, abbiamo coinvolto nella tela dei nostri desideri, delle nostre aspettative, della nostra ricerca di felicità; nonché nelle nostre paure, debolezze, nevrosi e nel nostro senso di inadeguatezza. Infatti, una volta che due essenti si sono incontrati e, in qualche misura, riconosciuti, essi contraggono un preciso debito di responsabilità e sollecitudine l'uno nei confronti dell'altro. Né giova obiettare che, allontanandosi e fuggendo, un essente può in qualunque momento interrompere il suo rapporto, e quindi la sua responsabilità, nei confronti di un altro essente: perché, quando il riconoscimento è avvenuto e una comunicazione, più o meno profonda, si è stabilita fra loro, sia l'agire che il non agire, sia l'avanzare che il retrocedere diventano ugualmente delle forme di azione intenzionale e quindi moralmente rilevante nei confronti dell'altro. Qualunque relazione si instauri fra due essenti, trattandosi di un rapporto fra due parti, essanon può mai essere sciolto in maniera unilaterale, disinteressandosi, cioè, delle conseguenze che tale interruzione o rottura avrà nei confronti dell'altra parte.

Si potrà obiettare che una relazione può anche nascere in maniera unilaterale, sotto forma di imposizione, magari violenta, di un essente nei confronti di un altro essente. A rischio di essere accusati di parteggiare per i cattivi, noi osiamo affermare che nemmeno in questo caso una delle due parti può chiamarsi interamente fuori dalla responsabilità nei confronti del destino dell'altra. Certo, il rapito non ha alcun obbligo legale o formale nei confronti del proprio rapitore, la vittima nei confronti del proprio aguzzino; e nessun tribunale o nessuna religione li condanneranno se, appena posti in condizione di liberarsi,  non solo perseguiranno la propria liberazione, ma eventualmente cercheranno anche di vendicarsi di chi ha fatto loro del male.

Eppure, in un senso profondo e misterioso, noi sentiamo che la grande legge del Tutto non può coincidere, in questo caso, con le leggi umani, siano esse giuridiche o religiose; e che, in un modo profondo e misterioso, esiste una qualche forma di responsabilità nei confronti dell'altro anche da parte di chi è stato, oggettivamente, vittima o, comunque, parte non consenziente in una determinata relazione. Un esempio che viene quasi subito alla mente è quello delle donne violentate e messe incinte dalle milizie che hanno insanguinato la Bosnia-Erzegovina durante i drammatici avvenimenti che hanno fatto seguito alla disintegrazione violenta della ex Jugoslavia, dopo il 1991. Ci rendiamo conto dell'estrema delicatezza e dell'estrema difficoltà di parlare così, in astratto, di eventi strazianti che hanno segnato la vita di persone innocenti. E tuttavia, anche se nessun tribunale civile o religioso potrebbe condannare quelle donne che hanno fatto la scelta di abortire, è certo che in noi resta la netta impressione che una tale soluzione non solo non ristabilisce la giustizia violata dagli aggressori, ma eserciti una forma di violenza su altre vittime, ancora più deboli perché totalmente indifese, di quella barbara violenza: i nascituri.

Tuttavia l'esempio in questione potrebbe anche essere fuorviante, perché introduce nella dialettica fra i due essenti, dei quali uno è aggressore e l'altro aggredito, un terzo elemento che viene all'esistenza appunto da quel rapporto di violenza.  Ma le cose appaiono più chiare quando la relazione fra due enti, e sia pure di tipo prevaricante, non è complicata dalla presenza di terzi: ad esempio, nel caso della bambina austriaca che, rapita da un conoscente, rimase suo ostaggio per molti anni e che solo da ragazza ormai cresciuta riuscì a fuggire e a denunciare il suo carceriere, che scelse immediatamente il suicidio. Senza voler giudicare in alcun modo chi ha già subito una forma di violenza così forte e prolungata, e che legittimamente vi si è sottratto non appena ne ha avutola possibilità, rimane il fatto che è morto tragicamente qualcuno che, forse, avrebbe potuto essere salvato; qualcuno che, forse, non era completamente cattivo, se è vero che nessun sentimento di autentico odio è stato poi espresso dalla sua prigioniera quanto, piuttosto, di umana pietà e di profonda commiserazione.

Abbiamo affrontato subito lo scoglio dei casi-limite perché essi non alterassero poi la riflessione di carattere generale che intendiamo ora sviluppare intorno al concetto di responsabilità e, quindi, di prendersi cura degli essenti gli uni verso gli altri. Nella grande maggioranza dei casi, le relazioni umane interpersonali nascono, si sviluppano ed, eventualmente, muoiono, sulla base di una azione volontaria da parte di due libere volontà; e ancora più evidente appare il dovere etico del prendersi cura là dove abbiamo una relazione volontaria fra un umano e un non-umano. Ecco perché è così importante che i bambini facciano l'esperienza del prendersi cura di un animale domestico, un cane, un gatto, un uccellino: solo attraverso la pratica quotidiana e responsabilizzante dell'accudire, del proteggere, eventualmente del curare un piccolo animale, che da lui dipende interamente, il bambino può maturare quelle attitudini alla crescita interiore, all'uscita degli schemi egoistici dell'ego e quella presa di consapevolezza di sé, senza la quale nessuna maturazione è possibile e, quindi, nessuna vera relazione fra l'io e il tu. Non parliamo, poi, dell'efficacia etica e psicologica, oltre che pratica, del prendersi cura di un fratellino o di una sorellina più piccoli. E, infatti, sempre più spesso, nella società contemporanea basata sulla pretesa dei diritti senza doveri corrispondenti e del tutto-e-subito, assistiamo al mesto spettacolo di adulti-bambini viziati e immaturi, che continuano a relazionarsi col prossimo in maniera irresponsabile, forse anche perché non sono stati educati e abituati a farsi carico delle esigenze di qualche essente meno autonomo e, pertanto, bisognoso attenzioni costanti e di assidua sollecitudine. Tipico esempio di questa crescente deresponsabilizzazione sono i figli ventenni, trentenni e magari quarantenni che continuano a servirsi della casa dei genitori, delle loro cure, dei loro servizi di tipo pratico, senza nulla concedere in cambio, senza nulla offrire di sé se non le camicie da lavare e stirare la pretesa di scegliersi il menu quotidiano, quasi fossero ospiti paganti di un albergo di lusso.

 

La seconda considerazione che vogliamo sviluppare è che, se l'ente contrae una precisa responsabilità di prendersi cura dell'altro allorché, fra di loro, si instaura una relazione volontaria e basata sul reciproco coinvolgimento, tale responsabilità non può essere bruscamente e totalmente estinta solo perché una delle due parti (o anche entrambe!) decidono di rescinderla con un atto più o meno formale. Anche in questo caso, le leggi civili e, a volte, anche quelle religiose la pensano altrimenti: perché quando il coniuge separato ha passato gli alimenti e ottemperato a quanto stabilito dal giudice circa la responsabilità verso i figli, egli sarà legalmente sollevato da ogni ulteriore obbligo; e perfino la Chiesa cattolica, una volta che il matrimonio sia stato annullato in base a precise condizioni, ogni responsabilità nei confronti dell'ex coniuge - al quale pure si era giurato di restare fedeli nella buona e nella cattiva sorte - viene automaticamente a cadere. Noi, però, pensiamo che una qualche forma di responsabilità morale per il destino dell'altro non possa venir meno al cento per cento, dopo che due esseri umani abbiano tentato, e sia pure senza riuscirvi, di costruire un progetto di vita fondato sul reciproco amore. Anzi, vogliamo spingere questo pensiero ancora più in là, affermando che una qualche forma di responsabilità morale esiste anche in circostanze meno solenni di quelle di una formale promessa reciproca di affrontare insieme tutta la vita.

Non è lecito disinteressarsi totalmente della sorte di coloro che abbiamo coinvolto, bene o male, nell'orizzonte delle nostre scelte di vita. Chiaro che la nostra responsabilità sarà proporzionale all'intensità della relazione che si è instaurata: e se è meno forte nel caso di una relazione del tutto occasionale e superficiale, diviene via via più doverosa e ineludibile verso coloro con i quali ci si è relazionati in maniera selettiva e affettivamente intensa, come nel caso dell'amicizia. Pertanto contrarre un'amicizia o contrarre un legame sentimentale significa assumersi una responsabilità ben precisa nei confronti dell'altro: essere solleciti nei suoi confronti, perseguire il suo bene, evitargli inutili sofferenze e così via. Oggi, invece, sempre più spesso si assiste allo spettacolo sconcertante di persone che si comportano nei confronti dell'altro esattamente come si fa con le merci al supermercato: le prendono quando gliene viene il capriccio e le mollano, con la massima disinvoltura, quando sopraggiunge un altro capriccio. Ora, se meno grave è comportarsi in tal modo quando da entrambe le parti vi sia, fin dall'inizio, una disposizione d'animo non impegnativa e una condivisa "leggerezza" in fatto di rapporti umani, assai più grave è farlo quando l'altro, invece, nutre o nutriva intenzioni serie ed è, o era, animato da sentimenti autentici e profondi.

Nella vita, però - lo sappiamo - le cose raramente sono interamente bianche o interamente nere, più spesso sono sfumate e, di conseguenza, può accadere che si contraggano, contemporaneamente o anche successivamente, impegni diversi nei confronti di altri soggetti, impegni che creano una rete di aspettative, speranze, desideri che poi, inevitabilmente, entrano in conflitto tra loro. Ancora una volta non è detto che le leggi civili e religiose siano in grado di dirimere la complicata ragnatela che tali relazioni incrociate finisce per creare, se non in un senso abbastanza formalistico ed esteriore. Ad esempio, non vi sono dubbi che, per le leggi civili e religiose, i "diritti" del coniuge vengono prima di quelli dell'amante, anzi escludono questi ultimi addirittura; sappiamo dal processo di Eratostene che già nella polis ateniese il marito offeso aveva ogni diritto di assassinare l'uomo che lo disonorava in casa propria con sua moglie, anche se si trattava, in buona sostanza, di una esecuzione a freddo. Ma potrebbe darsi il caso che, da un punto di vista morale, e in circostanze  particolari che sfuggono all'occhio di un osservatore esterno, il dovere di sollecitudine contratto con un legame affettivo scavalchi le regole sociali stabilite dalla società, e che l'impegno morale preso da una donna verso il proprio marito venga per secondo, in ordine di priorità, rispetto a quello preso con un altro uomo, in un secondo momento, al di fuori del matrimonio. Certo, si tratta di eccezioni; tuttavia, nel campo dell'etica, non interessano le leggi dei grandi numeri e ogni caso è un caso a sé, che deve essere valutato nella sua assoluta e irripetibile specificità: cosa che, lo ripetiamo, dall'esterno può essere praticamente impossibile.

 

Ora torniamo all'assunto iniziale, e cioè alle implicazioni filosofiche che questo concetto del prendersi cura ha per il corretto rapporto fra gli essenti e l'Essere. Abbiamo sostenuto, infatti, che solo un atto consapevole e intenzionale della coscienza può mettere un essere umano in relazione diretta e autentica con l'Essere, aiutandolo a rientrare nella sua dimora originaria e a ritrovare la prospettiva della sua ultima destinazione. Spiegare per via esclusivamente razionale perché ciò avvenga non è solo agevole né interamente possibile, tuttavia ci proveremo; facendo però avvertito chi legge che, a  nostro avviso, la comprensione profonda di una tale legge morale ha a che fare con altre dimensioni dell'anima, oltre quella del Logos strumentale e calcolante che sta alla base, per esempio, della nostra visione scientifica del mondo.

Potemmo partire dalla domanda fondamentale: Perché le cose esistono? Perché, in luogo del nulla, qualche cosa esiste?  Perché, in definitiva, l'universo si dà la pena di esistere? Senza pretendere di dare qui una risposta esaustiva, avanziamo nondimeno l'ipotesi che ciò sia il risultato di una qualche forma di amore: è una forma di amore quella che trae le cose dal non-essere all'essere; ed è una legge di amore quella che le conserva nell'esistenza e permette loro di continuare ad esistere. Lo possiamo osservare anche nella nostra esperienza psicologica e pratica individuale: questo tavolo non esisterebbe se un falegname non lo avesse realizzato con la sua capacità, la sua inventiva, la sua passione, cioè, in definitiva, con il suo amore; per non parlare delle espressioni d'arte: le immagini delle arti figurative, la musica, la parola poetica; e il mondo è una grande opera d'arte, anche se non sempre siamo nelle condizioni di comprenderlo e di apprezzarlo, per tutta una serie di ragioni soggettive e, a volte, oggettive.

Ora, se l'amore è la grandiosa forza cosmica che produce l'esistente e lo mantiene armoniosamente in vita, è chiaro che ogni azione di un essente ai danni di un altro essente si configura come una violazione di tale armonia cosmica; mentre ogni azione pura e disinteressata si accorda e si fonde con essa. Nell'evento misterioso che costituisce l'incontro fra le anime di due essenti, la forma di sollecitudine più elevata è, appunto, il prendersi cura, espressione che compendia tutto quell'insieme di benevolenza, disinteresse, generosità, dedizione e fedeltà (nel senso più profondo e impegnativo della parola) che costituisce il livello più alto delle relazioni interpersonali. Ci era sfuggito dalla penna "delle relazioni umane interpersonali": ma l'esempio del cane che si lascia morire di fame sulla tomba del suo padrone dimostra che, in certi casi, anche gli essenti non-umani sono suscettibili di attingere alla sfera più elevata di questo cielo relazionale fra due essenti che si incontrano nel senso pregnante del termine.

La conclusione di tutto il nostro discorso è che instaurare una relazione profonda con l'altro significa contrarre un impegno che, per quanto non verbalizzato da nessun notaio e da nessun sacerdote, è tuttavia sacro al cospetto dell'Essere. Noi possiamo tradirlo, insozzarlo e calpestarlo a volontà: esso non cesserà di presentarsi alla nostra coscienza come un qualcosa di cogente, di vincolante, e ciò non per una qualche incomprensibile legge esterna, ma per la natura stessa del rapporto che lega gli essenti gli uni agli altri e che li lega tutti insieme, a loro volta, all'Essere da cui discendono e a cui aspirano a fare ritorno. Ecco perché tradire la fiducia e l'amore di un essente costituisce una violazione grave dell'armonia cosmica: non si tratta solo di un tradimento dell'altro, ma anche della parte più profonda e più vera di noi stessi; e, in definitiva, dell'Essere di cui siamo parte e grazie al quale si dipanano i fili delle nostre esistenze.

La nostra società attuale è povera di amore, tanto è vero che ha saputo creare una sola parola per designare sentimenti di natura assai diversa tra loro. Molto più giustamente i Greci avevano almeno tre vocaboli distinti: eros, per indicare l'amore passionale; phila, per designare l'amicizia profonda; e infine agape, corrispondente all'amore spirituale nella sua manifestazione più pura e disinteressata. È triste pensare che il nostro vocabolario si arricchisce di sempre nuovi termini linguistici, tanto da rendere obsoleti i dizionari quasi con la stessa velocità dei calcolatori elettronici; ma che esso non abbia saputo esprimere meglio e in maniera più circostanziata le diverse facce di un sentimento che solo per convenzione pensiamo ed esprimiamo come un tutto omogeneo. La verità è che siamo ridiventati analfabeti dei nostri stessi sentimenti, per quanti passi avanti siamo stati in grado di compiere sul piano tecnologico e scientifico. A quando la riscoperta del prendersi cura e dell'amore nel loro significato più profondo e impegnativo?