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Osceoala e la lotta dei Seminole per la libertà

di Francesco Lamendola - 28/08/2007

 

  

 

     Questo articolo è dedicato alla figura del capo indiano Osceola, nato verso il 1800 e morto in prigionia nel 1838, dopo che le autorità militari statunitensi, incapaci di batterlo sul campo, erano riuscite a catturarlo con un vergognoso tradimento, che ha pochi precedenti nella storia. È anche la rievocazione della eroica lotta del popolo Seminola che, respinto dalla "civiltà" dell'uomo bianco nelle paludi tropicali della Florida, popolate di serpenti e alligatori, seppe difendere con le armi la propria indipendenza e si oppose al trasferimento forzato nell'Ovest da parte del governo di Washington. Così i Seminole, fra i quali vivevano molti ex schiavi neri fuggiti dalle piantagioni della Georgia e di altri Stati del Sud, possono ancor oggi vantarsi di esser l'unico popolo nativo del Nord America che non piegò mai la testa e non si indusse mai a firmare uno di quei  fraudolenti "trattati di pace" con i quali gli Stati Uniti  derubarono delle loro terre e poi deportarono, uno dopo l'altro,  tanti popo amerindiani.

      Fin dalle primissime battute, l'incontro fra il pellirossa e l'uomo bianco nella "Tierra Florida" fu uno scontro senza quartiere.  Gli Europei che, nel XVI secolo, penetrarono in questo angolo del Nord America, erano avventurieri spagnoli attratti irresistibilmente dal miraggio dell'oro e della fontana dell'eterma giovinezza. Juan Ponce de Leòn nel 1513 e nel 1521, Pànfilo Narvàez nel 1528, Hernando de Soto nel 1539 condussero delle scorrerie a caccia di tesori, più che dei tentativi di conquista. Li distinguevano dai più famosi conquistadores del Centro e Sud America una cupidigia e una crudeltà, se possibile, ancora più smisurata.

      De Soto, per esempio. Luogotenente di Francisco Pizarro nel Perù, era stato nominato da Carlo V governatoredi Cuba nel 1538, e di lì aveva organizzato la spedizione in Florida. Una antica cronaca ci informa che egli "provava il più squisito piacere nell'uccidere ogni indiano che incontrasse sul suo cammino, fosse un guerriero o una donna, un bambino o un vecchio, e  nulla lo rallegrava di più, dopo la vista dell'oro, che lo spettacolo degli indigeni sfigurati e morti, stesi, in mucchi sanguinanti, ai suoi piedi." (1)  Una stampa dell'epoca, olandese o francese, ci mostra gli Spagnoli intenti a tagliar mani e piedi agli Indiani a colpi di scure. (2)

      La spietatezza di De Soto era superata soltanto dalla sua avidità di tesori. Il più debole indizio della presenza di metalli preziosi lo faceva trasalire.  Quando catturò la graziosa figlia dodicenne del cacicco Caliquin, i suoi occhi brillarono vedendo ch'ella portava al polso un bracciale di piccole lamine d'oro. (3)  Ma la Florida non era il Messico, né il Perù: non aveva miniere per placare la fame insaziabile degli Spagnoli. Essi stavano ormai grattando il fondo della pentola, lo intuivano e ciò li rendeva ancor più furiosi. Inseguendo dei fuochi fatui, De Soto si spinse fino al Mississippi sulle cui rive, nel giugno del 1542, non trovò i tesori agognati ma la morte per sfinimento. (4)

      Delusi, gli Spagnoli avrebbero forse abbandonato per sempre la Florida come una terra senza valore, se nel 1562, sul fiume St. John, non si fosse stabilita una colonia di ugonotti. Il sacro dovere di estirpare il diavolo dal Nuovo Mondo guidò allora la spedizione di Pedro Menendez de Avila che, nel 1563, passò a fil di spada  tutti i coloni (varie centinaia di persone), "non come Francesi, ma come eretici", lasciando a quel luogo il triste nome di Laguna del Massacro ("Matanza"). (5)  Dopo di che, gli Spagnoli fondarono Sant'Agostino, la più antica città degli odierni Stati Uniti (6), e rimasero padroni della regione per i successivi due secoli. In realtà, la loro signoria non andò mai oltre le poche basi costiere (Pensacola nel 1696, Mobile nel 1702) e, a differenza che nel passato, non arrecò serie alterazioni nella vita materiale e spirituale degli indigeni.

       Le tribù con le quali aveva avuto a che fare De Soto  uscirono, poco alla volta, dalla scena della storia. Di esse non sappiamo molto, poiché oggi non ne rimane più alcuna traccia. Pare che avessero una organizzazione politico-sociale piuttosto progredita, facente capo, almeno nel caso dei Timucua, i meglio conosciuti, all'autorità del cacicco. (7)  Certamente essa era grande; la sposa del cacicco godeva degli attributi di una regina e veniva portata in processione su di una ricca portantina, scortata dai guerrieri e seguita da un corteo di fanciulle recanti canestri di fiori e frutta. (8)  Ma in Florida, come in tutto il Nord America, non sorsero mai dei "regni" indiani, almeno nel significato che noi occidentali attribuiamo a questa parola. Normalmente, infatti,  la carica di cacicco non era ereditaria e ogni tribù viveva per proprio conto; solo in casi eccezionali si formavano delle leghe più vaste a carattere militare.

      I Seminole, che oggi vivono in piccolo numero nelle riserve della Florida centrale e meridionale, oltre che dell'Oklahoma, non esistevano allora come gruppo etnico separato. La regione compresa fra il basso Mississippi, il Tennesse, il Savannah e il mare era abitata da alcune tribù fra le più progredite del Nord America: Choctaw, Chickasaw, Creek e Cherokee. Esse ebbero più tardi, dai bianchi, insieme ai Seminole, l'appellativo di "Cinque tribù civilizzate". Erano quelle più permeate dai modi di vita introdotti dai coloni e animate, in molti casi, da un sincero desiderio di pacifica convivenza con questi ultimi. Per dare un'idea del grado di sviluppo raggiunto da questi Indiani, basterà dire che fu un Cherokee di nome Sequoyah ad inventare il primo alfabeto indigeno del continente, col quale tradusse parte della Bibbia importata dai missionari. (9)

      Queste tribù praticavano in larga misura l'agricoltura nella fertile pianura tra gli Appalachi e il Golfo del Messico e la loro cultura non era basata, come quella delle tribù dell'Ovest, sul bisonte. Nella seconda metà del XVIII secolo si verificò un notevole sovrappopolamento della regione, e una parte degli agricoltori Creek stanziati lungo il corso inferiore del fiume Chattahoochee (10) migrarono verso sud e sud-est, nella regione - in parte paludosa - posta al di là dell'Altamaha e dell'Apalachicola.  Questa fu la prima origine dei "Seminole", una parola creek che significa, appunto, "transfughi". (11)  Essa cominciò ad essere adoperata dai bianchi dopo il 1775, per designare i nuovi abitanti indigeni della odierna Florida settentrionale; prima di tale data essi non venivano ancor distinti dal gruppo principale dei Creek. (12)

     I Seminole assunsero la loro definitiva personalità etnica e culturale in seguito all'apporto di parecchie tribù minori e soprattutto di schiavi negri che fuggivano dalle piantagioni dei bianchi attraverso il confine della Georgia. Gli Indiani accoglievano di buon grado quei rifugiati, che sentivano vicini al loro modo di vita e ai quali li accomunava l'avversione per i bianchi, che ogni giornosi facevano più aggressivi e numerosi. Nacque così una singolare alleanza tra i pellirosse, minacciati dalla continua espansione dei coloni di origne europea, e gli ex schiavi negri che avevano sperimentato la disumana durezza di questi ultimi: un caso unico nella storia del Nord America. Si potrebbe citare invece, per il Sud America, il caso della Repubblica di Palmares, in Brasile (18); ma, mentre quella era stata quasi interamente una iniziativa africana, qui il "proletariato interno" (i neri) e quello "esterno" (gli Indiani) si diedero fraternamente la mano, rinnovando lo spirito delle antiche alleanze fra barbari e schiavi al tempo dell'Impero Romano.  (14) Non esistevano pregiudizi fra neri e pellerossa; i matrimoni misti erano frequenti sia da una parte che dall'altra; e, ancor oggi, tratti somatici di tipo negroide possono essere agevolmente rintracciati nella fisionomia di parecchi Seminole.

      Le nuove sedi dei Seminole erano molto diverse dalle antiche, e vi fu un conseguente cambiamento anche nel sistema economico e nei costumi. La regione bagnata dall'Apalachicola, dallo Shawnee dal St. Johns River gode di un clima già decisamente sub-tropicale, e le areee non occupate dalle estese paludi erano ricoperte da una lussureggiante foresta caldo-umida. In questo ambiente popolato da alligatori, serpenti velonosi come il crotalo diamantino, e da una quantità di uccelli acquatici, i Seminole non potevano praticare l'agricoltura e si trasformarono in cacciatori, pescatori e raccoglitori. In linea di massima, però, conservarono la pratica della sedentarietà e non regredirono allo stadio di nomadi. L'ambiente difficile e ostile, ma incontaminato e soffuso di una bellezza struggente, rafforzò il loro già spiccato sentimento dell'indipendenza e li preservò a lungo dalla minaccia di invasione e di deculturazione da parte dei bianchi, che grado a grado stavano stringendo il cerchio sui confini del loro territorio. (15)

 

      Nel 1763, sconfitta nella guerra dei Sette Anni, in cui aveva incautamente seguito le sorti della Francia, la Spagna dovette cedere la Florida alla Gran Bretagna. (16)  A quel tempo, la Florida era assai più estesa dello Stato che oggi porta quel nome, poiché comprendeva, oltre alla Penisola omonima, tutta la regione meridionale del Mississippi e dell'Alabama; amministrativamente era divisa in Florida Occidentale e Orientale, separate dal corso dell'Apalachicola. La signoria britannica durò un ventennio e, tutto sommato, rafforzò l'indipendenza dei Seminole, che durante la Rivoluzione americana vennero utilizzati per attaccare i coloni "ribelli" della Georgia e delle due Caroline. Tuttavia questi episodi, aggiungendosi alla tensione esistente per la quesione degli schiavi neri fuggitivi, fece calare fra Americani e Seminole un'ombra che non sarebbe più dissipata.

      Nel 1783, esattamente vent'anni dopo averla perduta, la Spagna riebbe la Florida dalla Gran Bretagna, in premio per il suo intervento al fianco dei vittoriosi Stati Uniti, riconosciuti ormai come nazione indipendente e sovrana. Ad essi cedette, nel 1802, una larga porzione della provincia occidentale, contentandosi di mantenere alcune modeste guarnigioni nelle piazzeforti costiere. In questo periodo i Seminole continuarono a guerreggiare contro i coloni della Georgia, con la connivenza degli Spagnoli e l'incitamento e l'aiuto materiale dei Britannici. Al principio del XIX secolo (si calcola che le diverse tribù seminole fossero allora una ventina) la situazione era ormai matura per dare luogo a un conflitto aperto.

 

      La causa occasionale della prima guerra seminole (1817-18) può esser considerata il durissimo trattato che, nel 1814, Andrew Jackson aveva imposto ai Creek dell'Alabama, dopo averli sconfitti alla testa di una formazione di volontari del Tennessee. In base al trattato, gli Indiani dovevano cedere le loro terre al vincitore, ma i Seminole ammonirono i coloni a non tentare di occuparle. I Seminole, a loro volta, erano incoraggiati da due avventurieri inglesi, tali Arbuthnot e Ambrister, che li rifornivano di armi e munizioni e lasciavano intendere un possibile intervento, in loro aiuto, da parte del governo di Londra. Ancora nella guerra anglo-americana del 1812-15, infatti, il Governo britannico si era servito dei Creek e dei Seminole contro gli Americani, e un capo seminole di nome Hillis Hago aveva ricevuto il grado di brigadiere da parte di un alto ufficiale inglese. (17) 

      Le promesse di aiuto da parte della Gran Bretagna erano una chimera, ma i Seminole non lo sapevano. Così, quando alcuni coloni penetrarono nelle terre cedute dai Creek nel 1814, i Seminole li attaccarono e ne uccisero diversi. Le autorità degli Stati Uniti decisero di reagire con energia, applicando al tempo stesso l'antica tattica del "divide et impera". Nel 1816 il maggior generale Edmund P. Gaines , al comando di una colonna formata da fanteria statunitense e da indiani Creek alleati, distrusse un forte tenuto dai neri e Seminole sul fiume Apalachicola. Questo atto precipitò la guerra.

      Per vincere l'accanita resistenza dei pellirossa fu richiamato Andrew Jackson, che già godeva fama di eroe presso l'opinione pubblica per la vittoria del 1813 sui Creek e, soprattutto, per quella dell'8 gennaio 1815 sugli Inglesi che avevano attaccato New Orleans. Nel maggio del 1817 egli attaccò i Seminole con un forte esercito di volontari del Tennessee e del Kentucky. Gli ordini del presiente James Monroe e del ministro della guerra erano di inseguire gli Indiani, se necessario, anche  oltre la frontiera della Florida spagnola, ma di non spingersi fino a entrare in contatto con le guarnigioni dei tre forti di Pensacola, St. Marks e St. Augustine. Egli, invece, andò al di là delle istruzioni ricevute, occupò armi alla mano sia St. Marks che Pensacola, ammainò la bandiera rosso-oro della Spagna ed espulse il governatore spagnolo, in virtù delle quali azioni raggiunse una popolarità immensa fra i cittadini degli Stati Uniti.

      I Seminole, sia per la loro inferiorità numerica e di armamento, sia per le caratteristiche stesse del terreno, evitarono lo scontro in campo aperto e si diedero a una disperata e micidiale guerriglia. Una colonna dell'esercito americano che, imprudentemente, marciava per ricongiungersi  a Jackson accompagnata da donne e bambini, cadde in un'imboscata e venne totalmente distrutta  dal capo Himollemico. Certo, quei civili bianchi furono vittime innocenti di una guerra spietata, ma la responsabilità di quanto era accaduto ricadeva sulla irresponsabilità dei comandi americani; senza contare che Jackson, in quel medesimo tempo, si era  impegnato a distruggere sistematicamente i villaggi dei Seminole. Ma l'opinione pubblica degli Stati Uniti era inorridita  per il massacro del distaccamento militare e dei civili, e invocava a gran voce vendetta; e Jackson, l'eroe del momento, "si precipitò in Florida come una fiamma vendicatrice". (18)  Pefino nella storiografia americana d'oggi si sente palpitare un fremito di orgoglio nella rievocazione delle gesta del discutibile eroe.

      Sia Himollemico che Hillis Hago vennero catturati, col tradimento, nella baia di St. Marks, in territorio spagnolo, e impiccati senza pocesso il 7 aprile 1818. Più difficile si rivelò il compito di metter le mani sull'altro capo seminole, Billy Bowlegs (Billy Gambastorta), col quale gli Americani giocarono inutilmente a rimpiattino fra le foreste e le paludi intorno al fiume Suwanee. Jackson dovette accontentarsi di sfogare la propria rabbia facendo impiccare Arbuthnot e mandando Ambrister, ex ufficiale dell'esercito inglese, davanti al plotone d'esecuzione. Ne scaturì un incidente diplomatico con la Gran Bretagna (19), presto appianato, che andava ad aggiungersi a quello, ancor più grave, con la Spagna. Jackson, infatti, non pensava per nulla di restituire la Florida al governo di Madrid e, prima di far ritorno nel Tennessee per cogliere gli allori delle sue imprese, lasciò a Pensacola una guarnigione dell'esercito statunitense. 

      Aveva agito in tutto e per tutto come una potenza sovrana, disprezzando la diplomazia, la magistratura e, a ben guardare, il suo stesso governo: ma era proprio questo che piaceva agli Americani. Il presidente Monroe non ebbe il coraggio di punirlo. Il governo spagnolo, dal canto suo, si convinse definitivamente che la Florida era intenibile, e preferì concentrare le sue poche forze nell'impossibile tentativo di  riconquistare il suo Impero nell'America Latina, che in quegli anni stava andando in pezzi sotto la spinta rivoluzionaria. Sia pure a malincuore, il re Ferdinando VII di Borbone vendette così la Florida a John Quincy Adams, segretario di Stato di Monroe, col trattato Adams-Onìs del 1819, ratificato poi nel 1821.

     Da quel momento fu chiaro che il problema seminole avrebbe finito per tornare al pettine. (20)  La Spagna, proprio per la sua lontananza e debolezza,  non aveva mai dato molto fastidio agli Indiani dopo l'epoca dei conquistadores; ma, adesso che la Florida era divenuta un territorio statunitense (21), le cose sarebbero cambiate radicalmente. Gli accampamenti dei marroons, gli schiavi fuggiti dalla Georgia, non avevano più la protezione di una frontiera internazionale, come non l'avevano i villaggi  dei Seminole, quantunque  si fossero spostati più all'interno, nel cuore delle foreste acquitrinose. D'altra parte, i coloni di vecchia e di recente data  erano solidali con i grandi piantatori della Georgia e dell'Alabama, proprietari di schiavi, nel reclamare da Washington una politica più decisa contro i Seminole, che di fatto non si erano arresi. Dopo il 1820 esistevano, dunque, tutte le premesse per una nuova guerra indiana in questa regione.

 

      Le cause remote della seconda guerra seminole (1835-42) possono farsi risalire alla decisione di Andrew Jackson, divenuto presidente degli Stati Uniti nel 1829, di trasferire in massa le Cinque Tribù Civilizzate al di là del Mississippi. Egli era stato portato al potere dalla fama di sterminatore d'Indiani e fu, quindi, del tutto logico che fin dal suo primo messaggio al Congresso lanciasse l'idea del trasferimento forzato. (22)  Ipocritamente tentò di giustificarlo, affermando che, oltre il Mississippi, gli Indiani avrebbero goduto per sempre, indisturbati,  delle loro nuove sedi; si trattava, in effetti, di un progetto razzista talmente odioso e spietato da far impallidire la recente cacciata dei Bantu sudafricani dalle loro terre native dentro i bantustans predisposti dal governo di Pretoria negli ultimi anni dell'apartheid (23); e perfino i progetti di "pulizia etnica" portati avanti nei Balcani  degli anni '90 del secolo scorso (Bosnia, Slavonia, Kosovo).

      Il 28 maggio 1830 il Congresso approvò il progetto, trasformandolo in legge. Ebbe quindi inizio la pagina più dolorosa nella storia dei Chickasaw, dei Choctaw, dei Cherokee, dei Creek e dei Seminole. Dopo essere stati costretti a firmare dei faudolenti trattati di cessione delle loro antiche terre, iniziarono la terribile marcia verso l'Oklahoma con le baionette dei soldati alle reni. Il freddo, la fame e le malattie li decimarono lungo il percorso, i rifornimenti promessi dal governo non arrivavano, o arrivavano avariati e in quantità insufficiente, le donne e i bambini cadevano sfiniti lungo la marcia. Un quarto dei Cherokee, per citare solo una delle Cinque Tribù, morirono durante la migrazione forzata. Quel viaggio è ancor oggi ricordato  da quella tribù come "la pista del pianto". (24) 

      La stragrande maggioranza di quei nobili popoli si era opposta fino all'ultimo alla partenza, e vi era stata costretta solo con la violenza.  I capi che s'indussero a firmare il trattato col governo statunitense ritennero, in certi casi, di aver agito per il meglio, ma si attirarono un odio mortale da parte dei  fieri compagni. Il capo  cherokee John Ridge, che nel 1835 aveva firmato la cessione delle terre in Georgia, fu assassinato il 22 giugno 1839 da alcuni seguaci di John Ross, un altro capo che si era inutilmente opposto al trattato. (25) Ciò può dare un'idea dello stato d'animo degli Indiani delle Cinque Tribù in quel momento storico.

 

 

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      Osceola, il leggendario capo indiano che avrebbe guidato i Seminole nella loro seconda guerra d'indipendenza, era nato verso il 1800 sul fiume Tallapoosa presso una tribù di Creek. Ancor piccolo, venne condotto in Florida da sua madre e accolto fra i Seminole, come tanti altri profughi della sua gente. (26)  Aveva dunque circa tredici anni quando il grande capo shawnee Tecumseh, che aveva tentato di confederare le tribù del Middle West contro i bianchi,  cadde nella battaglia del Thames; e ne aveva diciassette al tempo della prima guerra seminole. Fu allora che imparò, giovane guerriero, l'arte della guerriglia, da lui più tardi portata al massimo grado di perfezione. Ma soprattutto si mise in luce fra i Seminole, che ormai lo consideravano uno dei loro, per il suo coraggio in battaglia e per la fermezza con cui si oppose alla firma della cessione delle terre e al trasferimento nel lontano Territorio Indiano.

       Possediamo un suo ritratto, oggi conservato presso la Biblioteca della Società storica di St. Augustine: esso ci presenta un giovane ribusto, dallo sguardo intelligente e dall'aspetto fiero, con una acconciatura di piume d'uccello e armato, come gran parte dei Seminole, di una moderna carabina. I lineamenti del volto sono fini, il naso sottile, lo sguardo penetrante. Il famoso pittore George Catli, che lo conobbe e lo stimò negli ultimi giorni di vita, ha saputo coglierne la fierezza e l'intelligenza, nonché la naturale eleganza del portamento. Questo era l'uomo al quale i Seminole si rivolsero perché li guidasse nello scontro decisivo con i bianchi.

 

      Fin dal 1823 i Seminole avevano ceduto al governo di Washington una buona parte delle loro antiche terre nella Florida settentrionale, spostandosi più a sud. Ma la politica indiana del presidente Jackson, come abbiamo visto, aveva altri e più ambiziosi disegni. Gli agenti dell' ufficio per gli affari indiani ripeterono la tattica già sperimentata con le altre quattro tribù, e sottoposero  ai vari capi seminole dei nuovi trattati. I capi, convinti di non potersi opporre, li firmarono: a Payne's Landing nel 1832, e a Fort Gibson nel 1834. In base ai trattati, essi cedevano tutte le terre che ancora occupavano in Florida, e accettavano di trasferire le proprie tribù a ovest del Mississippi. Era una capitolazione totale. È vero che una clausola accennava al fatto che essi si sarebbero insediati nel Territorio Indiano (la futura Oklahoma) se avessero trovato soddisfacenti le terre colà assegnate dal governo degli Stati Uniti. (27)  Era chiaro, tuttavia, che si trattava di un mero espediente, che faceva balenare ai Seminole l'illusione di conservare un minimo di capacità contrattuale, per addolcir loro l'amaro calice. Una volta che si fossero messi in marcia sulla "strada del pianto", scortati dai soldati, non avrebbero avuto più alcuna prospettiva di tornare indietro; e, del resto, l'assegnazione di terre favorevoli all'insediamento era lasciata interamente a discrezione delle autorità statunitensi. Di fatto, tutto quel che si sapeva dell'Oklahoma era che si trattava di una regione completamente diversa dalla Florida e anche dalla Georgia, di una landa semiarda e in parte quasi desertica. Difficilmente i Seminole, uomini della foresta e della palude, avrebbero potuto abituarvisi; il loro genere di vita e la loro economia avrebbero subito uno sconvolgimento toale, e incerte apparivano le stesse propsettive dell'agricoltura.  È logico, quindi, che la firma dei trattati, che già aveva provocato un fortissimo malcontento fra la gente Creek, desse luogo a una inquietudine e a un profondo risentimento tra gli orgogliosi Seminole.

      Fu in un tale contesto di profondo malessere, di insicurezza e di autentica disperazione che Osceola si fece avanti per rivendicare il diritto dei suoi fratelli di adozione a rimanere sulle terre dei propri padri. Col suo atteggiamento risoluto e intransigente, egli accendeva una fiamma di speranza fra tutti quei Seminole che, in cuor loro, non si erano rassegnati alla deportazione. Al tempo stesso, il suo contrasto con le autorità militari statunitensi e con la fazione tribale favorevole all'osservanza dei trattati divenne scontro aperto e irrimediabile.

     

      Nel 1835 si giunse alla rottura completa. Durante un incontro con l'agente indiano Wiley Thompson, il fiero Osceola assunse un tono di sfida e, forse, di esplicita provocazione. È impossibile ricostruire esattamente che cosa i due uomini si dissero, ma è certo che il Seminole deprecò la firma dei trattati e si oppose con la massima energia alla prospettiva del trasferimento nell'Oklahoma. Forse fu a quell'occasione che va ricondotto l'episodio, del restro troppo aneddotico per non apparire una rielaborazione fantastica, di Osceola che straccia col pugnale il foglio del trattato già pronto per la ratifica, esclamando: "È così che Osceola firma i patti fraudolenti!".(28)  Il risultato di tale sfida alla arroganza dei bianchi fu che le auorità militari procedettero senz'altro all'arresto e all'imprigionamento del giovane capo.

      Non si trattò di una detenzione molto lunga. I rappresentanti del governo americano in questo nuovo Territorio ignoravano la pericolosità del loro futuro avversario e, probabilmente, intendevano solo dare un esempio, mostrando che nessuno poteva impunemente insultare gli agenti indiani. Ma Osceola aveva giurato vendetta, e non appena rimesso in libertà si accinse a realizzarla. Poco dopo, infatti, cadevano uccisi di sua mano tanto Wiley Thompson, quanto il capo seminole che si era prestato a firmare l'iniquo trattato.

     Con tale gesto, Osceola aveva rotto ogni ponte dietro di sé. La reazione delle autorità statunitensi, questa volta, sarebbe stata implacabile, ed egli si accinse a fronteggiarla organizzando con autentico genio militare la resistenza dei suoi pochi seguaci. Le truppe americane, subito accorse, trattarono da nemico ogni Seminole che incontrarono e, così facendo, precipitarono lo scoppio della seconda guerra seminole, che sarebbe stata molto più sanguinosa, difficile e lunga della prima, poiché non sarebbe terminata prima di sette anni (1835-1842).

      Il piccolo gruppo di Osceola cominciò ad ingrossare un giorno dopo l'altro. Nel volger di poco tempo solo vecchi, donne e bambini erano rimasti nei villaggi semi-deserti e, spesso, fu contro queste persone inermi che i soldati degli Stati Uniti sfogarono la loro rabbia impotente. Consapevole di non poter nemmeno sperare di battere il nemico in campo aperto, Osceola si internò nel cuore dei territori paludosi della Florida centrale (allora assai più estesi che oggi), ove seppe mettere a punto una efficacissima strategia di guerriglia. Praticamente tutti gli uomini validi, sia Indiani che neri, si erano portati sotto la sua guida, e ciò gli permise di compiere anche delle azioni in grande stile.

      Nel corso del 1835, per esempio, una intera colonna militare satunitense, forte di 110 uomini bene armati, venne attirata in una trappola nella boscaglia, e totalmente distrutta. Un solo superstite riuscì a fuggire e a riportare la notizia che tutti i suoi compagni erano stati uccisi o fatti prigionieri. (29) La cosa era sconvolgente per l'alto comando americano, che aveva sempre disprezzato l'avversario, e ancor più per l'opinione pubblica delle grandi città dell'Est, che - oltretutto male informata circa le difficoltà logistiche di una guerra nelle paludi e nelle foreste di mangrovie - si era aspettata di leggere sui giornali le notizie esaltanti di una "splendid, little war": una guerra breve che avrebbe offerto un magnifico palcoscenico alle gesta di valore dei suoi ufficiali, addestrati nella celebre accademia di West Point.

 

      Un brivido di emozione corse a Washington e per tutti gli Stati Uniti. L'opinione pubblica chiedeva come fosse mai possibile che un pugno di "selvaggi" tenesse in scacco l'esercito e ne facesse a pezzi interi distaccamenti, bene armati ed equipaggiati e dotati perfino di artiglieria. Per ristabilire la situazione e per lenire l'orgoglio ferito della nazione, venne allestita una spedizione punitiva senza precedenti. Nel 1836 venne inviato in Florida un esercito di ben 10.000 uomini (30), e alla testa di esso venne posta una serie di capi militari che vennero silurati e sostituiti, in rapidissima successione, segno evidente del nervosisimo e dell'ansia di rivincita degli alti comandi politici e militari. Entro la fine di quello stesso anno il comando in capo era passato dal geneale E. P. Gaines a Winfield Scott, a Richard K. Call, a Thomas Sidney Jesup. Quest'ultimo, come vedremo, sarebbe passato alla storia come l'autore di un atto talmente disonorevole, da macchiare per sempre sempre il suo onore militare.

      Dapprima l'imponente spiegamento delle forze statunitensi non servì ad altro che a distruggere dei villaggi indiani indifesi, e a massacrare i pochi abitanti rimastivi, mentre Osceola rimaneva imprendibile e continuava i suoi esasperanti colpi di mano attraverso la boscaglia. Anche la marina da guerra venne mobilitata e impiegata nella campagna, per sorvegliare e bloccare le coste in modo che nessun carico d'armi raggiungesse i Seminole dall'esterno, com'era accaduto al tempo della prima guerra (ma allora gli Indiani godevano di qualche appoggio fra i Britannici, mentre adesso erano completamente soli). Intanto, reparti di frontiersmen si univano alle truppe regolari in quella che fu una guerra partocolarmente sentita, in cui si fondevano l'orgoglio di una potenza politico-militare in ascesa, dalle ambizioni ormai non solo continentali, ma mondiali, e un pregiudizio razziale in base al quale "il solo Indiano buono è quello morto".

 

      Finalmente, nel dicembre del 1837, Zachary Taylor riuscì a intrecettare una grossa banda di Seminole, guidati dal capo Arpeika, e la attaccò in campo aperto. Questa battaglia ebbe luogo presso le rive del Lago Okechoobee ed è stata, naturalmente, alquanto abbellita dalla tradizione letteraria ed iconografica del nazionalismo statunitense. Come già nel caso di Jackson, si trattava di esaltare il successo militare di un futuro presidente degli Stati Uniti d'America (Taylor ricoprì la carica dal 1849 al 1850 e fu il dodicesimo presidente alla Casa Bianca). Una raffigurazione conservata alla Chicago Historical Society, per esempio, mostra Zachary Taylor, a cavallo, che incita i suoi all'attacco, roteando la sciabola, le giacche blu avanzano con impeto irresistibile, l'aria furibonda dei vendicatori; in primo piano, un soldato immerge la baionetta nel ventre di un Seminole.

 

    "Le truppe del colonnello Taylor continuavano a procedere oltre il lago Istopoga verso il lago Okechoobee dove i Mikasuki si stavano preparando allo scontro decisivo. Man mano che i soldati avanzavano, Arpeika e Coacoochee si ritiravano, rifiutandosi di combattere su un terreno che favoriva i cavalleggeri. La mattina di Natale del 1837, Arpeika prese posizione in una conca dove folti alberi d'alto fusto fornivano ua protezione eccellente e le forze nemiche sarebbero state costrette ad avanzare attraverso una palude in cui l'erba ispid e pungente era alta un metro e venti o un metro e mezzo. Arpeika e i suoi Mukasuki, appoggiati da Otalke Thlocko (Profeta) costituivano l'ala destra degli Indiani. Al centro c'erano i guerrieri di Halphatter Tustenuggee, sulla sinistra, Coacoochee con 80 guerrieri. Complessivamente le forze indiane, a giudicare dalle cifre fornite in seguito da Alligatore, erano composte da 400 guerrieri." Così lo studioso Edwin C. McReynolds, nella sua fondamentale monografia Seminole.Il popolo che non si arrese mai all'uomo bianco (Milano, Rusconi ed., 1996, p. 198).

 

      Il lago Okechobee si apre nella zona più interna della Penisola di Florida, al limite nord delle Paludi di Everglades (a quel tempo ancor più vaste e selvagge), e riceve le acque del Kissimee River. Ha forma ellittica ed è lungo 56 km., largo 48 e profondo meno di cinque metri. Sulle sue sponde, ammantate da una densa vegetazione tropicale e popolate di alligatori e velenosissimi crotali, si svolse l'unico fatto d'armi di vaste proporzioni dell'intera campagna. Il numero assai superiore e il miglior armamento delle truppe statunitensi decisero le sorti della giornata, certo assai più che il genio strategico del generale Taylor. Nella storiografia mercenaria d'ogni tempo e paese è, comunque, un "diritto" dei vincitori quello di esagerare e gonfiare a dismisura la portata dei propri successi. (31)

 

      A causa di tutti i detriti accumulati dalla tradizione retrorica, è difficile tornare al documento puro e dire come andò realmente la battaglia.  Comunque, è certo che lo scontro non si risolse in quella vittoria travolgente che la tradizione americana vuol far credere. È vero che le truppe del generale Taylor rimasero, alla fine, padrone del campo, tuttavia fallirono sia nel tentativo di accerchiare e distruggere i Seminole, sia nell'inseguimento, che al calar del buio dovette essere sospeso. Al termine della giornata si contarono 26 morti fra le truppe di Taylor, tra cui parecchi ufficali, e ben 112 feriti; dall'altra parte, Arpeika aveva lasciato sul terreno solo nove Seminole e un nero. Siamo dunque ben lontani da quella vittoria decisiva che i bianchi vollero far credere, tanto più che gli Indiani, ancora una volta, si erano mostrati incomparabilmente superiori a livello tattico e nello sfruttamento delle condizioni del terreno, nonché nella capacità di sganciarsi da un nemico superiore e di rompere il contatto, praticamente senza subire perdite.

      A partire da quel momento,  tuttavia, le condizioni della loro resistenza, premuti da un nemico enormenente più numeroso e meglio armato, cominciarono a farsi drammatiche. Il loro morale, tutavia, era ancora alto, e forse l'esercito degli Stati Uniti non sarebbe mai venuto a capo di nulla se non avesse fatto ricorso al tradimento.

 

      Il 21 ottobre 1837, Osceola si era presentato presso le linee americane per discutere con gli ufficiali statunitensi. Faceva assegnamento unicamente sulla bandiera bianca del parlamentare. Atto di ingenuità politica o di estrema e coerentissima fede nella giustizia della propria causa? Se fu ingenuità, anche Emiliano Zapata, il più amato e il più nobile e disinteressato fra i protagonisti della Rivoluzione messicana, ne commise una analoga, che gli costò la vita. Osceola, però, a differenza di Zapata, non fu ucciso. Ciò ne avrebbe fatto un martire, e le autorità militari erano abbastanza furbe da non desiderarlo. Venne invece arrestato a tradimento nel corso delle discussioni, e trasportato, in catene, a Fort Moultrie.

     In seguito il generale Jessup, nel suo rapporto al ministro della guerra, difese strenuamente il poprio operato, sostenendo che arestare Osceola era stato un suo pieno diritto, oltre che un preciso dovere. Tra le altre cose, affermò:

 

      "Poiché avevo informato i capi a Fort King che non volevo più avere contatti con i Seminole a meno  che non si decidessero a trasferirsi; poiché non avevo permesso a nessun Indiano di presentarsi per altri scopi che non fossero quelli di rimanere; poiché costoro erano tutti prigionieri di guerra oppure ostaggi che non avevano tenuto fede alla loro parola d'onore; poiché molti non avevano tenuto fede ai patti della tregua stabilita a Fort King… e poiché la bandiera bianca non era sata loro concessa per nessun altro scopo all'infuori di quello di parlamentare… senza pericolo di attacchi delle nostre truppe, era diventato un dovere, per me… catturarli dopo essermi convinto… che avevano intenzione di tornare nei loro luoghi fortificati…" (da E. C. McReynolds, cit., pp. 200-01).

 

 

     La fine di questo nobile guerriero pellerossa fu consumata in una oscurità in cui la sua grandezza, invece di sbiadire, giganteggia. Fu sottoposto a pressioni fisiche e morali nella vana speranza, da parte dei carcerieri, di spezzarne la fierissima volontà. Tra l'altro, venne lasciato esposto al freddo e alla pioggia sul fondo di una buca scavata nel terreno, dove contrasse una fatale polmonite. Poco dopo, era morto: lontano dalla sua gente, lontano dalla terra che aveva tanto amato e per la quale si era strenuamente battuto. Era il gennaio del 1838. (32)

 

 

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      La scomparsa di Osceola non riuscì a far cessare l'eroica e disperata resistenza dei Seminole. La sua cattura proditoria non risultò decisiva sul piano psicologico, più di quanto la battaglia sulle rive del lago Okechoobee lo era stata sul piano militare. La guerriglia, infatti, continuò ancora per quasi cinque anni, fino al 1842. A quella data, circa 4.000 Seminole vennero trasferiti forzatamente nel Territorio Indiano, dopo essersi arresi, mentre alcune centinaia riuscivano a rompere l'accerchiamento e si rifugiavano nelle paludi ancora più a sud, senza deporre le armi, dove l'esercito americano non se la sentì di inseguirli per andarli a stanare. (33)  Nel 1855-58, anzi, tornarono a combattere a viso aperto in quella che è stata chiamata dagli storici la terza giuerra seminole.

 

      L'indomiuta resistenza di quei pochi valorosi non fu inutile. Alcuni di essi, memori dell'esempio e del sacrificio di Osceola, combattendo riuscirono a strappare per sè e perle loro famiglie il diritto a rimanere nella "Tierra Florida", dove infatti vivono ancor oggi i loro discendenti. Nessuno di loro firmò mai un trattato con le autorità statunitensi. Tuttavia, nel 1923, la loro autonomia venne riconosciuta, di fatto e di diritto, con la costituzione dei loro territori in Riserva indiana.

      In Florida, non nella lontana Oklahoma. Il sogno generoso di Osceola e di quanti erano con lui caduti si era infine realizzato.

 

 

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Note.

 

1)     Atlante (serie Oro), Novara, Istituto Geografico De Agostini, vol. 2, 1960, p. 456.

2)     H, WRIGHT- S. RAPPORT, I grandi esploraori, Roma, Le Maschere ed., 1957, p. 338.

3)     H. O. MEISSNER, L'imperatore mi regala la Florida, Catania, Edizioni Paoline, 1972, p. 89. Tuttavia l'Autore, non si sa su quali basi, afferma (p. 94) che De Soto "non era spietato come la maggior parte degli altri conquistadores.

4)     S. ZAVATTI, Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 264-65, con relativa bibliografia.

5)     CH. DE LA RONCIERE, La scoperta della Terra, Torino, S.A.I.E., 1958, pp. 190-91.

6)     P. CHANG, Florida, Benchmark Books, Marshall Cavendish, New York, 1998, pp. 35-39.

7)     CH. DE LA RONCIERE, Op. cit., pp. 187-92.

8)     Atlante, cit., pp. 458-59.

9)     Cfr. J. RIDGE, Sequoyah e l'alfabeto dei Cherokee, in C. HAMILTON, Sul sentiero di guerra. Scritti e testimonianze degli Indiani d'America, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 311-12.

10)Che segna, oggi, il confine tra la Georgia e l'Alabama.

11)Enciclopedia Europea, Milano, Garzanti, 1980, vol. 10, p. 391.

12)The American Peoples Encyclopedia, 1969, vol. 16, p. 437.

13)Essa era formata da schiavi neri fuggiti dalle piantagioni del Brasile nel XIX secolo, sopravvisse  per circa settant'anni, ebbe un proprio governo organizzato e arrivò a contare 20.000 uomini. Cfr. H. HERRING, Storia dell'America Latina, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 161, 314.

14)A. J. TOYNBEE, Storia comparata delle civiltà (compendio di D. C, Somervell), Roma, Newton Compton, 1964 (3 voll.), vol. 2, pp. 21-64.

15)La Georgia fu costituita in Stato federato nel 1788, la Lousiana (venduta dallla Francia di Napoleone) nel 1812, il Mississippi nel 1817, l'Alabama nel 1819.

16)Nell'agosto 1762 gli Inglesi avevano conquistato l'Avana, ma nella pace di Parigi del 1763 avevano restituito Cuba alla Spagna, pretendendo in cambio la Florida. Cfr. C. BARBAGALLO, Storia Universale, Torino, U.T.E.T., 1940, vol. V, tomo I, pp. 404-13.

17)S. E. MORRISON- H. S. COMMAGER, Storia degli Stati Uniti d'America, Firenze, La Nuova Italia, 1974 (2 voll.), vol. 1, pp. 619-20.

18)Ibidem, vol. 1, p. 621.

19)Proprio allora Stati Uniti e Gran Bretagna stavano concordando la frontiera terrestre canadese: cfr. G. M. TREVELYAN,