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Stilicone e la crisi dell'occidente

di Francesco Lamendola - 29/08/2007

 

Teodosio il Grande aveva sconfitto l'usurpatore Eugenio che, sostenuto dal generale franco Arbogaste, aveva cercato di appoggiarsi sul partito pagano nella "pars Occidentis" dell'Impero Romano (battaglia del Frigidus,  settembre del 394 d. C.).  Pochi mesi dopo era morto, a Milano, lasciando l'Impero diviso, di fatto anche se non di nome, fra i suoi due giovanissimi figli: l'Oriente al diciottenne Arcadio e l'Occidente all'unidicenne Onorio. In realtà la spaccatura divenne irreparabile, a causa dei gravissimi contrasti subito scoppiati fra il ministro di Arcadio, Rufino,e il generale vandalo Stilicone, tutore di Onorio e marito della nipote di Teodosio. In tali contrasti si inserì la politica del re dei Visigoti, Alarico, mirante a stabilire un "foedus" con l'Impero, e utilizzato dalle due corti come una pedina nel reciproco gioco al massacro. Rufino venne eliminato da una congiura sobillata da Stilicone, ma questi non riuscì ad affermare la sua autorità anche su Costantinopoli, tanto più che i rapporti fra le due corti erano inaspriti dalla questione dell'Illirico.  Il fallimento finale della politica del generale vandalo, che pure difese con valore l'Impero dalle numerose invasioni barbariche, significò anche il fallimento della politica dell'assimilazione dell'elemento germanico entro la società romana e provocò, nel 410, il sacco di Roma da parte di Alarico.

SOMMARIO.

 

 

I.                  Situazione generaledell'Impero di Occidente nel 398.

II.               La prima invasione di Alarico in Italia.

III.           Controffensiva di Stilicone e battaglia di Pollenzo.

IV.            Ripresa della guerra gotica e battaglia di Verona; sue conseguenze.

V.               Onorio trasferisce la capitale da Milano a Ravenna.

VI.            Trionfo dell'imperatore Onorio a Roma nel 403-404.

VII.        Spaventosa invasione barbarica guidata da Radagaiso in Italia.

VIII.     Battaglia di Fiesole: Stilicone annienta completamente gli invasori.

IX.            Contraddizioni della politica stiliconiana dopo la battaglia di Fiesole.

X.               Irruzione generale dei popoli germanici in Gallia nell'inverno del 406-407.

XI.            Usurpazione di Costantino in Britannia e suo sbarco in Gallia.

XII.        Onorio proibisce ad Alarico di marciare contro l'Impero d'Oriente.

XIII.     Saro guida una fallita spedizione contro Costantino in Gallia.

XIV.     Stilicone persuade il Senato a cedere al ricatto di Alarico.

XV.         Onorio decide di recarsi a ispezionare l'esercito di Ticinum.

XVI.     Apprende, a Ravenna, la morte di suo fratello Arcadio.

XVII.  Ultimo incontro fra Onorio e Stilicone a Bologna.

XVIII.                     Sgretolamento del potere di Stilicone.

XIX.     Onorio, accompagnato da Olimpio, giunge a Ticinum.

XX.         La rivolta dell’esercito e i massacri di Ticinum.

XXI.     Stilicone, a Bologna, è abbandonato dai suoi amici.

XXII.  Decapitazione di Stilicone a Ravenna.

 

 

 

I.

                 Duo quippe lupi sub principis ora

                 Dum campis exercet equos, violenter adorti

                Agmen et excepti telis immane relatu

                Prodigium miramque notam duxere futuri.

                Nam simul humano geminas de corpore palmas

                Vitraque perfossis emisit belua costis:

                Illo laeva tremens, hoc dextera ventre latebat

                Intentis ambae digitis et sanguine vivo.

 

                                                    Claudiano, De Bello Gothico, 250-57.

      L'anno 398 si era chiuso in un clima di restaurazione quasi trionfalistica per la corte dell'Impero di Occidente. Sconfitto Gildone e ristabiliti i rifornimenti granari dalla provincia d'Africa; pacificate, in apparenza, le altre frontiere; trovato, nella persona di Stilicone, un condottiero capace di risollevare le sorti dell'Impero a lungo offuscate, era parso che il matrimonio tra Onorio e la figlia dello stesso Stilicone, Maria, suggellasse il ritorno di un'età felice. L'aristocrazia senatoria si cullava nell'illusione della ritrovata sicurezza, che faceva consistere nella strenua difesa dell'ordine politico-sociale necessario alla prosperità dei suoi latifondi. Il potere effettivo, che lo scaltro generale aveva concentrato nelle sue mani, coincideva solo in parte con gli interessi della classe senatoria, in quanto Stilicone ambiva a un ruolo che non si esaurisse in quello di un puro e semplice strumento per garantire i privilegi degli ottimati. Per tale ragione egli aveva favorito la restaurazione di un clima politco all'antica, di sapore vagamente repubblicano, ove il Senato tornasse a svolgere quella funzione di supremo arbitro della cosa pubblica che aveva un tempo esercitato. Il rispetto formale, ostentato dal generale per l'assemblea curule; la sua frequente convocazione; la delega ad essa di talune prerogative che più non aveva esercitato, rientravano in questo programma che, a uno sguardo superficiale, poteva sembrare ispirato da ragioni puramente patriottiche e sentimentali. Così, quando il comes et magister utriusque militia per Africam, Gildone, aveva alzato la bandiera della secessione, trattenendo la flotta frumentaria destinata all'Urbe e invocando il soccorso del governo di Costantinopoli, il Senato di Roma lo aveva solennemente dichiarato hostis publicus, e incaricato Stilicone - con l'approvazione del principe - dii schiacciare la rivolta africana. Al tempo di Costantino, o anche di Teodosio, l'imperatore si sarebbe limitato ad allestire una spedizione militare contro i ribelli, informandone più o meno sobriamente un Senato sottomesso e silenzioso. Ma l'intuito politico di Stilicone aveva compreso quanto fosse opportuno ristabilire un clima di collaborazione tra la corte e il Senato, tanto più quando ciò poteva essere conseguito senza il minimo sacrificio. Concedere ai senatori l'onore di dichiarare ufficialmente la guerra a Gildone era un atto politico che non costava nulla e che prometteva di guadagnarsene la profonda riconoscenza.. Era un atto puramente formale, ma se - come ha sostenuto Guglielmo Ferrero nel suo libro La rovina della civiltà antica - per il Senato in età imperiale l'apparenza del potere era la sostanza stessa, riesumare quel clima tra principe e Senato significava farsi amiche le classi dominanti, umiliate dal dispotismo di Settimio Severo, Diocleziano e Costantino. Negli ultimi secoli dell'Impero la base politica della monarchia romana era consistita principalmente nell'elemento militare da un lato e nell'elemento burocratico-amministrativo dall'altro, formato quest'ultimo più da homines novi  del ceto equestre, che dai membri delle antiche famiglie senatoriali. Ma quando, sotto Teodosio, l'elemento militare si era imbarbarito fino a un punto che la sua componente germanica si avviava a soverchiare, numericamente e qualitativamente, quella romana, la monarchia ereditaria aveva dovuto rivolgersi nuovamente alla classe senatoria, per costruirvi una base di consenso necessaria alla propria conservazione. Era un calcolo errato, sia perché questa classe, privata di tutte le leve del potere, allontanata dal governo delle province e dai comandi militari, relegata nella prigione dorata dei suoi immensi latifondi non era più in grado di costituire un reale punto di appoggio, sia perché - come poi si vide - l'aristocrazia senatoria poteva sopravvivere alla caduta del potere imperiale, solo che i nuovi padroini le assicurassero la conservazione dei suoi privilegi economici. Ma tra la fine del IV e il principio del v secolo ciò non appariva ancora chiaramente. La struttura politica e sociale, sempre più militarizzata, del tardo Impero rivestiva come un involucro protettivo la sostanza economica di una classe nobiliare legata alla terra, tendente all'autosufficienza, chiusa nelle proprie egoistiche esigenze e scarsamente produttiva dal punto di vista globale della società. L'errore politico o, se si vuole, il maggior merito di Stilicone, fu quello di non accettare la totale strumentalizzazione dello Stato da parte di questa classe nobiliare di latifondisti, come ad esempio farà, dopo di lui, il generale Ezio. Stilicone perseguiva il sogno di una società in cui l'elemento germanico avrebbe dovuto esser trasformato da nemico a principale sostegno militare dell'Impero. Che si trattasse di un'utopia, e - più ancora - di una grave contraddizione, era provato dal fatto che per muovere in una simile direzione, sarebbe stata necessaria, quale presuppostoi essenziale, l'esistenza di una struttura sociale più varia e articolata, le cui basi  economiche non riposassero pressochè unicamente nella concentrazione della proprietà fondiaria. Per intanto, la contraddittorietà della situazione politica, rimanendo ancora allo stato latente, dava luogo a scene anacronisatiche e bizzarre, che poco avevano a che fare con la sostanza politica ed economica dei tempi che facevano loro da cornice.

      Il senato di Roma, riunito nella curia dioclezianea per dichiarare Gildone "nemico pubblico", ricordava scene antichissime e da gran tempo dimenticate, scene dei tempi dell guerra controGiugurta e della congiura di Catilina. I senatori, gravi e solenni nelle loro toghe bianchissime, ornate da un filo di porpora,  sembravano decidere dei destinti della patria come nei tempi gloriosi della Repubblica. Ma non assomigliavano se non nelle vesti agli antichi Quiriti, poiché una gran parte di essi era costituita da Galli, Spagnoli, Africani che parlavano un latino informe. La parte di novello Cicerone fu assunta, dopo la caduta di Gildone, da un poeta di corte, egiziano di nascita e greco di educazione, che solo nell'età matura aveva imparato la lingua dei discendenti di Romolo. Claudio Claudiano, che già aveva cantato le nozze imperiali di Onorio e Maria, recitò nel 398 il suo poemetto Bellum Gildonicum davanti ai senatori, nell'aula della biblioteca annessa al tempio di Apollo sul colle Palatino, testimone di tantisecoli di storia. I versi del poeta erano stati talmente apprezzati dai senatori che essi avevano chiesto e ottenuto dal primcipe che una statua di bronzo venisse innalzata nel Foro di Traiano in onore dell'autore.

      Questo clima rassicurante di pace e ritorno all'ordine visse la sua effimera stagione nel breve arco tra la sconfitta di Gildone in Africa, e la paurosa invasione dei Visigoti di Alarico in Italia.  In quei due anni di precaria stabilità, il magister utriusque militiae Flavio Stilicone lavorava indefessamente all'opera di riorganizzazione politica e soprattutto militare del declinante Impero. Forte della sua prestigiosa carica, questo generale semibarbaro era persuaso che solo restituendo agli eserciti romani una effettiva superiorità tecnica sui nemici esterni  si poteva scongiurare la catastrofe dello Stato. A questa radicale riforma militare si opponevano, però, molte e gravi circostanze. Innanzitutto il fatto che l'esercito occidentale si trovava in condizioni di grave disorganizzazione dopo la disfatta del Frigido nel 394, e il rinvio in Oriente dei contingenti di truppe richiesti da Rufino nel 395. Poi vi era la ritrosia dell'aristocrazia senatoria a privarsi dei propri coloni per la leva militare e, contemporaneamente, la tendenza ad arruolare nell'esercito romano quei gruppoi di barbari che ne minacciavano i confini. Se, in un primo tempo, Stilicone si era illuso di poter riprendere gli arruolamenti tra le popolazioni provinciali per colmare i vuoti delle legioni, è certo che fin dal 397 le resistenze dei senatori dovettero indurlo a tornare alla vecchia tassa in denaro, e quindi a un crescente arruolamento di elementi germanici.  Quei senatori che, al momento della sua caduta, lo accuseranno di sentimenti antiromani e di connivenza con i barbari a danno dell'Impero, ostentando un facile patriottismo salottiero, furono in realtà la causa prima dell'imbarbarimento dell'esercito e i veri artefici della caduta finale del potere imperiale in Occidente.  In quegli anni, infatti, si assistette a una vera invasione dei quadri dell'esercito da parte di elementi germanici, quale non si era mai vista prima, neanche sotto Teodosio. Erano ormai numerosissimi i soldati di stirpe barbara arruolati nell'esercito romano, spesso guidati da propri ufficiali, e professionalmente in nulla inferiori ai reparti "romani". Anche i gradi più elevati delll'esercito tendevano a cadere sempre più spesso nelle mani degli ufficiali barbari. Uomini come il fratellastro  di Stilicone, Batanario - nuovo comes dell'Africa al posto di Gildone -,o come il goto Saulo, che svolgerà una parte importante nella guerra pollentina, tendevano sempre più a sostituirsi all'elemento romano negli alti quadri dell'esercito. Essi erano per lo più di fede cristiana assai tiepida, come Stilicone, oppure decisamente pagana, come Saulo, e ostentavano una fierezza nazionale che offendeva sia i pregiudizi razziali della nobiltà senatoria, sia l'intolleranza religiosa della chiesa cattolica. Comunque, la riforma militare di Stilicone avrebbe potuto dare buoni risultati se avesse avuto alcuni anni di tempo per svilupparsi e perfezionarsi. Invece, verso la fine del secolo IV una nuova invasione barbarica oltre i confini, seguita dall'attacco improvviso di Alarico, venne a interrompere bruscamenbte l'opera del grande generale, obbligandolo a raschiare il fondo della pentola e a gettare nella lotta, così come gli venivano per mano, i vari reparti in fase di riorganizzazione.

Il nuovo attacco contro il limes dell'Impero Romano d' Occidente era stato sferrato dalle tribà dell'alto e del medio Danubio - i Vandali, gli Svevi, gruppi di Alani e anche, probabilmente, di Longobardi, contro il Norico e specialmente contro la Rezia. Stilicone fu costretto a raccogliere la maggior parte dell'esercito d'Italia per fronteggiare l'invasione che minacciava la frontiera alpina. Questo esercito pare che contasse (secondo la Notitia dignitatum), intorno al 425, un po' meno di 30.000 uomini, contro i 35.000 dell'esercito della Gallia. La Britannia, il Reno e le province africane non disponevano che di reparti "limitanei" scarsamente utili, tranne che per la difesa locale. Inoltre le campagne militari contro Alarico, in Tessaglia nel 395 e nel Peloponneso nel 396, avevano imposto uno sforzo oneroso alla macchina militare romana, aggravata dalla spedizione contro Gildone in Africa. In tali condizioni l'attacco improvviso delle tribù germaniche sul Danubuio superiore, anche se effettuato con forze modeste, mise Stilicone in gravi difficoltà, obbligandolo a sguarnire quasi completamente la Penisola. Fu in quel momento che Alarico si risolse a sferrare l'attacco.

      Mentre il meglio dell'esercito romano si  trovava impegnato sull'alto Danubio, il sedicenne imperatore Onorio si dedicava nelle campagne attorno a Milano alla sua attività sportiva preferita, l'equitazione. Lasciava a palazzo la giovanissima sposa Maria, che era quasi una bambina, e la sorellastra Galla Placidia, di circa dieci anni, che, insieme all'amata zia Serena, formavano quasi tutto il suo mondo. Il giovane principe non mostrava soverchio interesse per gli affari dello Stato e l'onnipotente Stilicone, che gli era tutore, generale, ministro e suocero, non faceva nulla per richiamarlo alle sue responsabilità di governo.

      Anche quel giorno, probabilmente nell'inverno del 399-400, Onorio era uscito con una scorta militare fuori di Milano per addestrare dei cavalli alla corsa. Mentre era intento in tale esercizio, all'improvviso due lupi famelici, sbucati fuori non si sa di dove, con audacia incredibile si precipitarono a gran balzi contro la scorta. Furono trafitti dalle frecce dei soldati proprio sotto gli occhi dell'imperatore sbalordito; ma la sorpresa maggiore doveva ancora venire. Forse per vedere se era stata la fame a spingere quelle fiere a un attacco così temerario, venne loro aperto il ventre. Con indescrivibile raccapriccio dei presenti, si videro uscire dallo stomaco dei lupi due mani umane, tutte lorde di sangue e ancora palpitanti - così almeno sembrava - , con le dita protese come in un gesto di minaccia: dalle viscere di una belva venne fuori la destra e, da quelle dell'altra, la sinistra.

      L'episodio la dice lunga sul dilagare della fauna selvatica nelle campagne spopolate del IV e V secolo, e in sé avrebbe potuto considerarsi come un incidente sgradevole, ma insignificante. Ma la sua eccezionalità impressionò fortemente tutta la corte. Si chiamarono gli aruspici, che evidentemente avevano trovato il modo di infiltrarsi nella cattolicissima corte di Milano, e il loro responso fu che quelle due mani simboleggiavano una minaccia contro la città della lupa, Roma. Le mani, come poi si vide, erano quelle di Alarico e Radagaiso, i due temibili capi barbari che si apprestavano a irrompere nella Penisola con le loro schiere. Qualcuno insinuò perfino che il tempo concesso all'Impero di Roma fosse giunto al suo termine. Secondo l'antica leggenda, al fondatore Romolo sarebbero apparsi dodici avvoltoi in volo e, da tempo immemorabile, si credeva che tale numero simboleggiasse i secoli che la città sarebbe durata. Dal mitico 754 a.C. al 400 erano, dunque, già trascorsi più di undici secoli e mezzo. L'improvviso precipitare degli eventi sembrò confermare le funeste previsioni dei più pessimisti. Dai valichi delle Alpi Giulie, alla testa dei Visigoti, il re Alarico penetrava in Italia di sorpresa, seminando un'immensa ondata di terrore innanzi a sé.

 

II.

      Da quando, nel 397, Alarico aveva stretto il foedus con la corte di Costantinopoli e ne aveva ottenuto il grado di magister militum per Illyricum, i Visigoti erano rimasti in posizione d'attesa nelle diocesi di Dacia e Macedonia, al confine tra i due Imperi. Astenendosi, come pare, dal molestare le città e le campagne balcaniche, si erano dedicati a rafforzarsi dopo l'amara esperienza dell'insuccesso nel  Peloponneso. Nella sua carica ufficiale di supremo comandante militare della regione illirica, Alarico aveva potuto rifornire abbondantemente il suo esercito di armi, corazze e materiale bellico (cfr. Claud., Bell. Got., 533-43) e perfino raccogliere il tributo dalle stesse popolazioni che in precedenza aveva tormentato. Mai il re dei Visigoti scrutava l'orizzonte alla ricerca di una sistemazione definitiva per il suo popolo desideroso di terre e le regioni illiriche - povere, montuose e devastate dalla guerra - non potevano costituire che un rifugio provvisorio.

      Politico scaltro e istruito dalla recente esperienza del conflitto tra le due corti imperiali, egli era ben deciso a sfruttare al massimo i loro contrasti per ottenere una sistemazione vantaggiosa e definitiva. I suoi occhi finirono per volgersi verso Occidente, che egli giustamente intuiva (nonostante le apparenze) più debole dell'Oriente. L'invasione barbarica della Rezia, sguarnendo le difese dell'Italia, sembrava offrirgli una opportunità unica. Alarico aveva motivo di temere Stilicone: già due volte ne era stato accerchiato e ben sapeva quanto la sua scienza militare fosse superiore alla sua. Però la tentazione di sferrare un colpo improvviso era troppo forte: con le legioni impegnate sul Danubio superiore, che avrebbe potuto fare Stilicone per contrastargli il passo? E che avrebbe potuto fare Onorio, se non concedergli tutto ciò che avesse richiesto, magari anche un alto comando militare, come già era stato costretto a fare Arcadio?

      Noi non conosciamo quali fossero gli obiettivi che Alarico si prefiggeva, ma non appare molto verosimile che mirasse unicamente al saccheggio. È più probabile che sperasse di estorcere alla corte di Milano un riconoscimento, delle terre per il suo popolo (dove, non sappiamo; certo fuori d'Italia) e, possibilmente, un comando ufficiale nell'esercito romano. Forse Alarico sperava di subentrare allo stesso Stilicone nell'altissima carica di magister utriusque militiae. Avrà pensato che, se fosse riuscito a dimostrare ad Onorio che Stilicone era incapace di assicurare la difesa dell'Impero, egli era l'uomo adatto a prenderne il posto, mettendo il potenziale bellico dei Visigoti al servizio della corte di Milano. Egli, probabilmente, immaginava che Onorio avrebbe proseguito la politica filo-germanica di suo padre Teodosio, e che avrebbe preferito farsi amici quei popoli barbari che non poteva distruggere. Ma anche se le segrete ambizioni di Alarico non si spingevano così lontano, restava pur sempre l'allettante prospettiva di una invasione praticamente incontrastata, di un facile e ricchissimo bottino - superiore perfino a quello delle città elleniche - e di una politica di ricatto nei confronti della indifesa corte occidentale.

      Dopo aver risalito la Penisola Balcanica, prima della fine dell'inverno del 400 Alarico era già a Iulia Emona (Lubiana), porta d'accesso all'Italia. Non conduceva un esercito, ma un popolo: una lunghissima colonna di carri, di cavalli, di bestiame, di gente appiedata, ingrossata da parecchi Germani appartenenti ad altre tribù: in totale non meno di 40.000 anime, con una forza combattente bene armata, valorosa e resa audace dalle campagne precedenti. La via di accesso alla Pianura Padana era loro ben nota: l'avevano percorsa appena sei anni prima, al seguito di Teodosio, durante le guerra contro Eugenio e Arbogaste, terminata con la battaglia del Frigido. Teodosio aveva vinto, ma i Goti ne erano usciti decimati: Alarico ricordava bene i disperati assalti frontali in cui l'imperatore li aveva gettati contro le ben munite posizioni dei legionari d'Occidente. Ricordava anche l'energica condotta di Stilicone; e quei ricordi si mescolavano alle speranze del futuro mentre il re goto, superata anche Emona, giungeva ai valichi alpini, incoraggiato dalle profezie degli indovini: "Rompi ogni indugio, supera le Alpi e penetra nell'Urbe, o re dei Visigoti. Fino lì è il tuo cammino" (Claud., 546-48).

      Probabilmente il grosso dei Visigoti e dei loro alleati, coi carriaggi, le donne e le mandrie, superarono le Alpi nel loro punto più basso, il Passo di Preval (577 m.s.m.), e di lì scesero ad Aidussina  (Castra, inde surgunt Alpes Iuliae). La cavalleria leggera forse precette il grosso, spingendosi per la via più breve, ma più aspra, del valico di Piro, attraverso le silenziose foreste di abeti ove il Frigido (Vipacco) ha le sorgenti. Non senza emozione i guerrieri goti, che avevano partecipato alla campagna teodosiana del 394, rivedevano i luoghi deserti spazzati dalla bora e bagnati dal sangue di tanti loro compagni. La cavalleria scesa dal valico non incontrò alcuna traccia del nemico e attese senza incidenti, ad Aidussina, l'arrivo delle lenta colonna dei carri e del bestiame. Effettuato il congiungimento, i Visigoti scesero attraverso l'ampia valle del Frigido, che è un affluente di sinistra dell'Isonzo e, per via sotterranea, del Timavo, e procedendo ai margini delle foreste di conifere lungo le brulle  pietraie del Carso, giunsero alle rive del Timavo.

      Con loro immensa meraviglia, nessun difensore si parava loro innanzi: l'Italia, era evidente, era stata colta del tutto alla sprovvista. Dapprima cautamente, temendo forse una trappola, poi sempre più sicuri e baldanzosi, i Visigoti affrettarono la marcia. Solo sul Timavo incontrarono una qualche resistenza, nulla più che un velo di truppe di copertura che tentarono, senza convinziione e senza successo, di sbarrare la strada al'invasione (cfr. Claud., Bell. Got., 562-63). Finalmente i Visigoti uscirono nell'aperta e indifesa pianura, verdeggiante di messi mature, disseminata di ville e borgate le cui modeste ricchezze erano ancor tali da destare la cupidigia degli invasori. Il Timavo è lungo quasi 90 km., dei qualki una quarantina di corso sotterraneo, e corre dalle grotte di San Canziano al Golfo di Panzano, tra le odierne cittadine di Monfalcone e Duino. I Visigoti lo oltrepassarono alquanto a nord della foce, e, superato anche l' Isonzo, per la Via Postumia dilagarono nella bassa pianura friulana. Aquileia tentò di resistere; non è ben chiaro se Alarico sia riuscito a conquistarla o se rinunciò a impegnarsi contro le sue mura, perché privo di macchine da assedio e per non lasciarsi distrarre nella sua marcia verso il cuore della Pianura Padana. La resistenza di Aquileia, per dirla con lo Roberto Cessi, fu dunque valorosa ma inutile, e le schiere visigote poterono procedere indisturbate in direzione di Milano.

      Tanto la corte che la popolazione erano state colte completamente alla sprovvista. Una volta commesso l'errore di lasciare sguarniti i valichi delle Alpi Giulie, nulla si fece per contendere il passo ad Alarico neiquasi 500 km. dal Timavo alla capitale. I numerosi affluenti di sinistra del Po - il Mincio, l'Oglio, l'Adda -, per non parlare del Tagliamento, del Piave e dell'Adige, furono lasciati del tutto indifesi e i Visigoti, benchè impacciati dai carri e dalla massa dei non combattenti, poterono superare una dopo l'altra queste eccellenti linee di difesa natruali. Alarico, saggiamente, non si lasciò distrarre dalle ricchezze che poteva saccheggiare per via, e mentre le città venete e lombarde, impaurite e sgomente, gli chiudevano le porte in faccia, egli disprezzando quelle prede minori avanzò con la maggiore rapidità possibile verso la mèta delle sue ambizioni: la corte milanese, che sperava di poter piegare facilmente a qualunque sua richiesta.

       Da Milano il terrore si propagò fino a Roma, dove molti senatori, dopo vane discussioni e vani progetti, cominciarono a preparare in fretta le loro cose per mettersi in salvo con la fuga. Già i ricchi Romani almanaccavano di cercarsi un rifiugio inaccessibile nei golfi della Sardegna o fra le rupi della Corsica. A Milano il giovane imperatore, colpito come da un fulmine a ciel sereno, si smarriva nell'incrociarsi delle voci, dei suggerimenti, delle possibili contromisure, e l'unica conclusione cui giunse fu che nessuno riponeva troppa fiducia nelle fortificazioni della città. È vero che Onorio, passato il pericolo, dirà che il suo cuore, in quel frangente, non aveva tremato; ma per quanta fiducia avesse, allora, nel genio e nelle risorse del suo generalissimo Stilicone, in quel momento la situazione era realmente preoccupante, e nessuno sembrava sapere cosa si dovesse fare. Dai lontani tempi di Aureolo e di Gallieno (metà del III secolo) Milano non aveva mai più sostenuto un assedio e, quantunque vi fosse ragione di dubitare delle capacità dei Goti in quella tecnica militare, l'esiguità della guarnigione era motivo di preoccupazione e angoscia. Né la piccola riserva mobile rimasta, probabilmente, a Ticinum (Pavia), né la pur numerosa popolazione milanese sembravano capaci di fronteggiare quella irruzione subitanea; gli animi ereano scossi e demoralizzati.

      In mezzo a tanto timore e tanta indecisione, il solo Stilicone sembrava non aver perduto la testa. Egli conosceva bene i lati deboli dei Visigoti, e decise di correre il rischio calcolato di lasciare la corte a sé stessa per correre a richiamare le legioni impegnate nella Rezia. La marcia di Stilicone, da solo, attraverso il lago di Como e le Alpi, lungo sentieri semisepolti sotto la neve, sotto il ciglio di pendii minacciati dalle valanghe, sul cavallo intirizzito dal gelo, fu drammatica e stupefacente. La sera scendeva di sella  a fatica, per riposare con la testa sotto lo scudo o in qualche casolare di pastori, dopo avr consumato un pasto frugale, talvolta senza nemmeno il conforto del fuoco. La rapidità con cui passò da Milano al Lario e, di qui, probabilmente attraverso lo Spluga (a oltre 2.1000 metri d'altitudine) alle sponde del Reno, fra la gioia stupita dei suoi soldati, parve avere qualcosa di miracoloso e ricprda la mitica marcia invernale di Giulio Cesare, durante la guerra gallica, attraverso le Cevenne coperte di neve.

      Mentre le orde di Alarico, superata Verona, dilagavano fino a Cremona, Laus Pompeia ed oltre, fino alle porte di Milano, Stilicone con la sua comparsa improvvisa e inaspettata capovolgeva  le sorti della lotta nella Rezia e Vindelicia. Certo è poco credibile (come i versi di Claudiano vorrebbero, invece, farci credere) che i barbari che avevano violato il limes e tenevano testa alle legioni, venissero subito a patti con un nemico che avevano dimostrato di non temere. È più probabile che Stilicone abbia concluso con loro un armistizio sulla base di qualche cessione territoriale sulla frontiera del Danubio superiore, e (seguendo la vecchia politica di Teodosio) arruolandone un certo numero in qualità di foederati. In seguito l'aristocrazia senatoria, sempre sospettosa nei confronti del "barbaro" Stilicone, lo accuserà di aver accolto indiscriminatamente grandi masse di Germani nell'esercito romano, creando le premesse per futuri sovvertimenti dello Stato. Claudiano reagirà a tali accuse affermando che gli arruolamenti operati da Stilicone erano stati cauti e ponderati, e che il generale aveva operato una selezione fra quanti chiedevano di entrare nell'esercito romano, accettando solo un numero giusto, "né molesto all'Italia, né pericoloso per il duce". Pare che il contingente più cospicuo di barbari arruolato in quella occasione sia stato quello degli Alani, che passarono in blocco al soldo di Roma, pur continuando a obbedire al loro sovrano.

      Comunque né essi, né le legioni raccolte alla frontiera della Rezia e del Norico dovettero apparire a Stilicone sufficienti per assicurargli un successo decisivo sui Visigoti, e dovette diramare ordini urgentissimi per richiamare anche le truppe del Reno, i valorosi limitanei, e perfino l'unica legione tuttora di stanza in Britannia. Solo allora, raccolte le sue forze e senza attendere oltre gli eserciti in cammino da quelle lontane regioni, Stilicone riprese la via dell'Italia. Il Reno, se dobbiamo credere alla testimonianza interessata del poeta di corte, rimase del tutto sguarnito. Solo il nome del generale e il rispetto della maestà di Roma restarono a presidiare le fortificazioni vuote di difensori. Si tratta, probabilmente, di una esagerazione; ma è indubbio che il limes venne indebolito in misura decisiva, come proveranno gli eventi del dicembre 406.

 

III.

      Mentre i ricchi senatori romani progettavano di mettersi in salvo nelle isole del Tirreno, Onorio con tutta la corte, dopo varie esitazioni, aveva deciso di rimanere a Milano, fidando nel tempestivo ritorno del suocero alla testa delle legioni.

      Il poeta Claudiano non risponde alla domanda dove si trovasse esattamente l'imperatore in quei giorni; Jordanes lo pone addirittura a Ravenna e Paolo Orosio tace del tutto in proposito. Alcuni storici del Settecento hanno supposto che Onorio fuggisse da Milano per cercar rifugio oltr'Alpe, in Gallia - probabilmente ad Arelate (Arles); ma che, raggiunto dalle velocissime punte della cavalleria gotica, fu costretto a rifugiarsi in Hasta (Asti), celebre un tempo per le sue fabbriche di vasellame. Di tutto questo non vi è traccia in Claudiano e, benchè il poeta parli esplicitamente di un assedio della corte e di una città fortificata, questa vaga descrizione si adatta più alla capitale della Liguria, l'antica città regia di Massimiano, che ad Asti. Lì Onorio trascorse la findell' inverno e la primavera, stretto da gravi angosce, mentre i cavalieri barbari scorrazzavano liberamente sotto le mura e saccheggiavano le ricche pianure della Lombardia.

      La sua situazione era drammatica: nessun imperatore romano, fino a quel momento, si era mai trovato assediato nella propria capitale da un'orda di barbari, e uno solo, in tutta la lunghissima storia dell'Impero - Valeriano - era stato fatto prigioniero nel corso di un'azione bellica. La resistenza di Milano si fondava unicamente sulla speranza dei soccorsi: se Stilicone tardava, tutto era perduto, e la corte avrebbe dovuto cedere e supplicare la pace da un nemico vittorioso e arrogante. Giorno e notte, soldati e abitanti scrutavano l'orizzonte, dall'alto delle mura, in direzione della catena alpina. Finalmente, dopo un'attesa sempre più ansiosa, un denso polverone annunciò l'avvicinarsi di un grosso esercito.Tutta la popolazione, si può dire, era salita sugli spalti e sulle torri per rendersi conto di chi si trattasse. Finalmente, alla testa di quelle schiere apparve Stilicone, e un coro di esultanza corse di bocca in bocca lungo le mura della città assediata. Mentre i Visigoti, sbigottiti, toglievano in fretta il campo e si ritiravano verso Occidente, Onorio alla testa dei suoi cortigiani e del popolo esultante uscì fuori dalla porta, per accogliere personalmente il suo liberatore (Claud., Bell. Got., 453-62).

      La fine dell'assedio di Milano impresse un carattere più risoluto alla guerra, che si era trascinata per mesi in un assedio inconcludente e in una serie di facili scorrerie di bande barbariche intente al saccheggio. Rifiutando la battaglia in campo aperto, Alarico attraversò il Ticino, lasciò da parte la munita piazzaforte di Pavia e superò l'ampio corso del Po, sempre marciando a Occidente. Così come è incerta la  cronologia (e, almeno in parter, la topografia) di questi avvenimenti, altrettanto lo sono i propositi del re dei Visigoti durante la sua ritirata da Milano. Sperava forse di aprirsi il valico del Monginevro, per passare in Gallia col suo popolo, alla ricerca di una sede definitiva? È probabile che, mentre le operazioni erano in corso e Stilicone tallonava prudentemente i Visigoti, delle trattative siano state aperte fra la corte di Onorio e il re goto. Su quali basi? Jordanes afferma addirittura che Alarico avrebbe chiesto all'imperatore il permesso di stabilirsi col suo popolo nella Penisola Italiana (Get.,XXX), ma la sua testimonianza è totalmente destituita di credibilità. Trattò forse, il re dei Visigoti, lo stanziamento, col titolo di foederatus, in qualche regione della Gallia, come poi effettivamente avvenne sotto il suo successore Ataulfo, e, in maniera definitiva, con Wallia, nel 418? Non lo sappiamo, tuttavia è probabile che, se trattative vi furono, esse furono protratte da Stilicone al solo e vero scopo di guadagnar tempo, fintanto che i lontani corpi d'esercito del Reno e della Britannia, da lui richiamati in tutta fretta quand'era nella Rezia, avessero il tempo di sboccare nella Pianura Padana dai valichi alpini occidentali del Monginevro o del Gran San Bernardo. Comunque i negoziati dovettero giungere a un punto morto e Stilicone, raggiunto il suo scopo, fu in grado di stringere un poco alla volta la massa disordinata dei Visigoti entro un perimetro sempre più angusto, nella valle del fiume Tanaro, affluente di destra del Po.

      Grande stratega della manovra avvolgente, come aveva già dimostrato in Tessaglia e nel Peoloponneso (e come dimostrerà ancora a Verona e Fiesole), evitando lo scontro diretto il generale vandalo chiuse gradualmente l'avversario entro una rete di trincee, sì da averlo in suo potere prima ancora che si fosse data mano alle armi. Anche questa volta era chiaro - come già in Grecia - che Stilicone avrebbe preferito evitare una soluzione puramente militare del conflitto, e risparmiare quel nemico che ancora sperava, in base a un suo calcolo forse azzardato, di poter trasformare in un valido alleato del declinante Impero. Ma Alarico, che già in Grecia si era salvato, in circostanze altrettanto difficili, per l'intervento della corte orientale, ancora una volta rifiutò le ragionevoli offerte del suo avversario, disprezzò il ruolo di semplice pedina nel gioco della politica romana, e volle tentare la sorte delle armi, per rivendicare al suo popolo un più alto destino.

      Pollentia (Pollenzo), era una florida cittadina sulle rive del Tanaro, là dove oggi non resta che un modesto villaggio con quel nome, nei pressi della cittadina di Bra. Fondata nel 170 a. C., aveva pianta rettangolare, era cinta da mura e andava fiera di un anfiteatro ellittico, di un notevole complesso termale oggi riconoscibile, in parte, nel torrione detto Turilio), di un foro e di numerosi templi. Una strada la collegava con Augusta Taurinorum (Torino), distante circa venti miglia verso Settentrione, e un'altra scendeva fino alla costa ligure, a Savona, scavalcando le Alpi Marittime al Passo di Cadibona. Fu in questa parte della provincia romana delle Alpes Cottiae (comprendente, nel IV e V secolo, tutta la regione ligure a Sud del Po) che ebbe luogo lo scontro decisivo della guerra alariciana.

      I Visigoti erano entrati in Italia, per la valle del Timavo, all'inizio del 400 (secondo il raffronto tra Jordanes, che scrive Stilicone et Aurelianus consulibus, in Get., XXIX, e Cassiodoro, Chron., in M. G. H., A. A., 21) o forse al principio del 401, poiché la data tradizionale della battaglia di Pollenzo, incerta del resto anch'essa (cfr. Pasquale Villari, Le invasioni barbariche in Italia) è il 6 aprile del 402, ed è difficile ammettere che Stilicone abbia lasciato scorrazzare i Visigoti in Italia settentrionale per un anno,  prima di affrontarli sul campo.

      Tutte le fonti concordano nel fissare l'attacco stiliconiano nel bel mezzo delle festività pasquali, che i Goti ariani stavano celebrando nel loro accampamento con animo relativamente tranquillo. Stilicone venne poi biasimato dai cattolici più zelanti per tale violazione della settimana santa, che equivaleva a una profanazione e che gli assicurò un successo disonorevole, come si disse, o addirittura (Jordanes, Get., XXX) un clamoroso fallimento. Il generale vandalo aveva affidato il comando dell'esercto a Saulo, pagano e di stirpe barbara (Orosio, VII, 37, 2) e, mentre teneva di riserva il grosso delle proprie forze, lanciò per prima all'attacco la cavalleria degli Alani. Forse è eccessivo affermare, come fa Jordanes, che i Goti non si aspettavano alcuna sorpresa, ma è possibile che essi avessero fatto affidamento su una tacita tregua pasquale e rimasero alquanto sorpesi da quell'attacco, che giudicarono proditorio. Tuttavia, ripresisi, contrattaccarono con la massima energia e il capo degli Alani, un guerriero dalla piccola figura ma dall'animo grande e valoroso (Claud., Bell. Got., 581-93) trtovò una morte da eroe nella mischia furibonda. Vedendolo cadere, i suoi uomini ebbero un attimo di incertezza, cominciarono a sbandarsi e già si profilava una vittoria clamorosa di Alarico, quando l'attacco ordinato e micidiale della fanteria romana, accuratamente predisposto da Stilicone, rovesciò le sorti dello scontro ed ebbe ragione del valore disperato dei Goti. La battaglia si trasformò in un confuso inseguimento e le truppe di Saulo e di Stilicone, inebriate dal successo, avanzarono con impeto irresistibile oltre le trincee nemiche, penetrando nell'accampamento goto, travolgendo le ultime difese e conquistandolo. Le donne dei barbari, la stessa famiglia di Alarico, e quella parte del bottino di Corinto, Argo e Sparta che i Visigoti si erano portati  dietro dopo la ritirata dal Peloponneso: tutto cadde nelle mani del vincitore, insieme alle spoglie delle sfortunate città italiche.

      Ancora una volta, però, la vittoria romana fu arrestata a mezzo, e una insperata via di scampo venne offerta ad Alarico e alla sua gente, che furono svelti ad approfittarne. Impossibile dire come, fatto sta che già l'indomani della battaglia di Pollenzo i Visigoti sembravano essersi ripresi, almeno in parte, dalla sconfitta e, radunatisi, costituivano sempre una minaccia temibile per la Pianura Padana. Noi ignoriamo le precise condizioni che Stilicone impose ad Alarico dopo la giornata del 6 aprile; è probabile (ma non dimostrato) che tra i due intercorse un vero trattato di pace. Tra le prime condizioni di esso, certamente vi era la restituzione di tutti i prigionieri e di tutto il bottino e lo scioglimento dei corpi barbarici ausiliari (Claud., cit., 614-22); poi, senza dubbio, lo sgombero immediato dell'Italia e il ritorno al di là delle Alpi Giulie, in una qualche sede da destinarsi.

      Il mondo romano si era entusiasmato per quest'ultima vittoria delle legioni sui barbari invasori, ma ben presto subentrarono le recriminazionei e i sospetti. Perché  - si diceva a mezza voce - Stilicone aveva concesso un'altra volta al nemico di Roma, di ritirarsi indisturbato? Perché non aveva spinto la sua vittoria sino in fondo? Tanto l'aristocrazia senatoria, quanto le alte sfere della chiesa cattolica  guardavano con poca fiducia a quel semibarbarus che spadroneggiava alla corte milanese e conduceva oscuri maneggi coi nemici che avrebbe dovuto schiacciare. I sentimenti negativi di questa parte dell'opinione pubblica romana, l'indomani della battaglia di Pollenzo, sono compendiati ner giudizio sbrigativo di Paolo Orosio: Stilico, Vandalorum inbellis avara perfidiae et dolosae gentis genere editus (VII