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Ken Parker: tecniche narrative e grafiche

di Claudio Ughetto - 29/08/2007

     
   

Fino all’arrivo di Ken Parker, i serial pubblicati da Bonelli avevano avuto un enorme successo, ma avevano anche rappresentato una forma d’intrattenimento poco evoluta. Questo perché si rivolgevano, e si rivolgono ancora in parte, ad un pubblico molto conservatore e refrattario ad ogni novità. Un pubblico che rispetta l’appuntamento mensile con il suo eroe per avere delle certezze: deve riconoscerlo subito, identificare il contesto per essere rassicurato, vederlo in subbuglio per un po’ ma poi sapere che tutto tornerà a posto grazie al ruolo che il suo eroe è determinato a svolgere. Dal punto di vista della sequenzialità, questo lettore desidera che la tavola del comics non abbia caratteristiche autonome, bensì che siano le vignette a narrare una storia che potrebbe anche essere scritta in un romanzo di terza categoria. Nel 1977 queste abitudini erano più radicate di adesso. Tex Willer, Zagor, Il Piccolo Ranger e Mister No per molti aspetti vivevano storie lunghe parecchi numeri che una buona sintesi avrebbe potuto ridurre della metà, con scene azzeccate ed altre inutili, semplicemente riempitive, didascalie dettagliate non solo per descrivere geograficamente gli ambienti o i passaggi spazio-temporali, ma anche per “raccontare” quanto le immagini avrebbero dovuto spiegare da sé. Se Tex risponde al fuoco di un avversario, lo vediamo buttarsi a terra mentre schiva il proiettile intanto estrae la pistola e spara, abbiamo un paio di immagini della sequenza e nel contempo la didascalia che descrive quanto ho appena scritto.
Questa lettura, che diremmo appesantita, sembrava rassicurare i lettori del 1977 – come talvolta sembra rassicurare quelli attuali che non chiedono al fumetto di essere un media autonomo, con le sue regole espressive, ma semplicemente un surrogato minore della letteratura e del cinema. Qualcosa che si legge e poi si dimentica facilmente, senza chiedere partecipazione.
Berardi e Milazzo arrivano per sovvertire questa tradizione, ma non lo fanno immediatamente. I primi numeri di Ken eccellono soltanto per sintesi narrativa, ma ancora risentono delle caratteristiche imposte da Bonelli, preoccupato di non scandalizzare il suo pubblico. Poco per volta, tuttavia, le soluzioni stilistiche cominciano a subentrare: prima con discrezione, poi con sicurezza da La  ballata di Pat O’ Shane. Il n. 12 della vecchia serie, oltre ad essere narrativamente un capolavoro, si esprime interamente con sequenza cinematografiche in cui la composizione della tavola, il taglio dell’immagine e le espressioni dei personaggi escludono ogni ulteriore supporto. Niente più didascalie per indicare il passaggio delle ore e dei giorni, nessuna scena descritta da un narratore intromesso; solo una gradevole canzone (appunto la Ballata di Pat O’ Shane) accompagna ogni tanto le immagini. Dal numero successivo, La città calda, sparisce ogni intrusione: solo immagini, dialoghi, espressioni, onomatopee usate in modo inedito, e dei rari ballon contenenti brevi pensieri. I pensieri per descrivere ciò che potremmo non intuire dei personaggi verranno eliminati completamente più in là, precisamente da Adah: di lì in poi, come al cinema, saranno le espressioni dei personaggi a farceli intuire. In alcuni episodi fuori serie[1] Berardi e Milazzo arriveranno a eliminare anche i dialoghi, spaziando con immagini splendide, acquerellate, nel mondo animale o dove è impossibile utilizzare la comunicazione verbale. Si tratterà, naturalmente, di lavori brevi, perché in Ken Parker il dialogo, sempre brillante, naturale e “vero” rimane una caratteristica indispensabile.
Si potrebbero segnalare altre novità stilistiche praticamente create ex novo da Berardi e Milazzo, oppure rese in modo definitivo: dall’uso del giornale per raccontare sequenze esterne alla vita dei personaggi alla chiusura di ogni sequenza con un vignetta scontornata, alla mezza tinta per distinguere tra le parti narrative in Adah e quelle d’azione che invece sono in un bianco e nero stilizzato, ai rumori ripetitivi e costanti sovrastanti sequenze di vignette per più tavole (la musica in Diritto e Rovescio o le macchine industriali in Sciopero). Trovo più interessante evidenziare un aspetto che potrebbe  essere frainteso: benché il pubblico tradizionalista abbia faticato ad abituarsi a queste innovazioni, ora in parte riversate su Dylan Dog o Nathan Never, Berardi e Milazzo non hanno inteso “complicare” la narrativa sequenziale per renderla autonoma, ma piuttosto semplificarla. Ogni scelta stilistica del duo mira ad una maggiore leggibilità oltre che a un godimento del fumetto come media a sé.
A proposito dell’Arte del romanzo, Milan Kundera ha scritto che esso deve raccontare solo ciò che un romanzo può raccontare, con strumenti e modalità specifiche. Lo stesso dovrebbe essere per gli altri media, compreso il fumetto, e in Ken Parker l’intenzione è arrivata alla sua piena realizzazione[2].
[4. fine]

NOTE
[1] Ora raccolti in “Il respiro e il sogno”
[2] Anni fa, un album di Batman fuori serie, The Killing Joke, di Moore e Bolland, operava la scelta di escludere completamente didascalie e pensieri nella sequenza. Che Berardi e Milazzo abbiano influenzato anche due tra i maggiori autori americani?