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La lunga marcia

di Stenio Solinas - 29/08/2007

La partita impari fra il nuovo che avanza e il vecchio che non ha saputo modernizzarsi non ha impedito la nascita del mito fondatore della Cina comunista

Che cosa fu “La Lunga Marcia”

di Mao Zedong? Una

semplice ritirata strategica,

un’epopea popolare, il primo

passo verso la vittoria

finale? A settant’anni di

distanza, in una Cina che

ormai è lontana anni luce da ciò che ancora

vent’anni fa la caratterizzava come un

monolite immenso e rosso sopravvissuto alla

glaciazione comunista, la domanda non è

peregrina e la risposta non è né semplice né

univoca. Geograficamente, fu una marcia dal

sud al nord del Paese, dalle provincie dello

Jiangxi e del Guizhan fin sotto i contrafforti

della Mongolia interna e dello Xinjang, durò

tre anni, dal 1934 al 1936, coprì una distanza

di 12mila chilometri, impegnò tre armate, la

I, la II e la IV Armata rossa, per un totale di

200mila uomini. Ne arrivarono all’incirca

quarantamila.

Politicamente fu la constatazioone di un fallimento:

l’esercito nazionalista di Chiang

Kai-Shek era più forte, meglio armato, più

pagato e in fin dei conti meno detestato dalla

popolazione di quanto non lo fosse un avversario

costretto dalla penuria dei mezzi, dall’intransigenza

rivoluzionaria, dal vassallaggio

nei confronti di Mosca a una rigida politica

di violenza e di soprusi: requisizione dei

mezzi, coscrizione imposta, esecuzioni sommarie...

La sconfitta militare che incombeva

su Mao e i suoi, qualora non fossero riusciti

a fuggire dalla morsa che si andava chiudendo

intorno a loro, era figlia di una sconfitta

ideologica, una incapacità a trasformare le

parole d’ordine dei soviet, della collettivizzazione,

del Partito unico, in un insieme di

popolo coerente e coeso. Paradossalmente,

ciò che in seguito salverà i suoi leader sarà

l’invasione giapponese e la trasformazione

della lotta intestina fra cinesi, in lotta nazionale

di liberazione. Anche allora, come oggi,

è sotto la bandiera della nazione che il Paese

ritroverà sé stesso.

I dieci anni appena che intercorrono dalla

fine della “Lunga Marcia” alla conquista del

potere fotografano in fondo proprio questo,

ma vi aggiungono un elemento essenziale.

“La Lunga marcia” è stata anche un’implacabile

selezione di classe dirigente, ha forzatamente

educato al sacrificio e alla resistenza,

alla temperanza e all’abnegazione. Al

confronto, l’élite nazionalista di Chiang

appartiene ancora a un passato imperiale fatto

di corruzione e vanagloria, gelosie e ruberie,

individualismi e voltafaccia. È la partita

impari fra il nuovo che avanza e il vecchio

che non ha saputo modernizzarsi. Finirà con

il sogno nazionalista confinato nella piccola

isola di Formosa-Taiwan, un miniStato come

ultima ridotta, più che lo scelto avamposto di

una possibile rivincita.

È per questi motivi che “La Lunga Marcia”

diviene il mito fondatore della Cina comunista.

Rappresenta il ristretto gruppo di uomini

che l’ha portata a termine, che è poi passato

al contrattacco e ha vinto. Grazie a una

sapiente propaganda di regime orchestrata

da Mao, l’impresa acquista dei caratteri di

vera e propria leggenda: film e opere musicali

la immortalano e tutto si tinge dei colori

dell’epica. L’immagine idealizzata non sopporta

le critiche, né del resto può accettarle,

e quindi in essa non c’è spazio per il terribile

tributo pagato alla fame e alle malattie, per

l’enorme numero di diserzioni che la caratterizzarono,

per la spietatezza delle purghe che

la contrassegnarono lungo tutto il percorso,

per le morti inutili frutto di insipienza militare,

cecità ideologica, pura e semplice ottusità.

Adesso questo saggio di Sun Shuyun, La

Lunga Marcia. 1934-1936. La nascita della

Cina moderna (Mondadori, 298 pagine, 19

euri) affronta per la prima volta in modo

scientifico e non agiografico il tema. Nata

nel 1963, cresciuta quindi nel periodo della

Rivoluzione Culturale, laureatasi negli anni

della modernizzazione di Deng, Sun Shuyun

appartiene a una Cina con quel mito cresciuta

e a quel mito debitrice, e tuttavia ormai

adulta e sicura per poterlo valutare con la

necessaria freddezza. Il metodo di lavoro

scelto sottolinea del resto proprio questa

feconda duplicità, perché Sun, settant’anni

dopo, ripercorre quell’intinerario, in territori

rimasti pressoché immutati, si fa raccontare

da testimoni superstiti e da protagonisti come

andarono realmente le cose, dà libero sfogo a

interrogativi a lungo considerati impossibili:

Mao fu veramente un grande stratega, il

comandante che non aveva mai perso una

battaglia? Furono solo gli ideali comunisti a

indurre operai e poveri contadini ad arruolarsi

nell’Armata rossa? “La Lunga Marcia” fu

possibile grazie a un appoggio popolare o

trovò la sua strada nonostante e contro l’ostilità

popolare?

La ricerca sul campo racconta di un tasso di

diserzione altissimo, cui farà da

contraltare una pratica

di terrore,

“purghe”

a ripetizione,

altrettanto

elevata,

di una

leadership

maoista minoritaria

e in disgrazia

nel

momento in cui

venne intrapresa,

a fatica e gradualmente

recuperata

nel momento in cui

finisce, di un percorso

spesso più da esercito

di rapina e di

occupazione che non di

fraterna collaborazione

e/o liberazione, che avrà

come suo logico corollario

l’ostilità popolare che

spesso si trasforma in resistenza armata, di

un arruolamento molte volte forzoso, indifferente

al sesso e all’età, raramente motivato

da scelte ideologiche e più semplicemente

dovuto a condizioni di vita così miserabili

che qualsiasi alternativa proposta veniva

vista come appetibile...

Sun Shuyun è revisionista nel senso nobile

del termine. Pur con le sue menzogne ideologiche,

i suoi aggiustamenti storico-geografici,

le battaglie che non ci furono o le scaramucce

trasformate in scontri epocali, “La

Lunga Marcia” resta un mito fondatore che

certo Mao plasmò e utilizzò in modo magistrale,

ma che senza la resistenza e il coraggio

dei suoi partecipanti non sarebbe comunque

potuto divenire tale. Le traversie che la

contraddistinsero, posero le premesse a quella

capacità di sopportazione, ma anche di

tenacia, di orgoglio e di reazione che tanta

parte avrebbe avuto nel mezzo secolo successivo

di storia. In un Paese sterminato

dove i “signori della guerra” governavano

ancora intere regioni in forma feudale, fu la

prova generale di un sentimento nazionale in

grado di fungere da elemento unificatore.

Non è un caso che il libro sia dedicato “Agli

uomini e alle donne” che la compirono.

Comprendere il proprio passato, accettarlo

per superarlo, è ciò che rende grande una

nazione.