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Che cos'è l'antipolitica?

di Carlo Gambescia - 31/08/2007

 

Che cos’ è l’antipolitica? Vanno subito distinti almeno tre significati.
Il primo significato ha natura strumentale e viene usato per liquidare l’avversario come antidemocratico. In Italia, ad esempio, è costantemente usato per mettere fuori giuoco quei movimenti che si appellano alla democrazia diretta o alla partecipazione popolare di massa, ma privi di qualsiasi accurato riferimento ideologico o politico. Si pensi ai cosiddetti movimenti populisti (ad esempio alla Lega).
Il secondo significato è di tipo ancora più strumentale, perché serve a designare, e liquidare radicalmente, come antipolitici quei movimenti e gruppi, che non solo invocano cambiamenti politici, ma puntano a trasformazioni sociali ed economiche di larga portata, fondate su moventi di tipo ideologico. Si pensi ai cosiddetti gruppi neocomunisti o neofascisti.
Il terzo significato, altrettanto strumentale come i precedenti, gode però di buona stampa, soprattutto negli ambienti economici e finanziari. E indica con antipolitica, la “giusta” protesta, in genere dei cittadini qualunque, i quali isolatamente criticano i privilegi della politica: macchine blu, prebende, sprechi, eccetera. Il tanto celebrato libro di Rizzo e Stella (La casta) è un esempio di antipolitica “buona”, favorita dai vertici economici. E soprattutto dai loro giornali.
Diciamo, allora, che i primi due significati hanno valenza politologica e di difesa sistemica, perché sono condivisi dagli studiosi di scuola liberale e post-socialdemocratica. E di riflesso recepiti passivamente, per ragioni di sopravvivenza, anche dalla classe politica. Invece il terzo significato è giornalistico. Tuttavia attraverso l’antipolitica “buona”, così cara, ad esempio, al Corriere della Sera si punta a ricattare la classe politica e salvaguardare i privilegi del solo sistema economico. Giornalisti come Stella e Rizzo non sono dalla parte dei politici, ma sicuramente neppure da quella del popolo…
Andrebbe invece proposto un quarto significato, come dire, di tipo sociologico, capace di designare nell’antipolitica, un fenomeno più profondo: una volontà sociale di cambiamento e partecipazione, storicamente ricorrente, che oggi non riesce a esprimersi attraverso le istituzioni esistenti: nel nostro caso quelle della democrazia liberale e rappresentativa. In certo senso - come abbiamo già notato in altre occasioni - l’antipolitica di oggi può essere la politica di domani.
Ecco il vero punto della questione: se noi consideriamo sociologicamente il “politico”, come esito dell’interazione tra forma (istituzionale) e contenuto (storico e culturale), scopriamo che la forma istituzionale, di tipo liberal-democratico, mostra di essere inadeguata ai contenuti dell’antipolitica degli anni Novanta (ma si potrebbe risalire fino agli inizi del Novecento). Di qui quel conflitto, che caratterizza da quasi due decenni il “politico” in quanto tale , tra forme (vecchie: liberali) e contenuti (nuovi: partecipativi), dove, sul piano storico, per i movimenti antipolitici, il Nemico, in buona sostanza, è una liberaldemocrazia che rappresenta solo se stessa.
Ovviamente, come altri movimenti storici novecenteschi, anche l’antipolitica, rischia di assumere forme antidemocratiche (e non solo antiliberali). Ma si tratta di un rischio che merita di essere corso, considerata l’assoluta incapacità di autoriformarsi del sistema politico, economico e sociale in cui oggi viviamo. Che tra l’altro continua a presentarsi, nonostante i suoi pesanti limiti, come il migliore dei mondi possibili. Di qui il nostro consiglio di non sottovalutare le potenzialità dell’antipolitica come politica del futuro.