Tao tê ching
di Giovanni Monastra - 16/12/2005
Fonte: estovest.net
Lao-tze, Tao tê ching
Mediterranee, Roma 1997
Jean-Christophe Demariaux, Il Tao
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1993
La dottrina del Tao, la Via, e del suo aspetto immanente e agente, tê, la Virtù, intesa come "potenza", costituisce una delle forme più pure e complete di metafisica. I suoi "paradossi" -così vengono definiti secondo i canoni della logica discorsiva occidentale- ne rappresentano un aspetto caratteristico, il mezzo preferito per adombrare l'essenza inesprimibile del sacro. Lontano da ogni dialettica e da ogni pensiero analitico, il Taoismo ha caratterizzato in modo profondo la cultura cinese, influenzando anche certe forme di buddhismo che diedero origine alla corrente Zen.
Chi si avvicina al cuore di questa dottrina radicale, essenziale, priva di compromessi, ma anche densa e profonda, ne rimane folgorato. I suoi principali maestri, Lao-tze, Lieh-tze e Chuang-tze, parlano il linguaggio dell'eternità, sapendo disvelare, mediante metafore e simboli, l'essenza del Reale a chi sa porsi in ascolto. Naturalmente in un'epoca, come la nostra, che consuma e divora ogni cosa, banalizzandola, anche la dottrina del Tao ha subito questa sorte, diventando uno dei tanti fatti esotici in vendita nel mercato delle pseudoreligioni, dove si affianca alle varie mistificazioni alla moda (a base di parodie del tantrismo, del buddhismo o del sufismo), spacciate come vie salvifiche per individui depressi o stressati dal lavoro. Anch'essa è stata ridotta, e quindi sfigurata, dentro gli schemi della mentalità antimetafisica e materialista, attraverso un processo ben collaudato di depotenziamento, svuotamento e volgarizzazione. Essendo difficile e faticoso per molti elevarsi fino al suo rango, si è preferito abbassarla di livello. Così c'è chi vi ha visto una filosofia naturalista, del tutto indifferente alla dimensione "verticale", cioè spirituale, o chi la ha resa una forma di ginnastica mentale, utile per "stare meglio", realizzando così di fatto un ulteriore indurimento e una progressiva solidificazione dell'Io, risultato che è l'esatto contrario di quanto perseguito da ogni vera forma tradizionale, tesa invece a sciogliere e annullare l'individualità nel Sè trascendente.
È quindi di estrema importanza segnalare quei testi che, differenziandosi dalla maggioranza degli approcci attuali in chiave filosofica, psicologica o addirittura salutistica, riescono a cogliere la vera essenza del Taoismo. Tra questi troviamo un fondamentale libro sapienziale, il Tao tê ching di Lao-tze, curato da Julius Evola, e Il Tao, scritto da un giovane ricercatore francese, Jean-Christophe Demariaux.
Il primo dei due testi è arricchito da un denso saggio introduttivo dello studioso tradizionalista italiano, che ha anche commentato i vari brani tradotti dal cinese. Comprende, inoltre, la prima stesura del Tao tê ching, con relativo commento, che Evola portò a termine già nel 1922, nella quale, rispetto alla versione successiva, rigorosamente "tradizionale", edita per la prima volta nel 1959, si notano numerose influenze "filosofiche" che diedero luogo ad alcuni gravi fraintendimenti da parte dell'Autore, tipici dei suoi anni giovanili. Per cui, l'interesse del testo si accresce anche nella prospettiva di una analisi sui cambiamenti avvenuti nel pensiero evoliano tra l'epoca "filosofica" e quella "tradizionale". Ma, al contempo, il precoce tentativo dell'Autore di tradurre, in termini moderni, il "vero" significato del testo sapienziale, al di là del primo risultato assai problematico, preannuncia la sua forte e motivata aspirazione a svolgere un ruolo nel trasmettere all'Occidente in forme corrette, e non riduttive, il significato della sapienza orientale. E tale fu appunto uno dei motivi conduttori dell'opera del tradizionalista italiano.
La nuova edizione di questo libro è anche arricchita da una puntuale prefazione di Silvio Vita, docente di Religioni e Filosofie dell'Asia Orientale presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli, e da una nota del curatore, Gianfranco de Turris, a cui dobbiamo in questi anni la ripubblicazione, per le Mediterranee, di molti testi evoliani, rivisti sotto l'aspetto formale (note, ecc.) e corredati di un apparato critico, opera di qualificati accademici (Cardini, Nasr, Varenne, Filippani Ronconi, Galli).
Evola non ha compiuto una vera traduzione degli 81 capitoli del Tao tê ching, ma ne ha fornito una versione basandosi sulle più accreditate traduzioni in lingue occidentali. Il suo sforzo, pienamente riuscito, è stato quello di dare alle varie parti un senso in accordo con la concezione metafisica del Tao, quale emerge dal complesso dei vari testi dedicati a questa dottrina. Così Evola ha eliminato molte assurdità che solo un approccio letteralistico e cieco, rispetto al significato generale, poteva accettare. D'altra parte, come è ben noto, il linguaggio cinese arcaico, con i suoi pittogrammi, è polisemantico, quindi un traduttore deve essere anche, e in primo luogo, un profondo conoscitore del pensiero metafisico e della specifica cultura dell'area in cui il testo è stato formulato. Il risultato è una versione dell'opera di Lao-tze di forte coerenza interna e di alto livello. In essa -osserva Evola- troviamo, a vari livelli, una metafisica, un'etica, una dottrina della regalità sacrale, un insegnamento esoterico sull'immortalità.
Da parte sua Il Tao di Demariaux è dedicato a questa grande corrente di pensiero sapienziale nel suo complesso. L'Autore insegna cinese e collabora alla rivista francese di studi tradizionali Connaissance des Religions, vicina al pensiero di Frithjof Schuon. I due testi sono in perfetta sintonia, salvo che per pochi giudizi marginali (ad esempio, Evola, erroneamente, giudica in parte "sfaldato e diluito" il pensiero del saggio taoista Chuang-tze, mentre nell'altro studio la valutazione è del tutto favorevole).
Nel loro complesso permettono di avere un primo approccio al Taoismo in modo corretto, presentando il significato di termini quali "agire senza agire", ossia un agire "sottile", che non si muove, ma fa muovere, al pari di un magnete, o spiegando il vero senso della "rinascita del corpo" taoista, da intendersi come risoluzione della parte fisica dell'essere umano in quella spirituale. Demariaux delinea i tratti fondamentali della dottrina, così come fa magistralmente Evola nel saggio introduttivo al Tao tê ching, citato positivamente dallo studioso francese, ma fornisce anche un quadro storico che permette di seguirne lo sviluppo dalle origini ai giorni nostri, con le sue luci e le sue ombre, dalla nascita della "chiesa taoista" al messianismo dei "turbanti gialli", fino allo stato attuale, in particolare a Taiwan. Tra l'altro l'Autore non manca di ricordare le violente persecuzioni subite da parte del potere comunista in Cina, secondo cui il Taoismo era una "organizzazione mistica reazionaria di carattere feudale che induce in errore le masse arretrate". Troviamo, inoltre, interessanti riferimenti alla concezione della natura e all'arte tradizionale secondo il Tao, temi, questi ultimi, a cui anche Evola dedica pagine assai puntuali.
Se vogliamo fornire una prima definizione della dottrina possiamo dire che essa esprime una visione globale del mondo, visto da una prospettiva olista, in cui centrale è il Tutto, e offre una Via di realizzazione spirituale, di tipo iniziatico, al di fuori di ogni categoria filosofica a noi consueta. Apparve in un'epoca, il VII-V secolo a.C., in cui grandi figure di riformatori, taluni leggendari, si presentarono sulla scena del mondo: Buddha, Confucio, Pitagora, Zarathustra e, appunto, Lao-tze. Non si trattava, quindi, di creatori di nuove forme religiose, ma di personaggi che coagulavano in sè la necessità storica di un rinvigorimento e di una rinascita di antiche dottrine offuscate e depotenziate dal passare del tempo e dalla incomprensione degli uomini. Demariaux sottolinea che lo stesso Confucio, ritenuto a torto da alcuni un autore laico e "moderno", affermava: "Io tramando, non creo. Stimo ed amo gli antichi". In base agli studi più recenti la stesura del Tao tê ching viene fatta risalire alla fine del IV, inizi del III secolo a.C., anche se, in accordo con la tradizione cinese, gli studiosi occidentali riconoscono che si è trattato di una "codificazione scritta di una tradizione orale più antica", come osserva Demariaux, in pieno accordo con Silvio Vita.
Il Tao è connaturato alla stessa essenza del pensiero tradizionale cinese, sintetizzato già nell'I-ching, l'antico testo oracolare: ne costituisce il fondo comune su cui si sono articolate numerose meditazioni di ordine sapienziale. Da esso emana la divinità suprema dell'antica religione della Cina: Shang Di. In ambedue i casi si tratta di una espressione apofatica, ossia indicata come ineffabile, del Supremo Principio. In un interessante, ma poco noto, libro dal significativo titolo L'identità cinese (Jaca Book, 1991), Andrea Ammassari, basandosi sui pittogrammi arcaici, ha scritto: "il Dio della preistoria cinese, colui che abitava nel mezzo della foresta..., al di sopra dell'albero altissimo, non aveva volto, nè forme umane". Il suo nome sembra alludere in modo indiretto: "indica, senza definirla con forme antropomorfiche, una persona inesprimibile, di cui si ignora il vero nome, apofatica". Quindi, conclude Ammassari, già in un'epoca protostorica, circa 8.000 anni fa, siamo in presenza di una teologia puramente negativa, dove -aggiungiamo noi- il Supremo Pincipio è neutro, nè maschile, nè femminile, nella sua assoluta impersonalità. E, a questo proposito, vorremmo osservare come siano assai discutibili certi schemi in uso da parte degli studiosi moderni dei fenomeni religiosi.
Ci riferiamo alla correlazione meccanica e deterministica posta tra concezione della divinità e cultura materiale. Così, secondo l'opinione corrente, l'affermarsi delle culture agricole tra i vari popoli, dopo la fase della caccia e della raccolta dei frutti selvatici, avrebbe portato come conseguenza necessaria una rivoluzione nel pensiero religioso, in quanto sarebbe emerso il mito centrale della Madre Terra, nutrice dei suoi figli, con la sua ipostasi costituita dalle varie figure di Dee Madri, ben note nell'area mediterranea e altrove. Come controparte "terrena", in questa cornice culturale, la donna avrebbe assunto un ruolo centrale, dando luogo alle società matriarcali, demetriche o afroditiche, secondo la tipologia del Bachofen. Ebbene la Cina fu uno dei primi paesi agricoli, di estensione enorme, in cui il rapporto con la terra e la natura era importantissimo. Ma, come ha osservato Pio Filippani Ronconi (Storia del pensiero cinese, Bollati Boringhieri 1992), in questa area culturale mancò del tutto la "componente mistico-religiosa propria al culto di divinità femminili del genere delle Grandi madri", mentre il prototipo "sociale" fu sempre il contadino, conservatore e fedele alla sapienza degli antenati. Il che demolisce tutte le concezioni materialistiche, a base sociologico-economicista, della religione, oggi ancora in voga. Stupisce, quindi, che Evola accenni nel suo saggio introduttivo a una società arcaica matriarcale, substrato dell'antica Cina, i cui lontani echi egli crede di ritrovare in alcuni passi del Tao tê ching. (ad esempio, nel Cap. 6).
Tornando al pensiero dei maestri riformatori dell'antica sacralità cinese, ci limitiamo a ricordare quanto detto da Lao-tze circa il fenomeno della manifestazione del mondo ad opera del Principio Supremo, intesa, in accordo con la Tradizione, come un processo di "particolarizzazione" espresso tramite la metafisica dei numeri. Così, si legge, che "Il Tao produsse l'Uno / L'Uno produsse il Due / Il Due produsse il Tre / Il Tre dette vita alla moltitudine degli esseri particolari" (Cap. 42). In altri termini, dal Non-Essere, lo Zero metafisico, il Principio Supremo apofatico, o nirgunico al pari del Brahman indù, si passa all'Essere, l'Uno, il quale, a sua volta, si polarizza nella Diade complementare dello yin e dello yang, analoghi, rispettivamente a prakriti e purusha, per poi dare luogo, attraverso successivi processi, a tutto il mondo sensibile, simbolicamente indicato come i "diecimila esseri".
In conclusione, a proposito dello yin-yang, vorremmo ricordare una recente segnalazione fatta dallo scrivente circa l'esistenza dell'iconografia, che raffigura questa Diade, anche in ambito romano tardo-imperiale, fatto di cui fino ad ora nessuno sembrava essersi accorto. Si tratta di due simboli, o meglio tre, che riproducono perfettamente in due casi lo yin-yang in forma "dinamica", e in uno in forma "statica", con i colori rosso scuro e giallo, in luogo del nero e del bianco, con i quali, per altro, sono in rispettiva analogia. Tali simboli si trovano in una antico testo romano, la Notitia dignitatum, contenente gli emblemi dei vari reparti civili e militari dell'Impero. Va notato che, mentre le prime iconografie cinesi dello yin-yang, giunte fino a noi, risalgono all'XI secolo d.C., il testo a cui facciamo riferimento venne compilato tra il IV e il V secolo d.C.: quindi tale figura sembra essere apparsa in Occidente circa settecento anni prima dell'analoga cinese, cosa che per altro risulta spiegabile nell'ambito di una visione "tradizionale" e universale dei simboli (per una dettagliata presentazione e discussione di dati rimandiamo al nostro saggio Lo "yin-yang" tra le insegne dell'impero romano?, apparso su Futuro Presente, n. 8, anno 1996).