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Per poter scegliere se stessi occorre prima sapersi riconoscere

di Francesco Lamendola - 31/08/2007

 

  

 

Nella poesia I fiumi, scritta fra una pausa e l'altra delle sanguinosissime battaglie dell'Isonzo sul fronte della prima guerra mondiale, Giuseppe Ungaretti, rievocando le stagioni della propria vita di uomo, a un certo punto scrive:

 

(…) Questa è la Senna

       e in quel suo torbido

       mi sono rimescolato

      e mi sono conosciuto.

 

Già, conoscersi: ma quanti di noi lo fanno, quanti - semplicemente - si pongono il problema di riconoscersi? Quanti, a un certo punto della propria vita, cominciano ad averne abbastanza delle innumerevoli maschere che ci siamo messi, o che la società ci ha imposto, e si lasciano afferrare dal desiderio e dalla nostalgia di vedere cosa c'è sotto; non per scoprire - pirandellianamente - che sotto di esse c'è il nulla, ma per ritrovare il senso di una vita più autentica e, quindi, più armoniosa e più piena?

Quanti strumenti scordati, quante note stonate nel concerto della grande vita universale, a causa di tale inconsapevolezza! Quante occasioni mancate, quanta bellezza sprecata, quanto amore dissipato a causa della nostra incapacità di guardarci dentro e riconoscere la nostra verità interiore. Quanti compromessi, quante meschinità, quante inutili sofferenze - subite e inflitte all'altro, al tu - a causa di questa fondamentale mancanza di coraggio, di onestà intellettuale e morale verso se stessi e verso il prossimo! Si potrebbe dire, senza timore di esagerazione, che la vita umana sulla Terra potrebbe essere tutt'altra cosa se soltanto ciascuno di noi fosse in grado di elaborare quel minimo di lealtà e di dignità personale che consistono nello sforzo di vedersi, spogliati di tutte le maschere e di tutti i travestimenti, per ciò che si è veramente in fondo all'anima. L'anima: questa parola ormai quasi caduta in disuso, che la cultura scientista oggi dominante guarda con disprezzo misto a repulsione, come un retaggio di antiche epoche d'ignoranza e oscurantismo; e che invece è la parola-chiave per riappropriarci di noi stessi, delle nostre più profonde aspirazioni, della nostra più sublime nostalgia di ciò che è buono, bello e vero!

Ma perché bisognerebbe darsi tanto da fare - qualcuno potrebbe chiedere - per mettersi a nudo con se stessi, se si può vivere benissimo anche in maschera, come altrettanti rinoceronti che si spacciano per esseri umani (cfr. il nostro articolo: Il trionfo del rinoceronte ovvero l'Antisocrate trionfante); anzi, se - tutto sommato - si vive meglio in un mondo di individui mascherati, di rinoceronti trionfanti e sfrontati? A che scopo abbandonare le confortevoli protezioni, gli astuti camuffamenti dei quali ci adorniamo per proteggerci dai colpi che la vita c'infligge senza tanti complimenti; perché mai denudarsi in mezzo a uomini e donne vestiti di ferro, con l'evidente pericolo di finire stritolati come il proverbiale vaso di coccio?

La risposta è abbastanza semplice: perché, senza un doveroso auto-riconoscimento,noi non possiamo nemmeno scegliere noi stessi e la nostra vita, ma soltanto subire quella inconsapevolezza che ci trascina da una situazione falsa ad un'altra, da un'ipocrisia ad un'altra, da un meschino compromesso all'altro, sempre più in basso e, soprattutto, sempre più lontani da una possibile felicità. Infatti il nascondimento, il calcolo e la finzione finiscono per portarci, alla fin fine, verso la destinazione esattamente contraria a quella che ci avevano ingannevolmente promesso: il raggiungimento della felicità. Certo, potremo raggiungere dei beni effimeri e un certo qual surrogato di benessere interiore, ma esso sarà solo apparente. I beni ci possono venir tolti in qualsiasi momento, non sono mai stati veramente nostri; e anche del benessere interiore possiamo venire spogliati nella maniera più brutale, se esso è costruito non sulle solide basi dell'autenticità e della consapevolezza, ma sulle basi effimere e illusorie di circostanze puramente estrinseche, di equilibri che non dipendono realmente da noi, ma solo da un concorso di elementi (apparentemente) favorevoli.

Detto questo, che cosa significa esattamente scegliersi? Non è forse sufficiente essere vivi e respirare, mangiare, dormire, parlare, stringere rapporti, esplicare attività?  Tutte queste cose che noi quotidianamente facciamo, non sono forse ciò che determina il nostro essere? Che bisogno c'è insomma di scegliersi, quando noi non possiamo essere nient'altro che quello che già siamo? Ecco il grande errore, il grande equivoco, il grande fraintendimento: credere che esistere ed essere siano la medesima cosa; e che basti esistere per essere, automaticamente. Invece non è affatto così: altro è esistere, altro è essere. Il mondo è pieno di individui che esistono, ma non sono: hanno l'esistenza (direbbe Pirandello) ma non l'essenza. E che cos'è l'essenza di un ente? È il nucleo di verità che lo fa essere quello che è, non in virtù di determinazioni puramente secondarie e casuali, ma in virtù della natuira che gli è propria. Ad esempio, la natura del cavallo non è quella di essere bianco: un cavallo può essere bianco oppure di un altro colore, questo non ha a che fare con la sua essenza e non riguarda la sua verità profonda. Ciò che lo rende veramente un cavallo non è il fatto di essere bianco o grigio o pezzato, ma il fatto della cavallinità. E ciò che rende veramente uomo o donna un essere umano non è essere giovane o vecchio, alto o basso, ragioniere o generale, ma il fatto della loro umanità.

E che cosa vuol dire umanità? Che cosa contraddistingue la natura umana e la differenzia dalla natura di un minerale, di una pianta, di un animale, ecc.? Siamo giunti, così, alla necessità di definire la natura umana. Per noi, una buona definizione potrebbe essere questa: la natura umana è caratterizzata da una essenza spirituale fondata sulla libertà, pur se condizionata dalle determinazioni materiali del tempo e dello spazio (intendendo per queste ultime sia quelle interne: il nostro corpo, l'eredità genetica, ecc., sia quelle esterne: l'ambiente, l'epoca storica, e così via). Una importante conseguenza di questa definizione (che è passibile, ovviamente, di miglioramenti e ulteriori specificazioni) è che la natura umana non è qualcosa di statico e di dato una volta per tutte, ma un qualcosa di dinamico, in perpetuo movimento. Siamo frecce scoccate verso qualche cosa che sta oltre di noi - direbbe Nietzsche -; siamo l'aspettativa e la promessa di un qualcosa che deve ancora incominciare ma che può effettivamente cominciare, qui e ora, se noi lo vogliamo e lo vogliamo fortemente.

Grandi mistici e pensatori, come sri Aurobindo e Teilhard de Chardin (fra loro anche diversissimi, come si vede da questi due soli nomi) ne erano assolutamente convinti. L'uomo non è ciò che è, ma ciò che può diventare; noi non siamo, propriamente parlando, bensì diveniamo; e l'oltre-uomo profetizzato da Nietzsche non è altri che l'uomo fatto consapevole delle proprie potenzialità, del proprio destino, e innamorato di quell'infinto che oscuramente avverte entro di sé e nel quale intuisce essere il suo supremo appagamento, di là dal flusso del divenire e delle cose effimere delle quali vanamente si circonda, forse proprio per mettere a tacere quella nostalgia e stordirsi con il rumore del transitorio e dell'impermanente.

Ora, sulla scala che porta dall'uomo all'oltre-uomo il primo gradino è, appunto, costituito dalla necessità di riconoscersi; il secondo, da quella di scegliersi autenticamente e consapevolmente, realizzando la propria natura. La natura dell'uomo non è quella di guardare in basso e di immergersi nelle cose materiali, ma di alzare la fronte verso il Sole e di gettare un ponte verso l'Oltre. La nostra condizione attuale è paragonabile a quella di un ricchissimo proprietario che possiede uno splendido palazzo, luminoso e magnificamente arredato, ma che ha deciso di segregarsi nella parte più umida e buia dei sotterranei, nutrendosi di avanzi muffiti e bevendo acqua fangosa, brulicante di microbi d'ogni sorta. Ci siamo reclusi con le nostre stesse mani;  da noi stessi abbiamo offerto i polsi alle catene e abbiamo poi gettato via la chiave della serratura che ce li imprigiona; da noi stessi abbiamo allontanato i cibi squisiti e le bevande dissetanti che imbandivano la nostra mensa. E tutto questo lo abbiamo fatto nel patetico miraggio di realizzare la nostra felicità senza fatica e senza sacrificio, seguendo sempre la strada più comoda e piana.

Ma forse è arrivato il momento di ridestarci da questo brutto sogno, di tornare in noi stessi; di scuotere le catene di spezzare con il primo sasso che ci capiti in mano, anche a costo di ferirci a sangue; di sfondare la porta del tetro scantinato e di risalire le scale verso la luce, il calore, la bellezza e la gioia. Noi non possiamo essere felici tradendo la nostra natura e la nostra missione: che è quella di guardare verso l'alto, di realizzare le nostre migliori potenzialità, le nostre più autentiche aspirazioni verso il buono, il bello e il vero. Mandiamo al diavolo la pletora dei cattivi maestri, dei profeti della sventura, della stanchezza e della rassegnazione nonché quella degli imbonitori da fiera  che ci promettono felicità spicciole a buon mercato, tutte e subito.  Ritroviamo il senso della nostra dignità, della nostra fierezza, del nostro consapevole esercizio della libertà. Libertà che non può esaurirsi nella scelta fra il Grande Fratello di Canale Cinque e L'isola dei famosi di Rai Due; uno shopping in centro, sempre più nevrotico e compulsivo, e una demenziale serata passata in discoteca a sovreccitarsi con sostanze alcoliche o stupefacenti e a stordirsi con musiche rimbombanti a un volume che è oltre la soglia di sopportabilità dell'udito.

La vera libertà è sempre la scelta fra un bene inferiore ed uno superiore, non già fra due beni inferiori tra loro equivalenti. Qualcuno vorrebbe che noi sprecassimo la nostra esigenza di libertà fra oggetti che non sono affatto alternativi e che non liberano colui che li possiede. Contro questo grossolano fraintendimento del concetto di libertà, occorre dire con forza che l'esercizio della libertà è inseparabile dal discernimento riguardo alla nostra vera natura, alla nostra destinazione, alla nostra missione: che è quella di tornare all'Essere donde proveniamo e al quale aspiriamo con profonda, struggente nostalgia. La sola autentica libertà, che nulla e nessuno potrà mai toglierci, è appunto questa: entrare nell'Essere e lasciarci penetrare dall'Essere, divenendo una cosa sola con esso. Certo, nella condizione spazio-temporale della nostra attuale esistenza non potremo che aspirare a un fuggevole presentimento di tale identità: eppure è quello sforzo, quella tensione verso l'Essere che fa la differenza tra vita autentica e vita inautentica, tra vita felice e realizzata e vita infelice e tradita.

Il nostro destino è di puntare al superamento della condizione umana come dato storico-biologico, per realizzare quella diversa condizione esistenziale che possiamo anche denominare, con Nietzsche, oltre-uomo: intendendo, però, con questo termine non una specie di super predatore o un essere umano terrestre elevato all'ennesima potenza; bensì un essere umano che si è riconosciuto, si è scelto e si è messo in cammino per realizzare il proprio destino: il ritorno alla casa dell'Essere, passando attraverso l'amore e la fedeltà incondizionati verso gli essenti, su su, di gradino in gradino, fino all'Essere in quanto tale.