Passaggi al bosco
di Paolo Marcon - 16/12/2005
Fonte: estovest.net
L. Bonesio, C. Resta,
Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani,
ed. Mimesis, 2000
Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne sull’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia.
Ernst Jünger
«Jünger è stato se stesso e costituisce categoria umana a sé, come per tutti gli uomini sarebbe doveroso»[i]. Queste parole pronunciate da Quirino Principe alla scomparsa dell’autore tedesco, avvenuta il 17 febbraio del 1998 alla soglia dei 103 anni, mentre infuriavano i goffi tentativi di inserire il suo pensiero, le sue opere e scelte di vita in questo o quell’orientamento filosofico o politico, rappresentano, forse, l’unica descrizione possibile di una figura gigantesca come quella di Jünger. Scrittore, filosofo, poeta, guerriero, ma anche entomologo: il suo orgoglio più grande era quello di aver dato il proprio nome ad una famiglia di insetti. Uomo di pensiero aristocratico e d’azione, Ernst Jünger è oggi - dopo decenni di colpevole silenzio e di censure dovute alla mediocrità disinformata di alcuni e alla malafede di altri - una delle figure intellettuali europee più discusse e controverse. Mentre le sue opere vengono finalmente pubblicate da grandi case editrici, nel panorama degli studi critici italiani spicca, per completezza e profondità di analisi, il bellissimo libro di Luisa Bonesio e Caterina Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, ed. Mimesis. Si tratta di un volume che ripercorre rigorosamente l’intera opera del pensatore tedesco, dalla sua formazione sui campi di battaglia della prima Guerra Mondiale alle speculazioni dell’ultimo Jünger ritirato a Wilflingen, il villaggio della Svevia superiore, ignorato persino da molte carte geografiche e circondato da un meraviglioso paesaggio di boschi e prati, in cui lo scrittore tedesco trascorse l’ultima parte della sua vita avventurosa. Una vita lunga, piena, attiva e contemplativa assieme, che ha registrato la presenza di Jünger in eventi storici decisivi. Parafrasando il titolo di un saggio di Moreno Marchi dedicato ad alcuni scrittori francesi, anche di Jünger si può senz’altro affermare che ha vissuto con il sangue e con l’inchiostro. Lasciandoci in eredità se stesso, la sua esemplare statura, le sue qualità di uomo libero, prima e oltre la sua ricchissima produzione letteraria. Costringendoci inoltre - magnifico dono - a fare i conti in qualche modo con la sua persona, con il suo pensiero. Non è possibile prescindere da Ernst Jünger, infatti, se si desidera affrontare responsabilmente questioni cruciali del nostro tempo, come la tecnica, il nichilismo, la libertà, l’identità, l’organizzazione politica degli spazi planetari.
Egli ha attraversato tutto il Novecento divenendone uno dei suoi più lucidi testimoni. E’ riuscito a cogliere l’essenza profonda dei processi che segnano la modernità; e ciò non in virtù di uno sguardo intellettualistico (o cartesiano), bensì grazie alla sua straordinaria e misteriosa sensibilità stereoscopica che gli ha consentito di cogliere «le cose nella loro corporeità più segreta e più immobile»[ii]. Non a caso, il nazionalbolscevico Ernst Niekisch coniò per Jünger la bellissima definizione di sismografo per sottolinearne le capacità di comprensione finanche dei più piccoli e “sotterranei” segnali del tempo. Capacità non disgiunte da un’indiscutibile e profetica veggenza, quasi come se Jünger disponesse di particolari ed invisibili antenne, non troppo dissimili da quelle dei suoi amatissimi insetti.
Benché l’eccezionale ricchezza dell’opera e della vita di Ernst Jünger renda praticamente infiniti gli argomenti da esaminare e gli spunti di riflessione da approfondire, questa raccolta di saggi di Luisa Bonesio e Caterina Resta rappresenta, sicuramente, la più riuscita esplorazione della totalità del pensiero jüngeriano, nei suoi nuclei teorici fondamentali, che sia mai stata pubblicata in Italia. Un libro indispensabile, dunque, per chi già conosce ed apprezza lo scrittore tedesco; ed un libro che, pur essendo molto più di una semplice “introduzione” all’opera di Jünger, per l’obiettività inconsueta ed immune dal vergognoso “brigantaggio politico” che molto spesso ha contraddistinto l’approccio al pensiero jüngeriano, è utilissimo anche per chi poco conosce di questo autore di riflessioni attualissime. Egli appartiene a quella schiera di uomini che si plasmarono nelle trincee della prima Guerra Mondiale e la cui vita fu segnata in modo indelebile da quei tragici avvenimenti[iii]. Ferito quattordici volte, si vide attribuire la croce Pour le mérite, il più importante riconoscimento dell’esercito tedesco. E fu proprio la guerra, l’esperienza fondamentale del giovane Jünger e il fattore stimolante delle sue prime speculazioni. Jünger riconobbe subito il travestimento moderno del fenomeno bellico nella guerra di materiali (Materialschlacht). «Il genio della guerra si è congiunto con il genio del progresso»[iv]: così la battaglia tradizionale evolve in una specie di combattimento in cui uomini e macchine sembrano affratellati. E’ la fine dei valori eroici tradizionali. L’assalto dei giovani volontari tedeschi, molti dei quali Wandervögel, presso Langemarck il 10 novembre 1914, è spesso ricordato da Jünger come un evento emblematico: l’entusiasmo e l’idealismo romantico delle migliori leve di una generazione si scontrarono con il fuoco delle artiglierie nemiche; e non ci fu nulla da fare. Eppure il capitano Jünger non reagisce alla guerra moderna cantando le virtù di quella antica, bensì scorge la grandezza dell’uomo, del guerriero che diventa tecnico, anche nelle tempeste d’acciaio. E, soprattutto, si rende presto conto della grande svolta che l’Occidente sta vivendo.
Lo sviluppo tecnologico, che ha modificato i sistemi di combattimento, sconvolge la vita anche in tempo di pace. La mobilitazione totale (nel suo duplice aspetto, tecnico e spirituale) si impone nel mondo del lavoro che assume dunque un carattere totale. Con incredibile chiarezza Jünger intravede, tra le due guerre mondiali, l’avvento della figura dell’Operaio o Lavoratore (Der Arbeiter), il «milite del lavoro»[v] che mobilita il mondo con la tecnica. Non si tratta di una grandezza economica, come vorrebbero liberalismo e marxismo, bensì di un tipo d’uomo che si riconnette ai requisiti dell’epoca attuale. Una figura metafisica che sconvolge l’in-forme mondo del dominio (apparente) borghese. Quest’ultimo, assieme alle categorie concettuali del razionalismo cartesiano, è il bersaglio polemico di tutta l’opera dell’autore tedesco. Posto che anche il “borghese”, per Jünger, non è il rappresentante di una classe sociale ma il tipo d’uomo che nega ogni valore metafisico ed il modello di vita che, fondandosi sul bisogno infantile di sicurezza, rimuove le forze elementari della natura. Secondo Jünger, la figura dell’Operaio è destinata a sostituire l’individuo borghese, sorto dall’Illuminismo e slegato da ogni appartenenza, il cui tempo è tramontato. Il primo conflitto mondiale segna proprio la fine del “tempo dell’io individuale” (Ichzeit) e l’inizio “del tempo del noi collettivo” (Wirzeit). Lo spazio del lavoro non conosce più confini e l’azione dell’homo technicus è la sua spinta unificatrice. Come osserva Resta, ben prima dell’invenzione di internet lo scrittore europeo comprese perfettamente il modo reticolare con cui la tecnologia impone il suo dominio.
Tuttavia, se negli anni Trenta Jünger ha ancora fiducia nelle capacità del Lavoratore di dominare le macchine nell’attesa che la tecnica si spiritualizzi, giungendo al suo “punto di perfezione” e facendo dunque emergere il fondo immobile ed elementare del vorticoso processo di unificazione tecnica del pianeta, il catastrofico secondo conflitto mondiale, agli occhi dello scrittore tedesco, rende evidente l’inadeguatezza dell’Operaio. Il quale lungi dal controllare i suoi strumenti sembra essere diretto da loro, in un processo che tende alla costruzione di una terra senza confini e senza dèi, in cui trionfa un orribile e volgare “paesaggio da officina”. Con il passare del tempo, insomma, Jünger sembra diventare più pessimista circa le capacità dell’Operaio di costruire un ordine armonico dopo e oltre la distruzione. Perciò scorge da un lato la necessità di una unificazione politica del mondo nella quale l’organizzazione (il meccanismo tecnologico) non schiacci l’organismo (la sostanza vitale, le diverse culture ed identità). Il fondamento di questo Stato mondiale (Weltstaat) - che riscopre il modello politico imperiale, l’unico capace di garantire unità nella varietà[vi], nell’era della crisi degli Stati nazionali - deve essere una Nuova Teologia in grado di portare l’uomo a riscoprire la relazione col divino, relazione indispensabile per governare l’accelerazione del nostro tempo ed evitare gli esiti più devastanti e nichilistici del titanismo tecnologico. Dall’altro lato, però, Jünger ritiene che questa rinnovata alleanza con gli dèi debba realizzarsi prima di tutto nel cuore del singolo. Considerato che il Lavoratore, figura titanica, non si rivela all’altezza di questo compito, lo scrittore tedesco individua allora nuove figure (il Ribelle, l’Anarca) capaci di operare quei passaggi oltre il muro del tempo che restituiscono libertà ed autenticità al singolo che sappia avvicinarsi al fondo immobile, originario e atemporale della realtà.
Di fronte al nichilismo della modernità, che Jünger giudica come un processo di riduzione (Reduktion) e svanimento (Schwund) di ogni sostanza, che agisce attraverso il tecnicismo e sistemi d’ordine di grandi dimensioni, l’autore tedesco guadagna ora una prospettiva nuova che gli consente di mutare l’atteggiamento nei confronti della tecnica. Quest’ultima, lungi dall’indebolire il “borghese”, appare ora agli occhi di Jünger come lo strumento di diffusione all’intero globo del suo potere dissacrato e dissacrante. La forma del Lavoro, di cui Jünger aveva subito il fascino, manifesta in maniera sempre più evidente il suo volto terrificante, distruttivo ed omologante. E’ la crescita del deserto di cui parla Nietzsche: l’omogeneizzazione dei paesaggi naturali e culturali procede di pari passo con l’inaridimento spirituale. Nel mezzo di questo gorgo nichilistico, secondo Jünger, sarebbe illusorio cercare la salvezza difendendo romanticamente istituzioni destinate ad essere travolte. La “cultura museale” e il percorso verso il nulla sono anzi, per lo scrittore tedesco, le due facce della stessa falsa medaglia. Nel panorama uniforme ed indifferenziato della modernità desertificante - di cui un altro simbolo è il Titanic, la nave lussuosa e tecnologica che corre velocissima verso l’impatto con l’iceberg in un’irreale atmosfera di festa – le piccole élites o i singoli non disposti a barattare la propria libertà ed identità per un po’ di comfort, possono resistere all’inglobamento nel Leviatano (il nichilismo, lo Stato moderno ridotto ad oggetto nichilistico), solo recuperando la dimensione della selvatichezza, della Wildnis. Natura incontaminata (Wildnis) e bosco (Wald) sono allora simboli di quella terra selvaggia non corrotta dall’organizzazione - intesa come l’ordine tecnico e scientifico che restringe, fino ad annientarla, la libertà dell’uomo; l’ordine del nulla, insomma - che cresce ovunque, nel petto del singolo e nel deserto, come un’oasi. La stupenda immagine del ricorso alla Selva rappresenta proprio il distacco dagli impersonali automatismi dei ritmi meccanici. E’ l’incontro con se stessi nella riscoperta delle forze elementari della natura, sacrificate dalla modernità occidentale sull’altare di una ragione eletta a divinità. Ma non si tratta di una passeggiata, né di una facile ritirata. Il bosco è infatti la grande dimora della morte. E il Ribelle dei boschi (Waldgänger), aprendosi alle forze elementari e trascendenti della natura, sa che il rischio, il pericolo, l’aspetto avventuroso dell’esistenza, il dolore, la violenza, la stessa morte (tutto ciò contro cui il “borghese” si illude di potersi “assicurare”), sono manifestazioni della natura, costituiscono il fondo primordiale (Urgrund) della vita. I tentativi volti alla negazione di queste forze non sono solo vani ma anche pericolosi: come insegna la psicologia del profondo, i contenuti rimossi della psiche rischiano di possedere completamente l’individuo, o la collettività, che quei contenuti ha negato.
I passaggi al bosco, dunque, sono praticabili, come spiega perfettamente Bonesio, laddove l’uomo riesce ancora a sentire la sacralità della natura, nella sua totalità, pensando ad essa al di fuori degli schemi riduttivi della scienza moderna che la banalizza ad oggetto di analisi e manipolazione. Ma l’approccio alla natura non può nemmeno essere di tipo romantico, giacché questo definisce la bellezza della natura solo in funzione dei canoni estetici dell’uomo, rimanendo così in una prospettiva antropocentrica. Bisogna imparare di nuovo a guardare la natura rispettandone i simboli meravigliosi. Ed anche in questo il Maestro Jünger ha molto da insegnarci.
Paolo Marcon
[i] Q. Principe, Ultimo Titano del ‘900 o primo del Duemila, in “Lo Stato”, 1998, n. 9, p. 63.
[ii] E. Jünger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella luna, in id., Foglie e pietre, trad. it., Milano, 1997, p. 109.
[iii] «La guerra è il padre di tutte le cose, anche il nostro […] Essa ci ha martellato e temprato perché diventassimo ciò che siamo. Per tutto il tempo che la ruota della vita girerà in noi, la guerra sarà il suo asse» (E. Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis, cit. in C. Risé, Misteri, guerra e trasformazione. Le battaglie del Sé, Milano, 1997, p. 26).
[iv] E. Jünger, La mobilitazione totale, in id., Foglie e pietre, op. cit., p. 114.
[v] L’espressione è di Delio Cantimori. Cfr. D. Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in id., Tre saggi su Jünger, Moeller van den Brück, Schmitt, Roma, 1985, pp. 17-43.
[vi] «Due principi supremi dovranno essere sanciti nella costituzione, qualunque struttura essa abbia: i principi dell’unità e della varietà. Il nuovo impero deve essere unico nelle sue articolazioni, ma nel rispetto delle loro specificità» (E. Jünger, La pace, trad. it., Parma, 1993, p. 52).