La Cina è a caccia d’acqua e ha un piano di guerra asiatica
di redazionale - 01/09/2007
Più che la mancanza di petrolio,
carbone e altre risorse energetiche essenziali
per lo sviluppo economico, a minacciare
la sostenibilità della crescita della Cina è
la penuria d’acqua. Un punto debole di cui
rischia di farne le spese la vittima per eccellenza
della prepotenza cinese: il Tibet.
Altro che indipendenza. Pechino non mollerà
mai la presa sulla terra del Dalai Lama
per un motivo molto semplice: tutti i grandi
fiumi che solcano l’Asia – e i più importanti
della Cina – nascono dall’Himalaya e transitano
dall’altopiano tibetano. Qualche esempio?
Lo Yangtze, 6380 chilometri di flutti, il
fiume più lungo del continente e il terzo al
mondo dopo Nilo e Rio delle Amazzoni. Il
Brahmaputra, che in sanscrito significa figlio
del dio Brahma e che prima di raggiungere
il subcontinente indiano attraversa la
Cina, sgorga da quelle vette. Così come il
Fiume Giallo e il Mekong di Vietnam, Laos,
Thailandia e Cambogia, e ancora l’Indo, il
Karnali e il Sutlej. Il Tibet è prima di tutto
un’enorme cisterna d’acqua, da sfruttare per
garantire la crescita economica.
La scarsità di acqua dolce è il punto vulnerabile
dell’Asia. Con i suoi due miliardi e
mezzo di abitanti è il continente con la più
grave penuria idrica per persona. In Cina
questo deficit sta assumendo proporzioni
preoccupanti, soprattutto da quando l’agricoltura,
da semplice sussistenza, si è trasformata
in un’attività ad alta intensità di
sfruttamento; per non parlare della domanda
crescente di acqua per usi industriali e di
una classe media sempre più benestante
che rivendica a gran voce confort come lavatrici
e lavapiatti. Per questo il governo di
Pechino stanno affinando un piano epocale
per lo sfruttamento di ogni risorsa del paese.
Quelle di terra, e persino quelle di cielo.
C’è un progetto, battezzato Great south north
water transfer, coperto dal più stretto riserbo
da parte delle autorità, che rischia di
avere serie conseguenze per gli equilibri politici
ed ecologici di tutta la regione. Ingegneri
e geologi della Repubblica popolare
cinese, guidati direttamente dal presidente
Hu Jintao, laureato proprio in idrologia,
hanno trovato il modo per garantirsi un costante
approvvigionamento di acqua dolce e
non ancora inquinata: deviare con dighe e
tunnel sotterranei il corso del Brahmaputra
e prelevare l’oro blu poco prima che il fiume
varchi il confine indiano. C’è un punto in
cui il sacro fiume degli indiani forma un
enorme canyon, il più lungo e profondo della
terra. Lì colpiranno i cinesi. Pechino sa
che rischia ritorsioni, ma non intende fermarsi.
Come non si è fermata in tutti questi
anni di costante crescita economica, in cui
ha inquinato senza freno le falde acquifere
e i fiumi, tanto che oggi è pronta a “rubare”
ciò che non è suo. Il professore dell’università
di New Delhi Brahma Chellaney, nel
saggio “Asian Juggernaut: the rise of China,
India and Japan” lancia l’allarme sul rischio
concreto di una guerra dell’acqua in Asia,
anche se per ora è rimasto inascoltato.
La Cina intanto studia la colonizzazione
del cielo: il governo ha varato un Programma
di modificazione meteorologica per irrigare
campi e piantagioni che è una vera
macchina da combattimento. La tecnica,
sfruttata ampiamente dagli israeliani per irrigare
il deserto, consente di far piovere artificialmente
grazie al bombardamento dell’atmosfera
con proiettili di argento iodato.
Ogni anno lo stato stanzia tra i 60 e i 90 milioni
di dollari per questo Dipartimento che
ha alle sue dipendenze 32mila addetti, settemila
cannoni antiaerei, cinquemila lanciarazzi
e una trentina di aeroplani in grado
di far piovere quando e dove vogliono.