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Esistono ancora draghi e dinosauri?

di Francesco Lamendola - 03/09/2007

 

  

 

 

Tutti conoscono la leggenda di San Giorgio che affronta e uccide il drago per salvare la vita di una bella principessa che sta per esserne divorata.   Essa è riportata dal vescovo Jacopo da Varazze (o da Varagine), vissuto nel XIII secolo, nel suo celeberrimo libro "Legenda aurea", raccolta di vite di santi che fu letta e riletta dai devoti cristiani per secoli e secoli. Narra dunque  Jacopo da Varazze   che Giorgio di Cappadocia,   tribuno militare  romano,   arrivò un giorno  alla città di Silene,  in Libia. Presso la città si  estendeva uno stagno "vasto come  il mare"   dal quale  usciva un drago orrendo che  divorava uomini e   armenti e  il  cui  fiato micidiale  uccideva perfino coloro che   cercavano rifugio sulle  mura.  Gli  abitanti,   dopo  aver fatto alcuni  inutili  tentativi  per ucciderlo,   si eran visti  costretti  a offrirgli  in pasto ogni  giorno due  pecore;   poi, venendo meno gli  animali,  una pecora e  un uomo,  estratto a sorte  fra gli  infelici  cittadini.   Un giorno le   sorti  caddero  sull'unica figlia del re.  Egli  tentò in ogni  modo di   salvare  la fanciulla dall'orribile fine,  ma gli  abitanti,  essendo entrato  ormai  il  lutto in ogni  famiglia, lo forzarono a rassegnarsi.   Così la giovinetta,   chiesta la benedizione del padre,  uscì tutta sola dalla, città incontro al  suo destino,  mentre il popolo si   accalcava sulle  mura.  Fu proprio in quel momento che   sopraggiunse Giorgio  sul  suo cavallo.  Vedendola in lacrime,  e  notando la folla sui bastioni,  le  domandò  che   cosa avesse.  Ella per tutta risposta lo invitò  a fuggire via subito,  ma così non fece  altro che   accrescere la curiosità di Giorgio.  Mentre  parlavano ancora,  il mostro emerse  dalle   acque  del lago,  e  subito la fanciulla esortò il  santo a fuggire  finché era in tempo. Ma Giorgio partì lancia in resta contro il  drago e lo affrontò tutto solo.   Qui Jacopo fornisce  due versioni  della lotta. Secondo  la prima,  egli  ferì il drago gravemente,   tanto che  la figlia del re   fu in grado di  portarlo in città mansueto come  un cagnolino. Il popolo ne  fu atterrito,  ma poi,   tranquillizzato da Giorgio,  ricevette  in massa il battesimo  cristiano;   dopo di  che  il  santo uccise  il drago.  Secondo l'altra versione,  Giorgio, fattosi  il  segno della croce, partì al  galoppo contro il mostro e  lo uccise   al  primo assalto.  Ci vollero quattro paia di  buoi  per portare via il  corpo del  drago caricato su un carro.  Poi Giorgio ripartì,  rifiutando dal re  una forte   somma di  denaro e  dicendogli  di   distribuirla ai  poveri.   Prima di   andarsene, diede   al re  questi  quattro ammaestramenti:   di  curare  le  nuove   chiese, onorare  il  clero,   ascoltare   la messa e   assistere  gli  indigenti.   In quel giorno avevano ricevuto il battesimo ventimila maschi  adulti  e  il re aveva ordinato la costruzione  di   una chiesa dedicata alla Madonna e al beato Giorgio,  dalla quale   scaturì poi  una fonte miracolosa,.   Qui finisce  il raccolto del  drago. (1)

Naturalmente è possibile interpretare la leggenda in chiave puramente allegorica, e cioè come una raffigurazione della lotta fra il Bene e il Male che mescola motivi egizi (il dio Horus, a cavallo, che trafigge un coccodrillo del Nilo), persiani (l'eterno conflitto fra il principio della luce, Ahura Mazda, e quello delle tenebre, Ahriman), greci (Perseo che libera Andromeda uccidendo il dragone che emerge dalle acque del Mar Rosso) e cristiani (il governatore provinciale Daciano che, per la sua ferocia nella persecuzione dei credenti, era denominato "draco abyssorum"). Tuttavia, è appena il caso di ricordare che l'archeologo tedesco Koldewey, ai primi del Novcento, rimase profondamente colpito, negli scavi di Babilonia, dai rilievi di creature rettiloidi che ricordavano gli antichi dinosauri e che ciò diede origine all'ipotesi che gli antichi Mesopotamici, per i loro riti religiosi, allevassero qualche esemplare di sauriani giganteschi, sopravvissuti all'estinzione della loro specie. Analoga impressione paiono suggerire le raffigurazioni delle tavolette dei cosmetici del re Narmer, conservate presso il Museo Egizio del Cairo. (2) Tutto questo senza contare l'enigma delle cosiddette "pietre di Ica", nel Perù, che raffigurano esseri umani e dinosauri come se fossero contemporanei; delle quali è stato dimostrato che una parte sono sicuramente dei falsi, ma per un'altra parte non è ancora possibile esprimere un giudizio scientifico definitivo. Certo, secondo le nostre attuali conoscenze i dinosauri si sono estinti decine di milioni d'anni fa; ma non potrebbe darsi che alcune specie siano sopravvissute fino a tempi storici?   Dopotutto, dopo che nel 1938 è stato ripescato vivo e vegeto, belle acque del Sud Africa, il pesce "Celachantus", che la scienza 'ufficiale' sosteneva estinto da milioni di anni, bisognerebbe essere molto cauti nell'escludere una eventualità del genere, per quanto remota e improbabile essa possa apparire a prima vista.

 

Dobbiamo adesso ricordare le sporadiche segnalazioni, da parte di viaggiatori ed esploratori europei, nel XIX e all'inizio del XX secolo, di animali mostruosi che vivrebbero nelle paludi e nei laghi dell'Africa centrale. (3) Gli avvistamenti avrebbero avuto luogo nel Camerun, nel lago Vittoria, nel Lago Bangweolo (Zambia), dunque attraverso una vastissima fascia di territorio dall'Oceano Atlantico fino in prossimità dell'Indiano (4); fra i testimoni oculari citiamo esploratori più o meno noti, come l'inglese Sir Clement Hill, il tedesco Alfred Aloysius Horn, mentre altri ne raccolsero notizie indirette (tracce nella foresta, racconti degli indigeni). Secondo tali descrizioni, specialmente quelle dello Hill, che disse di aver visto l'animale da vicino, nel Lago Vittoria, esso aveva approssimativamente l'aspetto e le dimensioni di un dinosauro erbivoro. (5) Ora, fra i laghi e le foreste dell'Africa centrale e le regioni vicine al Mediterraneo si estende l'immenso Deserto del Sahara, che costituirebbe una barriera invalicabile a un eventuale rettile di grandi dimensioni; ma, in tempi antichi, esso era ricoperta da foreste o, quanto meno, da praterie; il processo d'essiccamento non era ancora del tutto concluso nei primi secoli dell'era cristiana.  La fauna dell'odierno Sahara era quella della foresta o della steppa, come è testimoniato in maniera diretta dai graffiti del Tibesti e di altre zone riproducenti bufali, giraffe, elefanti (6); e in maniera indiretta  dalle fiere che i Romani catturavano per gli spettacoli del circo. Il leone oggi è scomparso a nord del Sahara (7), come lo è pure l'ippopotamo dall'Egitto. Tornando alla leggenda di San Giorgio, la tradizione afferma che ildrago da lui ucciso era un mostro acquatico, che viveva in un vasto lago. Una coincidenza invero notevole coi racconti di Hill, Gratz, Schonburgk, Glober. Una ricerca in questa direzione sarebbe interessante, perché consentirebbe di affacciare l'ipotesi di una interpretazione non allegorica, ma naturalistica del racconto della lotta fra San Giorgio e il drago, anche se, per ovvie ragioni, ben difficilmente potrebbe uscire dal campo delle mere ipotesi. E tuttavia, per scrupolo di completezza, vogliamo suggerire anche questa possibilità.

Né si creda che solo dall'Africa centrale giungano notizie di avvistamenti di animali mostruosi simili a dinosauri: in effetti, esse provengono da tutto il mondo. Nel lago Labynkyr, In Siberia, un rettile gigantesco fu avvistato fin dal 1953, e il protagonista dello strano incontro fu proprio uno scienziato: ilgeologo V. Tjerdokherbov. (8) Si può dire anzi che ogni continente vanti il suo "mostro acquatico", o anche più di uno: il Nord America il mostro del lago Champlain, al confine tra Canada e Stati Uniti (9), quello del Manipogo (Canada e quelli di Slimey Slim (in due diverse località degli Stati Uniti occidentali); il Sud America, il mostro del Lago Bianco,in Cile; l'Oceania, il mostro di Waitoreke, nell'Isola del Sud della Nuova Zelanda. L'Europa ne vanta almeno cinque: il famosissimo "Nessie" del Lago di Loch Ness (Scozia), il serpente del Lago Storsjö (Svezia), quello del Hvler (Norvegia) e addirittura due la piccola Irlanda: quello di Pooka e quello di Piast. (10) Ma i "mostri" europei potrebbero salire a sei (e anche di più) tenendo conto, ad esempio, del serpente mostruoso che fu visto in Friuli, presso Sarone, nel 1963 e di cui si occupò anche la stampa, nell'estate del 1963. (11) In realtà, l'elenco completo degli avvistamenti sarebbe lunghissimo e potrebbe continuare per pagine e pagine.

Ancora nel XVII secolo un illustre scrittore italiano, il padre gesuita Daniello Bartoli (1608-1685), ferrarese, aveva raccolto la tradizione relativa a un drago che, in passato, infestava le contrade dell'isola di Rodi, uccidendo uomini e bestie, finché un cavaliere gerosolimitano non l'aveva affrontato e ucciso, dopo essersi lungamente preparato al cimento.

"Assai delle volte avrete udito mentovare il famoso dragone apparito nelle campagne di Rodi mentre quell'isola si teneva da cavalieri ora di Malta, e la spaventosa bestia ch'egli era. D'un informe corpaccio grande quanto un mediocre cavallo; l'orribil capo tutto cosa di drago; bocca grande e squarciata, denti acutissimi, occhi focosi e sanguigni, due grandi orecchie spenzolate, e un fiato di mortalissimo veleno. Del corpo, il dosso bigio; e ne spuntavan due ali carnose e unghiute, che dibatteva e svolazzava per ispavento, non perché punto il levasser da terra. Tutto era macchiato di rotelle, verdi, nere, sanguigne, fosche: segni e fior di veleno. Armato poi d'un cuoio a modo di corazza, impenetrabile ad ogni arme, perocché tutto era un commesso di piastrelle e di maglie di durissima tempra, fuor solamente il gran ventre livido e gialliccio. Andava su quattro piedi e le due branche aveva armate di terribili unghie. Dietro si traeva una lunghissima coda, che non gli era punto oziosa, o inutile al danneggiare; che d'essa, come d'una serpe, valevasi ad avvinghiare e stringere con più giri evolute; oltre alle forti percosse, con che atterrava chi d'alcuna incogliesse.

"Solitudine e desolazione era tutto il paese a grande spazio intorno al colle di S. Stefano, alle cui falde egli abitava dentro una palude, ivi medesimo ove era nato, d'un marciume d'acqua scolatavi e imputridita: e in mostrarsi colà intorno uomo o animale, il dragone assassino gli era sopra a sbranarlo, e pascersi delle sue carni. Un tal mostro, che il capriccio de' dipintori e de' romanzieri nol saprebbono fantasticare a fingerlo più spaventoso, ebbe cuore e spirito di assalirlo fra' Diodato da Gozzone, quegli che poscia fu il ventesimosesto gran Maestro dell'Ordine di que' cavalieri. Ma non fu, perciò, che il desio della gloria per sé e del ben pubblico (ch'era liberar l'isola da una si nocevole pestilenza) il rendesse più animoso che consigliato, portandolo via come di lancio ad avventurarsi a quell'impresa. Egli venne da Rodi al suo castello Gozzone; e quivi apparecchiatosi d'un caval generoso e di due gran cani da presa, ogni dì per più ore isperimentava se ed essi davanti ad un dragone posticcio, ma quanto il più far si poté, lavorato a somiglianza del vero; e dentrovi un uomo ben destro a maneggiarlo, imperversando, avventandosi, impennando, gittando le branche, e facendo quelle terribili forze in difese e in assalti che poscia il vero dragone. Intanto il cavaliere, armeggiandogli intorno col buon cavallo, e aizzandogli i cani, toglieva a questi il timore e dava loro ardire, e sé addestrava, in una finta schermaglia, al come di poi far davvero. Così stato in quella scuola finché gli parve poterne oramai uscire al fatto, navigò col cavallo e i cani a Rodi, e occultamente ad ogni altro (a cagion del divieto che ve ne avea) fuor solo a due servidori, che lasciò dalla lungi a cedere il fatto e null'altro, presentossi alla disfida del drago. E ben s'avvide ai fatti quanto l'essersi addestrato percosì lungo tempo gli tornasse giovevole; perocché bastò, ma in verità appena.

"Incontrollo a tutta corsa del cavallo con un ben assestato colpo di lancia; ma, come l'avesse corsa in uno scoglio, non fe' piaga, e si fe' ella scheggia. Dunque smontato a pie' gli fu mestieri di prender la zuffa con lo scudo imbracciato e la spada in pugno a faccia a faccia col drago: il quale, tutto dirittosi sopra i due ultimi piedi, tal gli menò d'una branca un colpo sopra lo scudo con cui il cavaliere si riparò che ne vinse il braccio e disarmoglielo; ma come volle Iddio, l'assannare che un di que' valorosi cani fe' il drago in parte dove orribilmente gli dolse, e al medesimo tempo, entrargli il cavaliere  con due penetranti stoccate dentro alla gola, gliel batté a' piedi vinto: anzi il vinto e il vincitore, quello addosso a questo e presso a schiacciarlo col peso, caddero amendue sul campo; ma riscosso a gran pena di sotto l'orribil fiera,il valoroso tornossene con la vittoria re col merito di quel degno titolo d'Extintor draconis, che di poi ebbe ad eterna sua lode incisogli nel sepolcro fra' gran Maestri di Rodi." (12)

Certo, si può immaginare che, per il Bartoli, tutto l'episodio non sia altro che un'allegoria dell'uomo giunto in punto di morte (il cavaliere) che deve affrontare le ambasce della morte corporea (il drago), allenandosi adeguatamente dal punto di vista spirituale; ma è altrettanto possibile, per non dire probabile, che egli abbia raccolto una tradizione esistente sulle sponde del Mediterraneo orientale, forse di origine bizantina o magari ancora più antica, e che su di essa abbia poi costruito la sua parabola morale. Il che ci riporterebbe, ancora una volta, nell'ambito geografico dell'Asia Minore e in quello della Cristianità d'Oriente, donde appunto la leggenda di San Giorgio e il drago aveva preso le mosse.

Se poi vogliamo risalire ancora più indietro, scopriremo - non senza una certa sorpresa - che l'esercito romano di Attilio Regolo, sbarcato in Africa (odierna Tunisia) durante la prima guerra punica, aveva avuto a che fare con un immenso serpente che molestava l'accampamento delle legioni presso le sponde del fiume Bagradha; al punto che, per averne ragione, non bastando lance e spade fu necessario far entrare in azione addirittura le balliste.

L’episodio di cui ci occupiamo si colloca nel 256 o 255 a. C., quando, nella fase iniziale della Prima guerra punica, i consoli M. Attilio Regolo e L. Manlio Vulsone, sconfitta una flotta cartaginese al Capo Ecnomo, erano sbarcati in Africa con un esercito e avevano marciato audacemente contro la capitale nemica. Richiamato Vulsone in Sicilia per ordine del Senato, Regolo con 40 navi e 15:000 uomini aveva proseguito da solo le operazioni, battendo i Cartaginesi e inducendoli a chiedere la pace. (13) Questa non venne conclusa perché il comandante romano, imbaldanzito dai successi, volle porre condizioni eccessivamente dure: le vicende belliche subirono poi un capovolgimento e l’esercito romano andò incontro a un tragico destino. Ma questo esula dal nostro orizzonte: noi faremo un passo indietro e torneremo all’inverno 256-55, quando i legionari, sbarcati a Clypea (o Clupea), a est di Cartagine, erano impegnati nelle operazioni d’assedio della capitale punica. Racconta dunque Valerio Massimo che “in Africa, apud Bagrada flumen, tantae magnitudinis anguem fuisse tradunt, ut Atilii Reguli exercitum usu prohibèret”. Il passo completo è tratto da un libro perduto di Tito Livio (14) e recita così: “In Africa, sulle rive del fiume Bagrada, v’era un serpente d’una tale mole che impediva all’esercito di Attilio Regolo dei servirsi di quell’acqua; molti soldati erano stati presi dalle sue enormi fauci e in maggior numero strozzati dalle spire della sua coda. Le frecce che gli lanciavano non riuscivano a ferirlo. Alla fine con le balestre lo si finì facendo piovere sul suo corpo da ogni parte gran quantità di pesanti pietre: A tutte le coorti e le legioni era apparso oggetto di terrore assai più della stessa Cartagine e quando il suo sangue si mescolò all’acqua  del fiume e le esalazioni pestifere del suo cadavere infestarono tutta la regione, l’esercito fu costretto a spostare il campo.  Aggiunge, inoltre, Tito Livio che la pelle del serpente, che misurava centoventi piedi, fu mandata a Roma.” (15)

          Questo incontro fra gli esseri umani e una creatura animale mostruosa è uno dei meglio documentati dell’antichità, per cui ci soffermeremo un po’ su di esso. Ne parlano, infatti, moltissimi autori latini. Aulo Gellio, l’autore delle celeberrime Notti attiche, da parte sua, nel riferirlo dice di averlo trovato  nelle Storie di Quinto Elio Tuberone: “Tuberone lasciò scritto (…) che avendo il console Attilio Regolo, durante la prima guerra punica, posto i propri accampamenti sulle rive del fiume Bagrada, dovette ingaggiare un combattimento lungo e  aspro contro un serpente di inusitata grandezza, il quale aveva  la propria dimora in quei luoghi; dopo una lunga lotta di tutto l’esercito per mezzo di balestre e catapulte, avendolo ucciso,  ne mandò a Roma la pelle lunga 120 piedi.”(16) Ora, poiché noi sappiamo che un piede romano era una misura di lunghezza equivalente a circa 30   cm:, se ne ricava che la pelle del “serpente” ucciso dai legionari di Regolo doveva misurare 120 x 30= 3.600 cm., ossia 36 metri!

          Prima di domandarci a che razza di creatura dovesse appartenere una pelle di tali dimensioni, diamo la parola a quello, fra gli autori antichi, che si diffonde con la maggiore abbondanza di particolari su questo episodio, cioè lo spagnolo Paolo Orosio (inizi del V sec. d..), amico e collaboratore di Sant’Agostino. Nelle sue Storie contro i pgagani (Orosii historiarum adversus paganos libri septem), egli scrive: “Il console Manlio lasciò l’Africa con la flotta vittoriosa e fece ritorno a Roma con ventisettemila prigionieri e grandi prede. Regolo, al quale era stato conferito l’incarico di continuare la guerra, marciò con l’esercito e pose il campo non lontano dal fiume Bagrada. Qui molti soldati, che erano scesi al fiume per rifornirsi d’acqua, furono divorati da un serpente di eccezionale grandezza: perciò Regolo decise di andare con l’esercito a combattere la bestia. Ma a nulla servirono i giavellotti e ogni sorta di proiettili che gli scagliavano addosso, giacchè, come se avessero colpito una “testuggine” formata dagli scudi inclinati, i giavellotti scivolavano sulla mostruosa compagine delle squame, respinti in modo sorprendente dal corpo della bestia, che non riuscivano minimamente ad offendere. Perciò Regolo, vedendo che un gran numero dei suoi soldati era dilaniato dai morsi del serpente o atterrato dai suoi attacchi furibondi o anche tramortito dall’alito pestilenziale, fece entrare in azione le balliste, le quali, colpendo con sassi grossi come macine la spina dorsale della bestia, spezzarono tutta l’articolazione del suo corpo. Questa infatti è la natura del serpente, che mentre sembra privo di piedi, è però provvisto di squame e di costole, che sono disposte uniformemente dalla sommità del collo fino in fondo al ventre e che, quando  si muove, gli servono le prime quasi da unghie e le seconde da zampe. (…) Questa conformazione fa sì che in qualunque parte del corpo, dal ventre fino alla testa, il serpente sia colpito, rimane paralizzato e non è più capace di muoversi, giacchè, dovunque il colpo arrivi, esso gli spezza la spina dorsale, che imprime il movimento alle costole e a tutto il corpo. Perciò anche questo serpente, che per tanto tempo nessun giavellotto aveva potuto scalfire, fu immobilizzato dal colpo di un sasso, di modo che i romani poterono attorniarlo e ucciderlo facilmente con le armi. La sua pelle – a quanto si dice, misurava centoventi piedi – fu portata a Roma e per qualche tempo suscitò la meraviglia di tutti.”(17)

          Prima di Orosio e prima di Aulo Gellio, ma un po’ dopo Valerio Massimo (che dedica la sua opera all’imperatore Tiberio), il filosofo Lucio Anneo Seneca aveva anch’egli ricordato il mostro del fiume Bagrada. “Quel feroce serpente dell’Africa – scrive – che le legioni romane temevano più della stessa guerra, fu preso invano di mira con frecce e con frombole. Non l’avrebbe ferito neppure l’arco di Apollo. La durezza del suo corpo mostruoso non era scalfita né dal ferro né  da qualunque proiettile scagliato da mano d’uomo. Alla fine fu schiacciato sotto pesanti macigni”. (18)

 

Che conclusioni possiamo trarre da tutto quanto fin qui esposto?

Forse la scienza ufficiale, la biologia in primo luogo, dovrebbe essere cauta prima di liquidare come "impossibili" gli indizi della sopravvivenza, in epoca  storica, di grandi rettili di cui la leggenda di San Giorgio e il drago, il racconto del dragone di Rodi e i più recenti avvistamenti in numerosi luoghi del pianeta potrebbero essere altrettanti segnali. Prudenza e puro amore per la ricerca, per i fatti: anche se i fatti sembrano smentire un aspetto significativo del paradigma evoluzionistico oggi imperante. Perché dare torto ai fatti per preservare le teorie scientifiche è il modo più sicuro per andare incontro a delle brutte figure; ciò che - negli ultimi decenni - non è certo accaduto poche volte.

 

 

NOTE

                                            

(1)         Jacopo da Varazze, Legenda aurea, Firenze, 1952, pp. 599-604.

(2)         Cfr. Erich von Däniken, "Il giorno del giudizio è già cominciato", Milano, 1998, spec. pp. 43-46.

(3)         Cfr. Leo Talamonti, Questi 'mostri' non conformisti, in Scienza e Vita, Roma, novembre 1961, pp. 40-47.

(4)         Cfr. Peter Kolosimo, Il pianeta sconosciuto, Milano, 1970, pp. 210-15.

(5)         Cfr. Michael Bright, Mokele Mbembe: Dinosauro sopravvissuto cercasi, in Airone, Milano, maggio 1985, pp.  122-27.

(6)         Cfr. Attilio Guadio, La via del Sahara, in L'Universo, Firenze, gennaio-febbraio 1968, pp. 29-65.

(7)         "Tra il 1873 e il 1883,  202 leoni furono ufficialmente abbattuti in Algeria; l'ultimo leone vu fu ucciso nel 1891  a Souk-Ahras. Il maestoso re degli animali sopravvisse, invece, più a lungo nel Marocco, in particolare nelle zone boscose del Medio Atlante  rimaste quasi inesplorate fino ai nostri giorni.  Lì trovarono rifugio, almeno fino al 1922, gli ultimi leoni dell'Africa settentrionale, la cui regressione segue dunque, con perfetto parallelismo,  la progressiva avanzata della civilizzazione": così Jean Dorst, Prima che la natura muoia, ed. it. Milano, 1969, p. 92.

(8)         Peter Kolosimo, op. cit., pp. 220-222.

(9)         Jean-Jacques Barloy, Animali misteriosi, fra cronaca e leggenda, Roma, 1985, pp. 90-92.

(10)      Cfr. C. Angeletti Meirano-M. Fugiglando Cumino, Dear Penfriend, Torino, 1988,p. 63.

(11)      Precisamente, il quotidiano Il Giorno: riportato in Peter Kolosimo, op. cit., pp. 215-16.  

(12)      Daniello Bartoli, L'uomo al punto, in: Luigi Russo, I classici italiani, vol. 2, Firenze, 1947, pp.315-18.

(13)      Cfr. Antonio Brancati- Girolamo Olivati, Il Mondo Antico, vol. II, Roma, Firenze, 1957, p. 153.

(14)    Livio doveva parlarne nel libro XIX  (che è tra quelli perduti), ma non risulta dall’Epitome.

(15)      VALERIO MASSIMO, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, I, 8, 19. Trad. di Luigi Rusca , 2 voll., Milano, 1972.

(16)    AULO GELLIO, Noctes Atticae, VII, 3.  Trad. di L. RUSCA, 2 voll., Milano,  1968. Il passo di Tuberone sta in Fragm. 8, Peter.

(17) PAOLO OROSIO, Historiarum Adversus Paganos, IV, trad. di Aldo                                       Bartalucci, in Adolf Lippold,  2 voll., 1976.

(18)           LUCIO ANNEO SENECA, Ad Lucilium Epistularum Moralium Libri XX, X, 82. Trad. di Giuseppe Monti, Milano, 1966.