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Il gioco è finito: le opzioni statunitensi in Iraq

di George Friedman* - 03/09/2007


L'ultima National Intelligence Estimate (NIE), in cui si riassume la posizione della comunità spionistica statunitense sull'Iràq, contiene due rilievi critici. Il primo è che il governo iracheno non sta evolvendo in un'entità efficace: i dirigenti locali, secondo la NIE, non vogliono né possono creare un solido governo di coalizione. Il secondo punto è che le operazioni militari statunitensi, condotte nell'ambito del “picco”, hanno sì incrementato la sicurezza in alcune aree, ma nel complesso non sono riuscite a mutare la situazione strategica di fondo. Sia gl'insorgenti sunniti sia le milizie sciite rimangono armate, motivate ed operative.
Sin dall'inizio dell'insurrezione irachena nel 2003, gli USA hanno avuto un chiaro obiettivo strategico in mente: creare un governo di coalizione filo-statunitense a Baghdad. Per riuscirci, le truppe nordamericane avrebbero dovuto garantire un certo grado di sicurezza; in quest'ambiente più favorevole, quindi, si sarebbe formato un governo, dotato di proprie forze militari e di polizia (grazie all'aiuto degli USA), che avrebbe proseguito la guerra con un sostegno più leggero da parte statunitense. Sarebbe stato quel governo a sconfiggere definitivamente gl'insorti ed a governare democraticamente l'Iràq.
Quel che vuol dire la NIE è che, più di quattro anni dopo l'inizio della guerra, l'obiettivo strategico non è stato raggiunto, e poco lascia pensare che si riuscirà mai a farlo. Non ostante qualche miglioramento localizzato, la sicurezza non è aumentata significativamente in Iràq. In altre parole, la NIE dice che gli Stati Uniti hanno fallito, e che non bisogna aspettarsi di raggiungere il successo neanche in futuro.
Dobbiamo essere cauti quando alle prese con pronunciamenti da parte della comunità spionistica statunitense, ma in questo caso pare sia stato affermato l'ovvio. Inoltre, dato che già in passato i servizi segreti sono stati accusati d'essersi comportati scorrettamente pur di compiacere il governo, sembra difficile pensare che nella comunità spionistica si rischino reputazioni e carriere, distorcendo fatti e rilievi, pur di favorire un'amministrazione che scadrà fra 18 mesi. Pensiamo che la NIE sia ragionevole. Perciò, la domanda è: cosa va fatto?
Per molto tempo, abbiamo considerato i negoziati tra USA e Iràn come la sola via d'uscita percorribile ed anzi probabile. Oggi non crediamo più che sia il caso. Perché tali negoziati avessero successo, entrambe le parti avrebbero dovuto temere un certo risultato. Gli Statunitensi dovevano temere che una lunga guerra avrebbe risucchiato indefinitivamente le proprie risorse. Gl'Iraniani avrebbero dovuto temere che gli USA fossero in grado di creare un governo di coalizione produttivo a Baghdad, o d'imporre un regime-fantoccio dominato dai Sunniti, loro rivali storici.
Dopo la sconfitta repubblicana di novembre al[le elezioni del] Congresso, il presidente George W. Bush sorprese l'Iràn aumentando le forze statunitensi in Iràq anziché cominciare a ritirarle. Ciò creò una finestra di pochi mesi, durante i quali Tehrān, soppesando rischi e possibilità, era tentata dall'opzione d'un accordo, spingendo gli Sciiti dietro una coalizione di governo. Quel tempo è passato. Come notato dalla NIE, la probabilità che a Baghdad si formi un governo efficiente è estremamente bassa. L'Iràn non teme più che si possa realizzare lo scenario peggiore. Non ha alcun motivo per togliere gli Stati Uniti dai guai.
Cosa faranno dunque gli Stati Uniti? In generale, sono disponibili tre opzioni. La prima è conservare l'attuale strategia. È il punto di vista dell'amministrazione. La seconda è iniziare un ritiro cadenzato, a partire dai prossimi mesi per concludere non appena le circostanze lo permetteranno. La maggior parte dei democratici centristi ed un numero crescente di repubblicani concordano con questa posizione. La terza è un rapido ritiro delle forze; posizione questa sostenuta da un gruppo abbastanza ristretto, ma non relegato alla sola sinistra. Tutte e tre le opzioni convenzionali, tuttavia, soffrono di difetti tali da inficiarle completamente.
Il piano di Bush – mantenere la rotta – avrebbe poco senso. Avendo perseguito un obiettivo strategico con mezzi relativamente stabili per oltre quattro anni, non è chiaro cosa ci si debba aspettare dal quinto o dal sesto. Come dice il proverbio, stoltezza è ripetere la stessa cosa più volte, aspettandosi un risultato differente. A meno che Bush sia in netto disaccordo colla NIE, è dura trovare un motivo per insistere sulla rotta odierna.
Guardando la cosa da un'altra prospettiva, però, vi sono argomenti validi per sostenere la bontà della strategia attuale: qualsiasi errore sia stato commesso in passato, oggi la realtà è che un ritiro dall'Iràq creerebbe un vuoto che sarebbe rapidamente riempito dall'Iràn. In alternativa, l'Iràq potrebbe diventare un santuario gihadista, minacciando anche bersagli esterni al paese. Dopo tutto, un rifugio sicuro, con abbondanti risorse e posto nel cuore del mondo arabo, è strategicamente preferibile all'Afghanistan. Perciò, sebbene Washington non abbia più alcuna speranza di raggiungere l'obiettivo originale, mantenendo la presenza statunitense in Iràq ed al costo di 1000-2000 soldati perduti all'anno, si prevengono entrambe le eventualità suddette.
In altre parole, l'argomento consiste in questo: che le operazioni dovrebbero continuare a tempo indeterminato, perché così si previene l'insorgere di situazioni pericolose. Il punto debole di questo ragionamento, come già chiarito altrove, è che seguendolo si finisce col consumare le forze di terra disponibili, lasciando gli Stati Uniti a rischio in altre parti del mondo. Il costo d'una tale decisione sarebbe un enorme aumento dell'Esercito e dei Marines statunitensi, quanto meno di numerose divisioni. Il ché richiederebbe anni, e non si potrebbe ottenere senza la leva. Inoltre, non considera che pure l'insorgenza e le milizie potrebbero crescere di dimensioni e qualità, imponendo agli Statunitensi perdite sempre maggiori. La debolezza di quest'argomentare è che assume per fede che già gli Stati Uniti stiano affrontando il peggio. Ci vuol poco perché i morti diventino più di duemila l'anno.
La seconda strategia è un ritiro cadenzato. Tra tutte le proposte sembra una delle più ragionevoli e moderate. Ma si consideri questo: se la missione rimane la stessa – combattere i gihadisti e le milizie per aumentare la sicurezza – allora un ritiro scaglionato porrebbe le forze statunitensi nella difficile situazione di dover compiere la medesima missione con meno truppe. Se il ritiro fosse programmato nell'arco d'un anno o più, come molti suggeriscono, le forze statunitensi si troverebbero a combattere contro un nemico a pieni ranghi con un organico diminuito, senza alcuna speranza di raggiungere l'obiettivo strategico.
Il ritiro a scaglioni sarebbe allora la soluzione peggiore. Si continua la guerra riducendo le già esili possibilità di successo degli USA, sottoponendone le truppe ad un rapporto di forze sempre più svantaggioso. Il ritiro cadenzato avrebbe senso nel caso ci fossero forze irachene efficienti, poste sotto il comando d'un solido governo iracheno; ma nessuna di queste due condizioni è presente, almeno che la NIE sia errata.
L'unico contesto in cui un ritiro scaglionato avrebbe senso, è quello in cui ci fosse un obiettivo strategico ridefinito. Se gli Stati Uniti cominciano a ritirare le proprie truppe, devono accettare che l'instaurazione d'un governo filo-nordamericano non può più essere realizzata. Perciò, le truppe devono ricevere una nuova missione. E la debolezza delle varie proposte di ritiro a scaglioni sta proprio qui: che ognuna di esse fissa l'arco temporale in cui dovrà essere compiuta la ritirata, ma non definisce chiaramente quale sarà la missione delle forze residue. Senza una ridefinizione, il livello delle truppe calerebbe col tempo, ma i combattenti rimasti sarebbero ancora bersagli – e dunque ancora in pericolo. La proposta moderata, perciò, è la meno difendibile.
La terza opzione è un ritiro immediato. In realtà, quello di “ritiro immediato” è un concetto relativo, giacché è impossibile ritirare 150.000 uomini tutti assieme. Perciò, ci si troverebbe di fronte all'immediata interruzione d'ogni operazione offensiva ed al rapido ritiro di personale e attrezzature. In teoria, sarebbe possibile ritirare i soldati, ma lasciando indietro l'equipaggiamento. In pratica, il procedimento richiederebbe dai tre ai sei mesi di tempo per completare l'ordine di ritiro.
Se il piano è ritirarsi, questo scenario è più allettante del ritiro cadenzato. Potrà aumentare il caos in Iràq, ma ciò non è sicuro, così come non è chiaro se si tratti quella d'una questione che coinvolga ancora l'interesse nazionale statunitense. Il valore di questa proposta è che porta al medesimo risultato del ritiro scaglionato, senza però sottoporre le truppe nordamericane a continue perdite.
Il punto debole di tale strategia è che aprirebbe le porte dell'Iràq all'Iràn. A meno che i Turchi vogliano battersi con gl'Iraniani, non c'è alcuna potenza regionale in grado di fermare l'Iràn, né subdolamente (infiltrando propri uomini) né apertamente. Val la pena ricordare che l'Iràn e l'Iràq combatterono una guerra lunga e brutale, in cui le perdite di parte iraniana assommarono ad un milione. In un certo qual modo, si tratterebbe semplicemente del culmine di quella guerra. Certamente gl'Iraniani dovrebbero affrontare la feroce resistenza dei Sunniti e dei Curdi, ed anche d'una parte degli Sciiti. Ma la posta in palio per gl'Iraniani è più alta che per gli Statunitensi, e loro sono molto meno sensibili alle perdite, come dimostrato dalla stessa guerra con l'Iràq. La loro soglia del dolore è molto più alta di quella degli USA, e molto più grande è la loro determinazione a schiacciare i nemici.
La sorte dell'Iràq potrebbe non essere la questione più importante. Semmai, potrebbe esserlo il futuro della Penisola Arabica. Se l'Iràn dominasse l'Iràq, le sue forze potrebbero schierarsi lungo il confine saudita. Con gli Stati Uniti ritiratisi dalla regione – eccetto un contingente residuo stanziato in Kuweit – ci sarebbero poche possibilità di difendere gli Sauditi, considerando anche la scarsa voglia d'impegnarsi in nuove guerre. Inoltre, i Sauditi stessi non vorrebbero porsi sotto la protezione statunitense. Ciò che più conta, tutte le forze della Penisola Arabica messe assieme non potrebbero pareggiare quella dell'Iràn.
Gl'Iraniani andrebbero incontro ad un'opportunità straordinaria. Come minimo, potrebbero dominare il loro rivale storico, l'Iràq. Salendo un gradino, potrebbe costringere i Sauditi a seguire la politica iraniana, ossia a farsene clienti. Salendo ancora, potrebbero prendersi i pozzi di petrolio sauditi. E, raggiungendo la sommità, gl'Iraniani potrebbero conquistare Mecca e Medina alla Shi'a. Se gli Stati Uniti si fossero semplicemente ritirati dalla regione, nulla sarebbe più impossibile. Chi può fermare gl'Iraniani, se non gli Stati Uniti? Senza dubbio non può farlo alcuna potenza locale. E se gli Stati Uniti dovessero intervenire in Arabia Saudita, cosa si sarebbe ottenuto col ritiro?
Tutte e tre le opzioni convenzionali, dunque presentano seri difetti. Continuando l'attuale strategia s'inseguirebbe una meta irraggiungibile. Il ritiro cadenzato esporrebbe un esile contingente statunitense agli attacchi d'un nemico più aggressivo. Un repentino ritiro aprirebbe subitaneamente le porte ad una possibile egemonia iraniana – ponendo una grossa porzione delle riserve petrolifere mondiali sotto il tallone di Tehrān.
La soluzione sta nel ridefinire la missione, porsi un nuovo obiettivo strategico. Se la creazione d'un Iràq stabile e filo-statunitense non è più possibile, allora qual è l'interesse nazionale degli USA? È contenere l'espansione della potenza iraniana, in particolare verso la Penisola Arabica. Questa guerra non riguardava il petrolio, come taluni hanno affermato; ma un conflitto in Arabia Saudita, senza dubbio, sarebbe legato al “oro nero”. Ragionando all'estremo, la conquista della Penisola Arabica da parte dell'Iràn gli consegnerebbe il controllo d'una considerevole porzione delle riserve energetiche mondiali. Questa sarebbe una minaccia molto più grave di qualsiasi armamento nucleare iraniano.
La nuova missione statunitense, perciò, dev'essere quella di bloccare l'Iràn, in procinto d'approfittarsi della guerra irachena. Gli Stati Uniti non possono imporre un governo all'Iràq; la sorte delle densamente popolate regioni irachene non può essere controllata dagli USA. Ma gli Stati Uniti rimangono un'eccezionale potenza militare, specialmente se opposta a forze convenzionali. Non sono molto adatti alla contro-guerriglia, e non lo sono mai stati. La minaccia rivolta alla Penisola Arabica dall'Iràn sarebbe prima di tutto di natura convenzionale – tutt'al più coadiuvata da disordini tra gli Sciiti locali.
La missione consisterebbe nel disporre le forze in modo tale che l'Iràn non possa pensare di muovere a sud, contro l'Arabia Saudita. Ci sono molti modi per farlo. Gli Stati Uniti potrebbero installare un grosso contingente in Kuweit, minacciando il fianco di qualsiasi armata iraniana dovesse muovere verso sud. In alternativa, si potrebbero creare una serie di basi in Iràq, nelle regioni per lo più disabitate che si trovano a sud e ad ovest dell'Eufrate. Con un contingente non più grande di quello che si trova in Corea del Sud, aiutato dalla forza aerea e da missili di crociera, gli Stati Uniti porrebbero una minaccia devastante a qualsiasi avventura iraniana verso meridione. L'Iràn sarebbe la potenza dominante a Baghdad, ma la Penisola Arabica resterebbe protetta.
Quest'obiettivo potrebbe ottenersi tramite un ritiro scaglionato dall'Iràq, insieme ad un rapido ritiro dalle aree più popolose ed all'immediata cessazione delle operazioni offensive contro i gihadisti e le milizie. Ci si arrenderebbe di fronte a ciò che la NIE ritiene irraggiungibile, senza però concedere all'Iràn il ruolo d'egemone regionale. Le forze in Iràq sarebbero ridotte rapidamente, dando a quelle che rimangono una missione adeguata a ciò per cui sono addestrate, ossia la guerra convenzionale. E le perdite diminuirebbero velocemente. Ciò che più importa, gli Stati Uniti potrebbero ricostituire le loro riserve strategiche in vista di possibili minacce in altre zone del mondo.
Non intendiamola come una prescrizione politica. Piuttosto, la vediamo come la probabile evoluzione del pensiero strategico statunitense in relazione all'Iràq. Siccome una soluzione negoziale è improbabile, e tutte e tre le opzioni convenzionali sono a modo loro difettose, consideriamo tale ridispiegamento come la sola alternativa ragionevole che possa soddisfare le precondizioni basilari. Ferma la guerra in Iràq in termini di perdite, riduce le forze, contiene l'Iràn e libera il grosso delle truppe per altre missioni. Se Bush o il suo successore prenderanno una decisione, riteniamo che qui dovranno finire a parare.

(traduzione di Daniele Scalea)

Fonte: Strategic Forecasting Inc., www.stratfor.com

* George Friedman, politologo statunitense, è fondatore e presidente della Strategic Forecasting Inc. (Stratfor).