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Il mondo in fuga dall’Occidente

di Olivier Mongin - 03/09/2007

Cina, India e altre tigri asiatiche non vedono più nei Paesi europei dei modelli a cui adeguarsi. Uno sganciamento culturale, una de-occidentalizzazione dalle conseguenze imprevedibili. Solo nel XXI secolo il mondo si scopre una sfera: ogni punto della sua superficie ne è il centro

 

Delle 33 megalopoli annunciate entro il 2015 27 apparterranno ai Paesi meno sviluppati, e Tokyo sarà la sola rappresentante del mondo ricco a restare nella lista delle 10 più grandi città. L’epoca attuale segna la fine di un ciclo cominciato nel ’500

 

Se i tratti distintivi della globalizzazione sono all'opera nei diversi Paesi del mondo, colpisce l'«orizzontalità» della rappresentazione che ne risulta. La storia non è più declinata in funzione dei soli Paesi europei, come se l'Europa o l'Occidente fossero il polo motore, e come se i Paesi della periferia dovessero necessariamente avvicinarsi al centro.
Parallelamente, le cifre dei cambiamenti demografici nelle realtà urbane sono note: se si contano 175 città i cui abitanti superano il milione, 13 dei più grandi agglomerati urbani del pianeta si trovano oggi in Asia, Africa o America Latina. Delle 33 megalopoli annunciate entro il 2015, 27 apparterranno ai Paesi meno sviluppati, e Tokyo sarà la sola grande città ricca a restare sulla lista delle dieci più grandi città.
Allargata al pianeta, la globalizzazione rompe con la centralità europea, con ogni prospettiva storica presentata nei termini di un'ascesa verso un centro o del riconoscimento di un ordine universale. È in questo senso che essa non si sviluppa «verticalmente» ma «orizzontalmente», allorché i Paesi europei soffrono di un doppio restringimento (demografia, invecchiamento della popolazione).
Oggi la visione «centralista» e «gerarchica» è spesso qualificata come «postcoloniale», anzi come «posteuropea», dalle élite intellettuali, politiche ed economiche dei Paesi non europei. Mentre l'Europa, qualunque sia il destino dell'Unione Europea stessa, crede sempre di essere l'unico modello di riferimento e di detenere i valori votati ad essere universali, i Paesi non europei considerano l'Europa come una realtà che alla stregua del resto del mondo è «parte ricevente» degli effetti della globalizzazione in corso. Se i Paesi non europei erano ieri «de-centrati» rispetto al Vecchio Continente, i Paesi europei stanno oggi per divenire «de-decentrati» rispetto ai Paesi-continenti quali la Cina e l'India, ma anche rispetto alle «città globali» (secondo la definizione del sociologo americano Saskia Sassen) ch e sono i nodi di un'economia d'arcipelago non più circoscritta a spazi nazionali.
Ciò che fa la specificità dell'epoca attuale è la fine del ciclo del colonialismo cominciato nel XVI secolo. Se l'Europa aveva preso possesso del mondo durante tre secoli, la Cina e l'India perturbano oggi l'antica spartizione coloniale del mondo. La globalizzazione non rappresenta solo l'approfondimento dell'interdipendenza fra Paesi, ma è anche l'allargamento geografico e politico di quest'interdipendenza. L'impressione di un'accelerazione della globalizzazione alla fine degli anni Novanta coincide col momento storico in cui, sulla scia dei cosiddetti Paesi emergenti, l'India e la Cina stanno per decollare. Ora, questi Paesi-continenti si considerano come autonomi, possono in effetti rappresentarsi come una «civiltà madre» per il sub-continente (Cina), o rivendicare valori specifici in parte estranei a quelli dell'Occidente (India).

Si può dunque parlare della globalizzazione come di una de-occidentalizzazione. In modo significativo, una scuola transnazionale detta «postcoloniale», i cui protagonisti si trovano soprattutto in India, ma anche in Cina, in Sudafrica o in Giappone, immagina un mondo post-europeo il cui senso è che la storia dell'Europa non è più il destino obbligato degli altri Paesi del mondo. E ciò tanto sul piano economico che sul piano dell'immaginario storico e delle rappresentazioni del mondo. È la ragione per la quale la globalizzazione è un fenomeno multidimensionale non riducibile a un approccio strettamente economico. Al suo ritmo avanzano sia l'Europa che i Paesi non europei. All'interno di questa scuola detta «post-coloniale», caratterizzata dai global studies, che ha il grande merito di sottolineare quanto le rappresentazioni reciproche fra i Paesi europei e non europei mutino rapidamente, emerge un dibattito fra i sostenitori di un relativismo delle identità (i subaltern studies), e coloro che sottoscrivono i valori universali che sono storicamente em ersi in Europa (Amartya Sen).

Ma, qualunque sia l'atteggiamento adottato, i valori universali non sono più considerati in questo contesto come una proprietà storica e geografica dei soli Paesi europei. Dal momento in cui l'universalità non riveste più un carattere né geografico né storico, essa non è più un privilegio strettamente europeo. Il che non significa che si cede così alla tentazione del relativismo. Se si parla della percezione francese della globalizzazione, è significativo che i cinesi o gli indiani portino il loro sguardo specifico sugli altri Paesi del mondo.
Con la globalizzazione contemporanea è dunque lo sguardo degli altri Paesi su di noi che sta cambiando. La Cina ad esempio osserva la Francia come un Paese che contribuisce all'avventura della globalizzazione alla stregua di qualsiasi altro Paese del pianeta, e dunque la Francia non ha più un monopolio dello sguardo. E ciò è all'origine di uno spostamento storico le cui conseguenze non sono sempre percepite, ma anche di uno sganciamento storico, anzi di un ritardo, rispetto alle nuove rappresentazioni che la globalizzazione, un mutamento profondo che ci prende alla sprovvista, sta generando.

© «Esprit» e per l'Italia «Avvenire»
(traduzione di Daniele Zappalà)