Alasdair MacIntyre, o dell’ambiguità della tradizione
di Adriano Scianca - 18/12/2005
Fonte: Adriano Scianca
Che ne è della tradizione quando la catena del tradere si è irrimediabilmente interrotta o, peggio, non tramanda altro che contenuti inequivocabilmente… “antitradizionali”? Che ne è della comunità quando la meschinità individualistica dell’“ultimo uomo” zarathustriano si fa prassi quotidiana? Come sono possibili, insomma, un tradizionalismo ed un comunitarismo nell’era moderna, “diabolicamente”[1] portatrice di scissioni insanabili tanto in senso sincronico (fra i cittadini) che in senso diacronico (fra le generazioni)? Problema capitale, con cui ogni filosofia politica contemporanea che non voglia appiattirsi sulle imposture liberali[2] deve fare i conti. A questo proposito, le teorizzazioni dei neo-comunitaristi americani – nelle loro critiche puntuali, ma anche nelle aporie cui inevitabilmente finiscono per soggiacere – riflettono in modo eloquente le problematiche appena esposte. Fra i communitarians, Alasdair MacIntyre rappresenta senz’altro il pensatore che più in là si è spinto nella critica alla modernità illuminista. I risultati della sua ricerca, come vedremo, sono decisamente interessanti, tanto nelle luci quanto nelle ombre.
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Nato a Glasgow nel 1929, Alasdair MacIntyre la tradizione non ha avuto bisogno di teorizzarla: piuttosto, ci è nato dentro. Nel contesto in cui il giovane Alasdair cresce e matura, infatti, le tradizioni scozzesi, pur già declinanti, sopravvivono ancora negli anziani del luogo, a partire dai nonni del filosofo che ancora si esprimono in lingua celtica. “I fatti importanti di questa cultura erano alcune forme di lealtà ed il legame con i parenti e con la terra. Essere giusti significava giocare il ruolo a cui ciascuno era stato assegnato dalla comunità locale. L’identità di ciascuno derivava dal posto che l’individuo occupava nella comunità”[3]. Contrapposta a questa immagine, troviamo l’educazione borghese e “cittadina” cui MacIntyre venne sottoposto, in una sorta di riproposizione ancestrale del conflitto delineato in seguito dal pensatore alla luce di una maturata consapevolezza filosofica: “In contrapposizione a tutto ciò, mi fu insegnato che imparare a parlare o a scrivere in celtico era un passatempo inutile e antiquato[…]. Il mondo moderno era una cultura di teorie e non di storie”[4], in cui la moralità era espressione di un’umanità universale e razionale, non di un particolare gruppo sociale o etnico. Il conflitto appena delineato sfocerà in una ricerca inquieta che porterà MacIntyre a confrontarsi con le filosofie più disparate: da un iniziale marxismo anti-stalinista e cristianeggiante ad uno scetticismo prospettivista, per poi passare all’aristotelismo ed, infine, al tomismo. Il successivo trasferimento negli USA e l’osservazione di un modello in cui la brutalità sradicante del progetto illuminista non cessa di scontrarsi con il costante riemergere delle differenze etno-comunitarie (ma ad un livello, aggiungiamo noi, puramente folklorico e del tutto funzionale al sistema dominante[5]) non farà che confermare le antinomie già fissate nella mente del filosofo.
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MacIntyre accede ai problemi della comunità e della tradizione attraverso un basilare quesito di filosofia morale. Che cos’è, si chiede lo scozzese, che giustifica le nostre azioni? Da dove traiamo motivi per agire? Sappiamo veramente perché agiamo in un certo modo piuttosto che in un altro? A tali domande, MacIntyre risponde in modo drasticamente negativo, evidenziando il totale analfabetismo etico caratteristico della modernità. Noi abbiamo “smarrito la [nostra] strada sia linguistica sia pratica nel mondo”[6], afferma il filosofo in Dopo la Virtù, sua opera principale. Il linguaggio morale di cui noi facciamo quotidianamente uso è cieco, fa uso di concetti che non comprende, rasenta la superstizione: “ciò che possediamo, se questa tesi è vera, sono i frammenti di uno schema concettuale, parti ormai prive di quei contesti da cui derivava il loro significato. Abbiamo, è vero, dei simulacri di morale, continuiamo ad usare molte delle espressioni fondamentali. Ma abbiamo perduto, in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teorica che pratica, della morale”[7]. Ciò che ci ha portati sull’orlo di questo abisso è il “progetto illuminista”, ovvero il progetto morale intrapreso dalla modernità a partire da una scelta fondante anti-aristotelica. In Aristotele il discorso morale si articola intorno a tre elementi fondamentali: l’uomo com’è (la sua natura spontanea), l’uomo come dovrebbe essere (il suo telos) ed i precetti morali. Detto altrimenti, possiamo parlare di materia, forma e mancanza: la natura umana sarebbe la materia caratterizzata da una mancanza di forma cui supplirebbe l’azione formatrice della polis[8]. È evidente come in un simile quadro i precetti morali ricavino la loro autorità dal fatto di indirizzare l’uomo verso il suo più autentico fine. Ovvero, tutto si basa sul concetto di telos, senza il quale la struttura logica del ragionamento diviene incomprensibile. Ebbene, il progetto illuminista ha commesso proprio questo errore fatale: ha eliminato ogni riferimento teleologico, lasciando una serie di precetti morali ed una concezione della natura umana messi in relazione tra loro in modo del tutto ingiustificato. In questo modo il “dovere” perde di senso, diventa un incomprensibile comando arbitrario senza alcun fondamento, né più e né meno del tabù polinesiano, che pure tanta ironia ha suscitato negli “illuminati” colonizzatori occidentali[9]. Qui il pensiero dello scozzese richiama alla mente alcune pagine evoliane: “Nella ‘morale autonoma’ – osservava il pensatore romano - cioè laica e razionale, resta soltanto un vuoto, rigido comando, un ‘devi’ da far valere contro ogni impulso della natura – mera eco dell’antica legge vivente. […] Dopo il puritanismo e il rigorismo etico, questo è l’orientamento del mondo borghese: idoli sociali e conformismo fondato sulla convenienza, sulla viltà, l’ipocrisia o l’inerzia”[10].
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L’ “etica della virtù” - di cui la filosofia aristotelica costituisce solo l’episodio più significativo – era, al contrario, strutturata su tre pilastri ineludibili: le pratiche, l’unità narrativa e la tradizione. Per “pratica” MacIntyre intende qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, strutturata intorno a determinati valori e modelli. Le pratiche in cui possiamo essere impegnati, tuttavia, possono essere molteplici (dal giardinaggio alla musica, dall’azione politica ad attività mafiose etc.), ognuna diversa dalle altre, ognuna di importanza differente dalle altre, a volte persino in conflitto con le altre. Per evitare conflitto ed arbitrarietà, è necessario che le pratiche siano inserite nel contesto dell’unità narrativa della vita. Un’azione, cioè, non è intelligibile se presa singolarmente; le azioni sono sempre azioni di un autore ben preciso, il quale ha una sua identità, cioè è inserito in una sua storia personale che possiede un’unitarietà. Le nostre vite, infatti, sono storie che costituiscono un’unità narrativa che dà loro un senso. Nella misura in cui siamo noi gli autori della nostra storia ne siamo anche responsabili ed è possibile che ce ne chiedano conto. Il bene di ognuno di noi – il telos che deve in-formare tutta la nostra esistenza - risiede nel modo migliore di vivere l’unità narrativa e di portarla a compimento. L’esistenza è determinata da questa ricerca e le virtù sono quelle qualità che la rendono possibile. Il senso di questa ricerca, tuttavia, non è concepibile in astratto: cosa sia il nostro bene è determinato dal contesto in cui ci muoviamo, dalle circostanze sociali, politiche e culturali in cui ci troviamo. In più siamo sempre portatori di una determinata identità sociale: “Io sono il figlio o la figlia di qualcuno, il cugino o lo zio di qualcun altro; sono un cittadino di questa o quella città, un membro di questa o quella gilda o professione; appartengo a questo clan, a quella tribù, a questa nazione. Perciò quello che è bene per me deve essere il bene per chi ricopra questi ruoli”[11]. Noi ereditiamo dal passato della nostra famiglia, clan o nazione una serie di legami, di debiti, di obblighi ed aspettative. Noi non siamo solo ciò che scegliamo di essere, come vorrebbe l’individualismo moderno. Al contrario, ognuno nasce sempre con un passato da cui non può semplicemente tagliarsi fuori con una scelta individuale. Le pratiche, in definitiva, sono concepibili solo nel contesto di un’unità narrativa dell’intera vita, unità determinata dalla ricerca del proprio bene. Ma ogni singola ricerca è a sua volta inserita in una più vasta tradizione in cui il perseguimento di determinati valori è un compito che si estende per generazioni e generazioni. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, in che modo tutto ciò possa convertirsi in prassi politica positiva. Ma sfortunatamente, il pensiero di MacIntyre qui si fa “debole”; debole argomentativamente ma anche debole dal punto di vista dell’audacia e della profondità dei contenuti. After Virtue, infatti, ci invita a costruire “forme locali di comunità” per coltivare la virtù e resistere ai tempi bui. Un ripiego sulla pura testimonianza, come nel peggior tradizionalismo. Ma, anche, “un programma a ben vedere molto poco aristotelico, che si risolve in un invito alla fuga dallo spazio pubblico della polis e al ripiegamento intimistico in conventicole di ‘puri’”[12], come è stato giustamente notato. Né le altre opere dell’autore offrono indicazioni soddisfacenti a riguardo[13]. Il che è probabilmente dovuto alla consapevolezza del fatto che pensando fino in fondo scenari alternativi alla modernità liberale “si sa poi dove si va a finire”. E l’Accademia, capite bene, può tollerare la puzza di zolfo, non la vista del demonio.
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Questo il sunto generalissimo di After Virtue. Le opere successive, come è stato detto, saranno “poco più che corollari”[14], con la parziale eccezione di Animali Razionali Dipendenti, in cui si segnalano alcune novità, sfortunatamente tutte emblematiche di una “conversione” al politicamente corretto dell’autore. Ma anche concentrandoci sulla sua opera principale, non mancano spunti problematici e nodi irrisolti. A cominciare dall’attitudine, tipica di MacIntyre e di ogni filosofia “conservatrice” in senso lato, a dare la tradizione per scontata, rifuggendo radicalmente ogni forma di ri-appropriazione volontaristica dell’origine. Il che espone il pensiero dello scozzese a diverse critiche, prima fra tutte quella di essersi richiamato positivamente all’aristotelismo e di aver contemporaneamente posto la tradizione come dato fondante ed inaggirabile. Ma se è vero che, oggettivamente, l’aristotelismo oggi non è più una filosofia unanimemente accettata e se anzi la modernità è quella che è proprio perché ha rifiutato Aristotele, allora ci troviamo di fronte ad un rompicapo insolubile. Giacché se davvero è in Aristotele la nostra salvezza, è solo attraverso una decisione non scontata né inevitabile che possiamo oggi dirci aristotelici (o platonici, o eraclitei, a seconda delle prospettive), e comunque sempre in forme radicalmente nuove rispetto al modello originario. Decisione per nulla deducibile da una lineare tradizione ininterrotta che ha piuttosto preso tutt’altra direzione. Viceversa, un tradizionalismo “di stretta osservanza” non può che finire, oggi, nell’elogio paradossale della modernità illuministica, poiché è fuor di dubbio che da qualche secolo in qua è l’eredità individualista, liberale, egualitaria che domina in Occidente. L’elogio tradizionale della modernità[15]: ecco il mostro che rende palese l’ambiguità di un certo tradizionalismo dimentico della sua dimensione “eroica”. Se l’affermazione della comunità nell’epoca della sua scomparsa risulta il vero “nodo di Gordio” della filosofia politica attuale, allora non potrà che essere la spada della decisione a superare il dilemma in una sintesi post-moderna in cui l’origine arcaica sia proiettata volontaristicamente nel futuro più lontano. Qui sta lo scarto incolmabile tra ogni pensiero post-nietzscheano, “nichilista attivo”, “sovrumanista”, ed ogni veduta banalmente conservatrice o, peggio, reazionaria. Chi viene “dopo” Nietzsche (ovviamente in termini di consapevolezza, non di cronologia) sa di trovarsi nel “punto zero magico” (Jünger) in cui i vecchi mondi si sgretolano ed è la volontà di potenza a decidere del nostro destino. Chi continua a pregare l’ombra del vecchio dio nelle caverne, invece, rischia di attendere fideisticamente una salvezza proprio lì dove essa non può più giungere.
[1]Diabolos deriva dal verbo dia-ballo: disunisco, separo.
[2] Per un’idea molto generica dei nodi insoluti all’interno della filosofia politica liberale vedi il mio Dell’Impostura Liberale, in “Orion” n° 233, febbraio 2004, pag. 50-52
[3] Giovanna Borradori, Conversazioni Americane, Laterza, Bari-Roma 1991, pag. 172, cit. in Guido Antiochia, Il percorso intellettuale di Alasdair MacIntyre. Il difficile rapporto tra tradizione e pluralismo della modernità, Tesi di Laurea sostenuta presso l’Università La Sapienza di Roma, s.d., pag. 3.
[4] Ibidem, pag. 4.
[5] È il modello cosiddetto “multiculturale”, in cui “lo sradicamento territoriale, la proletarizzazione, lo spezzarsi di ogni legame comunitario ed identitario sulla scala che davvero conta, che è quella dei soggetti politici (l'impero, lo Stato-nazione, il popolo, la regione) trova una compensazione puramente virtuale, consolatoria e consumistica a livello di parrocchie, cappelle, "consigli degli anziani" nelle "riserve", scuole per stranieri, bocciofile tra emigrati di uguale provenienza, etc.” (Stefano Vaj, Per l’Autodifesa Etnica Totale, <http://www.uomo-libero.com/articolo.php?id=298>. La versione cartacea dell’articolo, parzialmente diversa dalla versione on-line, è uscita ne “L’Uomo Libero” n° 51,maggio 2001. La citazione, sensibilmente differente, si trova a pag. 30).
[6] Alasdair MacIntyre, Dopo la Virtù. Saggio di Teoria Morale, Feltrinelli Editore, Milano 1993 (prima edizione 1988), pag. 80.
[7] Ibidem, pag 12-13
[8] Cfr. Vanna Gessa-Kurotschka, Alasdair MacIntyre: la vita buona e i principi, Morano Editore, Napoli 1995, pag 28. Le complesse questioni inerenti al teleologismo aristotelico non verranno trattate nel presente articolo.
[9] Il parallelo tra la morale dei “selvaggi” e i “civili”, “razionali” principi etici occidentali viene sviluppata soprattutto in Three Rival Version of Moral Enquiry (Enciclopedia, Genealogia, Tradizione. Tre Versioni Rivali di Ricerca Morale, Editrice Massimo, Milano 1993). Come noto, il tabù polinesiano o il kapu hawaiano sono divieti che gli stessi indigeni, all’epoca della colonizzazione, osservavano per pura abitudine, senza comprenderne ragioni e significati. Evidentemente abbiamo a che fare con residui di tradizioni precedenti che hanno perso ogni loro significato nel momento in cui è venuto a mancare il contesto sociale, culturale, teologico e morale che dava loro un senso. Le prescrizioni sociali e religiose legate al tabù polinesiano o al kapu hawaiano diventano ad un certo punto della loro evoluzione delle “nozioni elementari” non traducibili in altri termini, cioè dei precetti inspiegati ed inspiegabili, delle proibizioni arbitrarie che i popoli indigeni danno per scontate ma che loro stessi hanno cessato di comprendere. Per MacIntyre, lo stadio del nostro “progresso etico” sarebbe più o meno ad un tale livello.
[10] Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, pag. 30.
[11] Alasdair MacIntyre, Dopo la Virtù, pag. 263.
[12] Valentina Pazé, Il Concetto di Comunità nella Filosofia Politica Contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pag. 33.
[13] In Giustizia e Razionalità (Edizioni Anabasi, Milano 1995), la conclusione ci invita a situarci in una delle quattro tradizioni di ricerca morale da lui individuate (aristotelica, agostiniana, scozzese e liberale). È tuttavia curioso che per superare il caos della modernità frutto del fallimento illuminista ci si rimandi ad una “scelta”, cioè ad un criterio già stigmatizzato come tipico di quel progetto illuminista stesso che nel caos ci ha fatto sprofondare. Quanto a Enciclopedia, Genealogia e Tradizione, le riflessioni su un nuovo modo di concepire l’istituzione universitaria sono senz’altro interessanti, ma risultano eccessivamente minimaliste se rapportate ad una critica alla modernità della portata di quella svolta da MacIntyre (non si può, cioè, stroncare secoli di civiltà moderna per poi affermare che la soluzione si trova in una differente visione dei dibattiti accademici). Animali Razionali Dipendenti (Vita e Pensiero, Milano 2001), da questo punto di vista, segna un po’ una svolta. Qui MacIntyre si dilunga maggiormente nel proporre un differente modello di società. Tuttavia, la perdurante diffidenza verso ogni tipo di istituzione rende piuttosto problematico immaginarsi un’attuazione concreta di simili programmi. Chi, dove, come e quando dovrebbe mettere in pratica i suggerimenti di MacIntyre, se lo stato-nazione è visto come fumo negli occhi, la famiglia è inadeguata al compito e non si propongono altri tipi di istituzioni adeguate?
[14] Marco D’Avenia, Presentazione a Alasdair MacIntyre, Animali Razionali Dipendenti, pag. VII.
[15] Del resto, tra gli attuali corifei dello “scontro di civiltà” eterodiretto da Washington, non mancano i sostenitori “identitari” della cultura occidentale, i quali incitano a difendere la civiltà cristiano-illuministica come nostra tradizione, senza più accenti universalistici. Che provengano da liberali folgorati sulla via di Lepanto o da frange “dure” del clero cattolico non rassegnate ad un’estinzione peraltro inevitabile, tali prese di posizione appaiono per lo più patetiche, contraddittorie e demenziali.