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L'Iraq di Bush e i fantasmi del Vietnam

di Carlo Bellinzona - 04/09/2007



Quasi ovattato dal periodo di vacanze, martedì 14 agosto si è consumato il più sanguinoso eccidio della tragedia irachena: almeno 500 morti, circa 1500 feriti, spianate 200 povere case di fango e sassi, colpite dall'esplosione di quattro o cinque autocarri-bomba. Così è stata annichilita la realtà di due villaggi (meglio, baraccopoli: Qahtaniya e Jazeera) distanti tra loro cinque miglia, ai margini del deserto ai confini con la Siria, nella regione di Sinjar.

Abbiamo appreso della esistenza di una piccola minoranza di etnia curda, gli Yazidi, cultori di una religione ancestrale non islamica di matrice persiana, con un miscuglio di complicati elementi, angeli compresi. Una minoranza, una setta, senza alcun peso politico, travolta anch'essa nel crogiolo iracheno. Perché? Tentare di spiegare è certo possibile, ma più delle congetture, purtroppo, è necessario accettare il fatto che in Iraq la lotta per la distribuzione del potere sembra, in questa fase, passare anche attraverso eclatanti gesti dimostrativi.

Tale affermazione sembra bene attagliarsi a due attentati, avvenuti a distanza di dieci giorni nel sud del Paese, che hanno provocato la morte di due governatori di importanti province contermini: Diwaniya e Muthanna. Entrambi appartenevano al partito sciita di maggioranza relativa (il Supremo consiglio islamico iracheno) e sono stati attaccati con dispositivi esplosivi a distanza, mentre procedevano in corteo con macchine di scorta.

Il significato politico in un'area quasi totalmente sciita assume maggiore valore simbolico se si tiene conto del fatto che la sicurezza della provincia è ormai nella piena responsabilità del governo di al-Maliki e quindi delle forze di polizia irachene.

Gli episodi cui si è fatto cenno qualificano nei termini essenziali uno scenario ben più articolato e troppo pieno di eventi sanguinosi. Esso potrebbe meglio illuminare il dibattito interno che in questi giorni attraversa la politica americana, se si sottolineasse il fatto che gli "insorti" - o meglio le fazioni - hanno trovato altri obiettivi al di fuori della capitale Baghdad, dove l'azione di controllo del territorio sta ottenendo finalmente dei risultati. La discussione è focalizzata sul se e quando andar via dall'Iraq. In realtà, nei media più diffusi si è attivata una vera battaglia mediatica, che è un anticipo dell'atteso dibattito al Congresso, già previsto per la metà di settembre, in cui verranno presentate la relazione politico-istituzionale da parte dell'ambasciatore Cocker e gli esiti della ormai abusata "surge" nella relazione strategico-militare del generale David Petraeus.

La "surge" ha dato finora modesti risultati, perché le milizie di al-Sadr sono ancora pericolose e a nord di Baghdad le formazioni della guerriglia, soprattutto quelle indicate dagli americani come la costola irachena di al-Qaeda, hanno ancora troppi spazi di azione, specie nelle aree orientali. Contro queste, le forze di Petraeus, insieme alle unità irachene hanno condotto ripetute e prolungate operazioni in grande stile, dichiarando consistenti successi.

Baghdad nelle ultime settimane è stata meta di visite di esperti qualificati e del senatore democratico Carl Levin, capo della Commissione forze armate. Gli esperti, Michael E. O'Hanlon e Kenneth M. Pollack della Brookings Institution e Anthony H. Cordesman del Center for Strategic and International Studies (Csis), titolari anche di prestigiose cattedre universitarie e notoriamente espressione di centri studi piuttosto ostili a Bush, pur avendo percezioni diverse sulla reale situazione in Iraq e sul valore della "surge", lasciano aperta una prospettiva di lungo periodo.

Addirittura Cordesman, che è il più critico e pessimista, parla di "pazienza strategica", per poter conseguire almeno qualche risultato in qualche area, scegliendo la strada di una graduale riduzione delle forze in campo. In realtà, qualche conto è stato fatto e divulgato dalla stampa specializzata: occorrono più di quattro mesi per recuperare solo il 50 per cento delle forze schierate sul territorio iracheno. Sarà come "muovere montagne".

Solo qualche indicazione. In Iraq è presente un quarto dei mezzi corazzati e cingolati dell'esercito americano. Se ipoteticamente fossero incolonnati tutti i mezzi, formerebbero un convoglio di 160 chilometri. Se pensiamo agli itinerari per il reimbarco verso il Kuwait, la Giordania e la Turchia, ci rendiamo conto dell'onerosità delle misure di trasporto, movimento e sicurezza e soprattutto dei tempi necessari per raggiungere i porti d'imbarco. La gradualità e una accurata pianificazione della "uscita" dall'Iraq sono quindi nell'ordine logico di un simile problema operativo.

Il ritorno a Washington del senatore Levin è stato molto significativo sotto il profilo politico. Senza mezzi termini ha espresso la decisa convinzione della necessità da parte del Parlamento iracheno di sostituire al più presto al-Maliki con un leader meno legato alle fazioni politiche e quindi più efficace. In realtà, Bush ha attenuato di molto una simile stroncatura, riprendendo il tono e i termini dell'ambasciatore Crocker che, pur riconoscendo come il premier iracheno operi "all'ombra di un pesante trauma nazionale", ha espresso "una certa frustrazione nei confronti della leadership irachena in generale".

Due aspetti si possono cogliere in questa vicenda. Il primo: gli Usa non hanno di certo apprezzato che al-Maliki nell'ultimo mese si sia cercato uno spazio internazionale "nell'interesse del paese" recandosi in visita a Teheran e a Damasco, capitali ritenute dagli Usa sorgenti primarie della destabilizzazione in Iraq. Il secondo: al-Maliki è il perfetto capro espiatorio da offrire nel rapporto al Congresso per spiegare le ragioni delle difficoltà americane.

Giorni orsono il presidente Bush ha espresso pubblicamente ai premier messicano e canadese, al termine di un incontro ufficiale, che "il governo iracheno deve fare di più". Pare un buon indizio. Tuttavia, le linee della offensiva che Bush adotterà per continuare senza vincoli temporali nell'impegno in Iraq sono emersi in forma nitida durante il suo intervento a Kansas City mercoledì 22 agosto alla Convention dei veterani delle guerre all'estero.

Con toni quasi apocalittici ed emotivamente coinvolgenti, il presidente ha difeso la propria linea in Iraq. Evocando come la "seduzione del ritiro" porti alla tragica conclusione della guerra del Vietnam, ha dato voce alla convinzione del grave sbaglio che sarebbe lasciare l'Iraq, ormai prossimo all'obiettivo di essere libero. Ai combattenti di allora, secondo Bush, spetta il merito di aver permesso al Giappone e alla Corea di diventare solide democrazie. Lasciare il Vietnam, invece, ha portato a tragiche conclusioni e a sofferenze, in Cambogia oltre che nello stesso Vietnam.

Un buon anticipo per preparare e indirizzare il dibattito di settembre, quando si dovrà procedere davvero alla valutazione della situazione e capire bene cosa non funziona a Baghdad.

Intanto a fianco del Presidente si è schierato un nuovo gruppo di tenaci conservatori: l'Osservatorio della libertà, che investirà subito 15 milioni di dollari per attivare radio, televisione e avvisi Internet in più di 20 Stati e 60 distretti, affinché gli elettori mettano sotto pressione i loro rappresentanti per continuare il sostegno alla guerra.

Tuttavia, al di là dei toni messianici qualcuno dei collaboratori propone una linea più ragionevole: "Se quello che abbiamo fatto non sta funzionando, non possiamo abbandonare, altrimenti sarà peggio".

Fonte: http://www.paginedidifesa.it/2007/bellinzona_070903.html
Si ringrazia "Pagine di Difesa" per la concessione di quest'articolo.