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Rom, cultura da salvare

di Daniele Zappalà - 04/09/2007

Parla Jean-Pierre Liégeois, esperto delle minoranze «viaggianti», che sarà a Carrara venerdì per il festival "Con-vivere"

«Le culture Rom sono come un mosaico. Ogni elemento dell'insieme è originale, ma può essere compreso solo dalla sua posizione nell'insieme. Vi è unità nella diversità». È una similitudine cara a Jean-Pierre Liégeois, uno dei maggiori esperti mondiali delle minoranze "viaggianti". Docente alla Sorbona di Parigi, Liégeois interverrà venerdì prossimo nel quadro del Festival "Con-vivere" nel centro storico di Carrara (per informazioni www.con-vivere.it). Il festival durerà fino a domenica. Per Liégeois, le culture Rom appaiono storicamente anche come un caleidoscopio: «Gli elementi si muovono in una configurazione d'insieme, ma le relazioni restano».
Professore, perché occorre parlare di "culture Rom" al plurale?
«I Rom formano un insieme di popolazioni molto diversificate a livello linguistico e culturale. Per molte ragioni. Il vissuto storico, attraverso migrazioni secolari partite dall'India, ha condotto vari gruppi a percorrere regioni e continenti diversi. A produrre differenze è stato anche il modo in cui i Rom sono stati trattati: proibizione della lingua nel quadro di politiche di assimilazione, dispersione delle famiglie nel corso di lunghi periodi di schiavitù e d'invio nelle galee, proibizione dei ricongiungimenti».
Dove si può rinvenire una coerenza di fondo?
«Occorre rendersi conto che i Rom non hanno frontiere geografiche, né consolati o ambasciate, né territori di riferimento. I fattori determinanti sono sociali e linguistici, accanto a frontiere psicologiche. Se la solidarietà, la condivisione culturale e la volontà collettiva di permanenza non fossero state tanto forti, un tale insieme si sarebbe disgregato lungo i secoli a causa delle tante politiche negative subite: espulsioni, smembramenti familiari, assimilazione, sterminio nazista».
L'espressione molto vaga "popoli viaggianti" è spesso impiegata a livello ufficiale. Che ne pensa?
«Da un punto di vista sociologico, mi pare una definizione legata a politiche nazionali specifiche, soprattutto d i assimilazione. In Francia, ad esempio, questa definizione è emersa negli anni Settanta, sia per evitare le presunte stigmatizzazioni del concetto di "nomadi" - il quale, tuttavia, coglie una caratteristica oggettiva di una parte di queste popolazioni -, sia per designare, senza nominarla esplicitamente, una categoria di popolazione che è oggetto di regolamenti amministrativi. Si tratta di una categoria amministrativa, dell'etichetta data a un'entità collettiva. Ciò ha peraltro vantaggi pratici. Quando in Francia il discorso politico stigmatizza i "viaggianti", non può essere giuridicamente sanzionato. Si lasciano così passare di contrabbando, nella totale impunità, tanti stereotipi negativi».
Ci sono dimensioni della cultura Rom che restano del tutto nascoste ai non-specialisti?
«Nulla è nascosto. Al di là della comprensione di una lingua, si tratta d'imparare a conoscere una cultura e uno stile di vita. Un esempio: quando i Rom hanno scoperto l'Europa, qualche secolo fa, le popolazioni locali hanno creduto che elaborassero una lingua segreta per non essere compresi. Ma si trattava della loro lingua, proveniente dal sanscrito, una lingua ricca e dinamica. Più tardi, varie espressioni della lingua dei Rom hanno arricchito le parlate gergali locali, ma ciò ha rafforzato l'idea preconcetta di una lingua segreta».
In che senso, il rapporto di queste popolazioni coi territori statali e gli spazi urbani è al contempo originale e problematico?
«Se vogliamo parlare dei nomadi, che sono in realtà sempre meno numerosi, il problema proviene essenzialmente dal fatto che le loro possibilità d'insediamento non sono sufficienti. In Francia, dove due leggi ad hoc restano inapplicate, solo il 10% del fabbisogno di accoglienza è soddisfatto. Si rendono così responsabili degli stazionamenti del restante 90%, talora illeciti, coloro che sono le vittime della non applicazione delle leggi. Ma ragionando in termini positivi, direi che i Rom sono degli europei da sempre, presenti i n tutti gli Stati, con dei legami al di sopra delle frontiere. Rappresentano per di più la minoranza più numerosa, con circa 8 milioni di persone, in un continente oggi segnato dal multiculturalismo e dall'emergere delle minoranze. La loro posizione è emblematica. Se la si considera problematica è perché essi interpellano la gestione politica del pluralismo culturale, ad esempio nel campo dell'istruzione».
Che tipo di difficoltà pone la ricostruzione della storia delle culture Rom?
«Nel corso dei secoli, i documenti disponibili sono stati scritti da altri. Ciò implica spesso un approccio per stereotipi e, nel migliore dei casi, un'incomprensione. Lo storico è però in grado di sbrogliare i nodi. A lungo, inoltre, la dispersione degli archivi e l'assenza d'interesse hanno complicato le cose. Ma oggi, accanto a un movimento politico e associativo rom, l'interesse cresce così come il numero degli stessi ricercatori rom. Gli studi sono stimolati anche dalla necessità riconosciuta di produrre nuovo materiale pedagogico che includa la storia dei Rom».
I festival dedicati alla cultura dei Rom, in particolare la musica, riscuotono un notevole successo. Esiste il rischio di scivolare nel puro folklore?
«Il rischio esiste, ma la crescente partecipazione dei Rom a questi eventi permette di presentare una nuova visione delle cose, meno influenzata dall'esterno. Impiegare l'arte, prestatasi certo troppo spesso in passato a usi folkloristici, è comunque importante. Quest'anno, la Biennale di Venezia ospita per la prima volta un padiglione rom che è l'esempio di un cambiamento importante: non si presentano più i Rom dipinti nel corso dei secoli da artisti non-rom, ma il dinamismo della creazione artistica rom contemporanea».