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Rimanere fedeli al passato per conservare la fedeltà all'essere

di Francesco Lamendola - 05/09/2007

 

  

 

Sempre più ci accorgiamo di vivere in un mondo di ricordi labili e di progettualità nulla: gli esseri umani dimenticano sempre più fretta, si sbarazzano del proprio passato con una impazienza quasi mista a vergogna nei confronti di esso; e affrontano il domani con lo steso atteggiamento di superficialità e improvvisazione, di scarsa responsabilità e coerenza. Peggio ancora, così facendo essi si considerano "liberi" e autentici: liberi dalle catene del passato e dai timori del futuro, e autentici perché nell'hinc et nunc, nella grossolana filosofia materialista del "qui e ora" (cattiva versione modernista del carpe diem di epicurea memoria) ritengono di essersi emanicipati dal pesante fardello che l'ieri e il domani tenderebbero ad imporre loro.

Si tratta però di una illusione, e di una funesta illusione. Sbarazzarsi del passato è non solo la barbarie, nel senso di oblio delle radici e quindi dell'autenticità, ma anche rescissione del nostro autentico essere, che è tutto il nostro essere e non solo una parte di esso, quella che di volta in volta ci piace o ci fa più comodo. Noi siamo quelle che siamo, perché siamo stati quello che siamo stati; e saremo quello che saremo, perché siamo e siamo stati quello che ora siamo e che ieri siamo stati. Certo, noi possiamo anche rinnegare il nostro passato, disconoscere la temporalità come storia per ridurla a mera successione di enti ed eventi omologabili e sostituibili; ma una tale infedeltà verso la rete temporale in cui siamo avvolti non ci garantisce affatto un maggior grado di libertà, ma, al contrario, un maggior grado di inautenticità e quindi di non-essere.

Oggi le persone si prendono e si lasciano come fossero cose; dimenticano quelli che hanno fatto parte della loro vita, dimenticano in fretta le cose in cui la loro vita si è svolta  - e che non sono una semplice cornice, più o meno decorativa: una casa, ad es. la casa dell'infanzia, è in primis un luogo dello spirito, che fa parte di noi, e solo in seconda istanza un edificio con un determinato valore commerciale, in una data collocazione topografica, ecc.). Essere fedeli al proprio passato, allora, non significa né lasciarsene imprigionare fatalisticamente, né congelarvisi come se non avessimo un oggi: vuol dire, al contrario, vivere pienamente l'oggi e andare responsabilmente incontro al domani, ma con tutto il proprio essere e non con un io mutilato e irriconoscibile.  Perché noi siamo fatti del nostro passato e del modo in cui ci disponiamo verso il futuro: con lealtà, con coerenza, senza cercare inutili scorciatoie e senza chiedere furbescamente lo sconto sulla merce di cui la nostra vita è fatta. Nessuna scorciatoia, nessuno sconto: a meno di voler retrocedere verso il non-essere, verso il nulla. Ecco, si potrebbe dire che la maggior parte degli esseri umani oggi sono presi da questa frenesia del nulla, da questa tensione metafisica capovolta per cui, consumando sempre più attimi di presente e stordendosi con sempre più brama di immediatezza, tendono a scivolare verso un tradimento totale nei confronti di sé stessi, a scivolare verso il nulla di un deserto spirituale ove quello che conta è solo possedere, usare, manipolare, consumare e poi gettar via, per ricominciare daccapo ogni volta.

Uno dei filosofi contemporanei che più di tutti hanno saputo cogliere questo aspetto di radicale inautenticità, di radiale misconoscimento dell'essere da parte dell'uomo moderno è stato, a nostro parere, Nicola Abbagnano, massimo esponente dell'esistenzialismo italiano. Dalla sua vasta produzuone ci piace citare qui un aureo libretto la cui prima edizione risale al lontano 1947, e dal titolo poco appariscente, Filosofia religione scienza, aureo libretto che consiglieremmo a tutti di andarsi a rileggere appena possibile. Dal quarto capitolo, intitolato Tempo e peccato, abbiamo voluto riportare alcuni passaggi a nostro avviso quanto mai significativi per lumeggiare il giusto rapporto che dovrebbe esistere fra l'uomo e il tempo. Senza un giusto rapporto ra l'essere umano e il tempo, non si dà nemmeno la costituzione della persona (perché la persona, esistenzialisticamente, non è un dato ma una mera possibilità); e senza persona diviene impossibile ristabilire quel giusto rapporto fra l'uomo e l'essere, che costituisce lo scopo ultimo e il coronamento di tutta la nostra lunga, talvolta faticosa., ma sempre ricca e interessante avventura della vita. La cosa è intuitiva: se io non riesco a diventare una persona, mai potrò essere nel senso vero del termine, e quindi mai potrò fare ritorno all'Essere dal quale traggo origine; ma per poter diventare persona, bisogna che non rinneghi il mio passato e che non improvvisi goffamente il mio futuro, ma assuma l'eredità dell'uno e l'attesa dell'atro come passaggi consapevolmente affrontati e trasformati in libera scelta fra diversi ordini di possibilità.

Semplificando, si potrebbe dire che scegliere in continuazione, scegliere sostituendo gli enti e le situazioni senza posa, fino a renderli del tutto intercambiabili, equivale a non scegliere assolutamente nulla, perché la scelta autentica è sempre un tagliarsi i ponti dietro le spalle e gettarsi coraggiosamente in avanti. Per dirla con il grande Kierkegaard, il segreto della vita è procedere ricordando: procedere consapevolmente verso il futuro, ma senza nulla smarrire e senza nulla vanificare del nostro passato. Il quale è prezioso, tutto, tutto, anche in quelle parti che vorremmo quasi cancellare, anche in quelle esperienze che ci hanno fatto terribilmente soffrire. Perché se noi siamo quello che siamo, è stato fondamentalmente per merito di esse: e disconoscere questo debito nei loro confronti, volgere loro le spalle come se non vi fossero mai state, è l'atto supremo della infedeltà. Infedeltà che ci risospinge verso il non-essere indifferenziato, là dove, non scegliendo mai o scegliendo sempre in modo avventato e compulsivo, non è dato uscire dal cono d'ombra del nulla per entrare nella piena luce e nel calore dell'essere.

Il brano che riportiamo non è brevissimo, e ce ne scusiamo con il lettore; pure, leggendolo e rileggendolo, ci siamo resi conto che, sì, qualcosa avremmo potuto togliere, ma a prezzo di eliminare dei passaggi necessari di un tutto meravigliosamente collegato; finché ci siamo arresi all'evidenza che l'unico modo di non tradire la ricchezza e l'armonia di queste pagine era quello di riportare integralmente almeno i passaggi centrali del capitolo in questione. Ce ne fossero di èiù, oggi, di filosofi che volano dritti al cuore dei massimi problemi esistenziali con questa chiarezza concettuale, con questo coraggio morale, con questa coerenza, con questo entusiasmo! E ciò diciamo con buona pace di tutte le correnti del cosiddetto "pensiero debole", con tutti quegli atteggiamenti filosofici che, inchinandosi alle mode del momento, giocano a venderci la retorica in luogo della persuasione (come direbbe il buon vecchio Michaelstadter), la moneta falsa in cambio di quella buona.

 

"L'uomo tende a fondare nell'essere le sue possibilità, a costituirle come possibilità che l'essere stesso garantisce e fa proprie. Ma questa tendenza può anche rivelarsi insufficiente o fallace e le possibilità in cui essa si incarna possono andare disperse o smarrite. La possibilità di tale dispersione o smarrimento è il tempo: che esprime l'aspetto negativo della problematicità esistenziale. Il tempo esprime tutto ciò che nell'esistenza umana c'è di instabilità, di insufficienza, di negatività e di limite: esprime la fondamentale finitudine dell'uomo. L'uomo è finito perché vive nel tempo.

"L'interpretazione del tempo dà luogo a un'alternativa: o disconoscere e ignorare il tempo e con esso la finitudine dell'esistenza o riconoscere ed accettare il tempo e la finitudine. La prima alternativa determina il peccato. Il mancato riconoscimento della temporalità come possibilità del non-possibile è l'assunzione della instabilità come stabilità, cioè lo stabilizzarsi di una instabilità ritenuta definitiva. Ogni elemento di questa instabilità, ogni atteggiamento, ogni atto, appare fermo, definitivo e significante, onde si rinunzia a cercarne e a realizzarne il significato e il valore al di là di esso, nella trascendenza verso l'essere e nella instaurazione di un rapporto autentico con l'essere. Si crede di possedere l'essere e di essere in un certo modo l'essere nella instabilità e provvisorietà di un evanescente rapporto con l'essere; e ignorando o disconoscendo tale rapporto, si perde la sola possibilità di consolidarlo e di renderlo autentico. Il mondo ci appare allora aperto come spettacolo o teatro nel quale si possa intervenire a piacimento, ma al quale si possa anche assistere; e così perde la sua consistenza e la sua realtà. Gli altri uomini ci appaiono come strumenti pieghevoli dei nostri bisogni e dei nostri scopi particolari perché non ci sforziamo di rintracciare in essi l'essere che è al di là dei rapporti casuali e provvisori che si stabiliscono tra loro e noi. Il nostro stesso io si disperde in una varietà di atteggiamenti ognuno dei quali viene assunto come definitivo e perciò chiuso nella sua insignificanza.

"In altri termini il disconoscimento o l'ignoranza del tempo chiude l'uomo nel tempo: salda in lui e intorno a lui la minaccia della dispersione egli rende impossibile la trascendenza. Impegno, decisione, scelta, libertà sono allora impossibili. Impegnarsi - per che cosa? Le situazioni che di volta si presentano, i casi che accadono, le persone che s'incontrano, sono tutto quanto c'è e ci può essere: ritrarne quel tanto che si può ritrarne è la sola alternativa. È inutile decidere e scegliere. Quanto alla libertà, essa è sostituita dal senso di leggerezza illusoria che è propria di chi si abbandona all'estro del momento.

"Il tempo appare allora come successione: successione di fatti, di persone e di atteggiamenti; successione in cui non cui non c'è altro che la vicenda insignificante per la quale il posto di ogni fatto è preso da un altro fatto, il posto di una persona da un'altra persona, il posto di un atteggiamento da un altro atteggiamento. L'insignificanza assoluta, l'inconcludenza di tale successione sembra tuttavia ricchezza; perché in essa i fatti, le persone e gli atteggiamenti si sommano e tale somma sembra un arricchimento e un progresso. In realtà la successione implica la perdita incessante di tutto quello che è stato; la novità implica la rinunzia a tutto ciò che si è conquistato o si poteva conquistare; l'ammontare della somma significa ogni volta un insuccesso e una perdita.

"Che i fatti, le persone, gli atteggiamenti si sostituiscano così bene l'uno con l'altro nella successione del tempo è il segno evidente della loro insignificanza, della loro inconsistenza e della loro povertà di valore. E così vivere nel tempo, vedere in esso una successione e abbandonarsi al corso della successione, significano la medesima cosa: vivere nel peccato, rinunziare all'essere del proprio io, del mondo e degli altri. Il peccato è la perdita o la rottura almeno potenziale del rapporto con l'essere; è rinunzia alla trascendenza e perdita della trascendenza. Perdita della trascendenza significa: perdita dell'autentica possibilità di un rapporto con l'essere nella triplice forma che è propria di questo: l'unità dell'io, la realtà del mondo, la solidarietà con gli altri. L'indebolimento o la rottura potenziale di quel rapporto toglie all'essere la sua natura di dover essere cioè il suo carattere di valore. Vivere nella successione e in conformità della successione temporale significa attribuire ad ogni evento che succede all'altro lo stesso valore dell'altro; ad ogni persona che succede all'altra lo stesso valore dell'altra; a ogni atteggiamento che succede all'atro lo stesso valore dell'altro. La considerazione del tempo come successione reca dunque in sé la minaccia della lacerazione della struttura esistenziale, della perdita dell'unità, della trascendenza e del valore.

"Il peccato è legato così, non alla temporalità come tale, ma al disconoscimento e all'ignoranza della temporalità, cioè alla riduzione della temporalità a successione, riduzione nella quale consiste propriamente una vita abbandonata alla temporalità. Certamente il peccato è connesso con l'esistenza; ma non con l'esistenza autentica e con la temporalità che si riconosca come tale, sibbene con l'esistenza impropria e con la temporalità che si ignora, si distende e si disperde nella successione. Il peccati è sostanzialmente assenza o deficienza di impegno nell'esistenza, cioè di fede; è la temporalità che invece di conoscersi come tale e di trascendersi vive contenta della propria insignificanza. Esso è la via più facile e meno faticosa che si offre all'uomo. L'uomo non ha da far altro che lasciarsi andare, illudersi di essere sé stesso in qualsiasi atteggiamento e chiudere gli occhi alla minaccia che la temporalità rappresenta.

"Ma in questo modo il tempo stesso nelle sue determinazioni fondamentali  perde ogni significato. Il presente viene a identificarsi con la labilità e l'evanescenza più radicale: esso non realizza nessuna specie di unità: è semplicemente un punto che continuamente si sposta, un istante che non si può arrestare. Il passato perde ogni consistenza e realtà. Esso è stato perduto e sostituito; non ne rimane che un ricordo generico, anch'esso evanescente, che può suscitare soltanto una aspirazione nostalgica od una velleità inconcludente. Il futuro è un imprevisto a cui non si pensa o si pensa il meno possibile: esso sopravviene addosso all'uomo senza che egli se ne renda conto. Queste tre determinazioni nella loro inconsistenza rimangono scisse, si urtano e si separano continuamente perché non sono saldate assieme dall'unità di una struttura. In tal modo l'ignoranza o la non accettazione della temporalità come tale è alla radice della dispersione esistenziale dell'uomo.

"L'altra alternativa che il tempo presenta all'uomo, cioè il riconoscimento e l'accettazione della temporalità dell'esistenza, è faticosa e difficile tanto, quanto la prima è facile ed ovvia.

Essa consiste in primo luogo nell'aprire gli occhi di fronte al carattere dispersivo e  nullificante della temporalità come tale. Essa richiede che l'uomo si renda conto coraggiosamente, vincendo gli allettamenti dell'illusione esistenziale, che il tempo racchiude per lui una minaccia latente che può rendere nulla e disperdere le sue migliori conquiste. Essa richiede cioè un atteggiamento di vigilanza incessante, la quale esclude che ci si abbandoni alla successione degli eventi e si viva in balia di tale successione. Questo preliminare riconoscimento ,questa vigilanza incessante implicano che l'uomo si impegni a raccogliersi e a concentrarsi in un'unità fondamentale. Tra gli atteggiamenti che egli può assumere, uno solo è per lui l'autentico, quello in virtù del quale può realizzarsi come unità e io. Tra i rapporti che gli è possibile mantenere o instaurare tra sé e gli uomini,  uno solo  è quello che gli consente di vivere solidalmente con essi e quindi costituire con essi una vera comunità. Tra le situazioni nelle quali egli viene a trovarsi nel mondo, una sola è quella che gli consente di riconoscere e valutare l'ordine e la realtà del mondo. Se egli ha deciso veramente di raccogliersi nell'unità della propria struttura esistenziale  (cioè ha deciso di decidere, perché la sua decisione non può avere che questo significato), il tempo non gli appare più come successione di termini sostituibili o sostituiti, ma come la possibilità di trascendere la minaccia in esso implicita e di raccogliere, conservare e garantire l'unità essenziale che esso tende a disperdere.

"Le determinazioni del tempo assumono allora il loro valore uscendo dall'indifferenza e dall'insignificanza da cui pareva rivestite nella successione. Il passato non rivive solo nel ricordo e nella nostalgia: è una realtà autentica che io devo riconoscere e scoprire nella sua verità per riconoscere  e scoprire la verità dell'esistenza che mi è propria. Il futuro non è l'imprevisto che mi viene addosso da tutti i lati e mi trova indifeso e disarmato, ma è il compito cui mi sono dedicato e le difficoltà che esso mi serba e alle quali mi devo preparare. Il presente non è il punto istantaneo, evanescente e indeterminabile di una vita che trapassa, ma è l'unità stessa del mio io, nella sua finitudine e nella sua trascendenza verso l'essere cui devo rapportarmi.

"Inoltre, passato, presente e futuro non sono più determinazioni disperse ognuna delle quali se ne va per suo conto: costituiscono una unità, che è l'unità strutturale dell'esistenza. Il mio impegno per l'avvenire è riconoscimento del mio vero passato e fedeltà a tale passato.  Il passato non è morto e sepolto: la sua verità è nell'avvenire che ancora mi attende.  La verità del passato deve rivelarmisi nell'avvenire e giustificare la fedeltà a ciò che io stesso, il mondo e gli altri siamo stati: quella verità è dunque tutt'uno con l'avvenire verso cui mi impegno, ed è il mio presente esistenziale autentico. Le determinazioni del tempo, invece di urtarsi e di tendere a separarsi, si concentrano e si unificano nell'unità della persona: la quale emerge dalla vita temporale proprio in virtù dell'esplicito riconoscimento di essa, proprio in virtù della accettazione e della realizzazione effettiva di essa.

"E difatti l'uomo è internamente lacerato dal dipserdersi delle determinazioni temporali, quando la sua vita si svolge sul fondamento della successione temporale. Ciò che egli è stato non ha nessun rapporto con ciò che egli è: e ciò che egli sarà non avrà nessun rapporto con ciò che egli è ed è stato. La successione non implica nessuna continuità fondamentale, nessuna interna saldatura nella costituzione dell'uomo perché è semplicemente sostituzione: e la sostituzione esige la sostituibilità, cioè l'equivalenza di valore dei termini che, succedendosi, si sostituiscono. Soltanto trascendo la successione, cioè accettando e realizzando la temporalità come possibilità della perdita, l'uomo si limita e si definisce, muovendo alla ricerca di ciò che egli è stato e impegnandosi alla fedeltà verso il passato. Quest'atto di fedeltà, costitutivo del presente autentico, è l'unità della persona ed è l'atto per il quale veramente la persona acquista la sua dignità propria e il suo valore insostituibile. Personalità significa infatti insostituibilità e non è possibile la realizzazione della personalità in un processo del quale la sostituibilità sia la legge."

 

Sarebbe davvero difficile dire di più e di meglio, in poche pagine di testo. Ci inchiniamo alla sobrietà e all'onestà intellettuale di un filosofo come Nicola Abbagnano, e speriamo che la sua lezione intellettuale e spirituale possa dire ancora qualcosa agli uomini d'oggi, risvegliando in essi quella brama d'infinito e quell'esigenza di rigore con sé stessi che, sole, possono dare un senso alla vita umana.