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La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di Sinistra nell’epoca del capitalismo assoluto (recensione)

di Antonio Gurnari - 06/09/2007

Marino Badiale – Massimo Bontempelli, La sinistra rivelata. Il Buon Elettore di Sinistra nell’epoca del capitalismo assoluto, Massari, Bolsena, 2007, pp. 334, “Utopia rossa” n. 2.

 

Un libro assai interessante, la cui tesi è che la sinistra, quella che vota e quella che viene votata, non è in realtà antagonistica rispetto al capitalismo, ma sta ‘su piazza’, quella votante, per ribadire ‘turandosi il naso’ la propria appartenenza a un’area; quella votata, per esclusivi fini di potere e protagonismo narcisistico. La conclusione, è che occorre smettere di votare questa sinistra ¾ atto fondativo per un possibile percorso di creazione di una  a u t e n t i c a  sinistra. L’argomento portante e più originale che viene svolto dagli autori a sostegno di tale tesi è della forma ‘se tanto mi dà tanto…’. Vale a dire, se la sinistra che viene votata dal suo elettorato produce politiche ¾ rispetto a tale elettorato ¾ praticamente indistinguibili da quelle della destra e, in qualche caso, anche peggiori, allora 1), un siffatto voto è inutile e dannoso, e 2), l’elettore che lo esprime, inconsapevolmente ma oggettivamente, allontana l’avvento di un assetto della società coerente con gli ideali storicamente detti ‘di sinistra’. Quindi, se tanto mi dà tanto, allora è il caso di lasciare perdere questa sinistra ‘sviata’ e cominciare a pensare e a perseguire  i n   f o r m e   a l t e r n a t i v e  gli ideali propri e autentici  c h e   f u r o n o  della sinistra. Secondo gli autori, i  p a r t i t i  di sinistra, dopo la grande stagione del loro affermarsi a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo come soggetti collettivi di emancipazione delle classi meno abbienti e lavoratrici, successivamente, tanto nella loro versione del socialismo autoritario che in quella socialdemocratica, hanno dimenticato/abbandonato/rimosso l’istanza emancipatoria, divenendo soltanto i veicoli per una competizione per il potere dei rispettivi ceti politici ¾ in cui quindi il richiamo ai valori retaggio della fase ‘gloriosa’ della sinistra è valso e vale come specchietto per le allodole nei confronti di quelle parti dell’elettorato che a quei valori sono sensibili.

Secondo gli autori, ciò è potuto accadere perché questo personale politico dei partiti di sinistra, avendo nel suo dna una concezione per cui l’emancipazione è perseguibile solo  a t t r a v e r s o   l a   m o d e r n i z z a z i o n e, è stato sempre incline ad abbracciare qualunque evento della realtà storico-sociale che si presentasse con le stimmate della modernità. Ma ciò che è ‘moderno’ ¾ in realtà ¾ è cosa assai vaga e relativa: moderno è ciò che viene dopo qualcos’altro, è ciò che è nuovo, è ciò che è in auge, è ciò che dà luogo a qualche configurazione inedita, etc. Ora, se l’obiettivo emancipatorio viene pensato e praticato come  c o n s e g u e n z a  di una nozione di modernità e di modernizzazione così empirica e aleatoria, è evidente che lo si pone alla mercé delle contingenze storiche: se quello che viene dopo e che appare nuovo è il viatico per l’emancipazione, allora occorre che la politica, senza incertezze e riserve, abbracci e faccia suo questo ‘nuovo’ ¾ perché si presume (se si è in buona fede, il che non è sempre vero) che, a tale sponsale con il nuovo, immancabilmente seguirà l’emancipazione. Il che ¾ però ¾ è un semplice postulato, che non offre alcuna garanzia circa l’effettivo conseguimento dell’obiettivo emancipatorio. Ora, l’adozione di un atteggiamento ‘modernista’ può avere luogo in un ceto politico in buona fede, e in questo caso dà luogo a un  e r r o r e  quanto alle scelte politiche appropriate; oppure, se il ceto politico è in malafede, può servire da eccellente copertura per legittimare il salto sul carro dei vincitori in auge in un dato momento.

È quanto accaduto ¾ secondo Badiale e Bontempelli ¾ con tutti i gruppi dirigenti politici di sinistra, si trattasse del socialismo statalistico sovietico o delle formazioni partitiche socialdemocratiche: in ogni caso, l’assunzione dell’istanza ‘modernista’ è servita e serve a mascherare il tradimento dei valori originari della sinistra e qualunque forma di collusione e connivenza con situazioni e forze oggettivamente in contrasto con gli ideali emancipatori della sinistra. Oggi, poiché il vincitore appare essere il  c a p i t a l i s m o   a s s o l u t o, i politici ‘di sinistra’ lo hanno fatto proprio, lo hanno accettato come il ‘moderno’: per cui, per una parte di essi, quelli in buona fede, seguire il capitalismo sul suo stesso terreno è quel che è necessario fare per conseguire l’avanzamento emancipatorio della classe lavoratrice; per quelli invece che sono in malafede (e gli autori lasciano chiaramente intendere che a loro avviso questo gruppo è largamente prevalente), è una eccellente mascheratura per il loro puro e semplice desiderio di potere, senza alcuna altra finalità. Quindi, il ceto politico di sinistra, vuoi perché sviato dal mito del ‘modernismo’, vuoi più spesso avvalentesi di tale mito come schermo dietro il quale perseguire il potere per il potere, non appare né attrezzato, né utile, né interessato a un progetto societario che ponga al centro e come fine ultimo non-negoziabile i valori di giustizia sociale propri della sinistra ‘delle origini’.

Ma Badiale e Bontempelli individuano una inadeguatezza anche a carico del ‘tipo’ d’uomo della sinistra: in esso, per una sorta di ossificazione della capacità di ‘sentire’ i valori originari propri di un atteggiamento ‘di sinistra’, prevale il senso di  a p p a r t e n e n z a  alle organizzazioni storiche della sinistra, anzitutto i partiti. Insomma, il proprium dell’uomo ‘tipico’ di sinistra potrebbe essere: ‘giusto o sbagliato, questo è il mio partito, questo è il mio sindacato…’ ¾ cosa che dà luogo alla figura del ‘buon elettore di sinistra’ che, qualunque perversione dei valori di sinistra i politici di sinistra compiano, è pronto a giustificare, a comprendere, a guardare da un’altra parte, a lasciare correre. Quindi, se i politici non sanno e non vogliono più perseguire i valori della sinistra, e gli elettori di sinistra non hanno la necessaria determinazione a esigerne il perseguimento da parte dei propri rappresentanti eletti, allora le sorti di un progetto societario di sinistra appaiono seriamente compromesse. Tanto più ¾ e questo è il filone analitico e complementare del saggio di Badiale e Bontempelli ¾ che, oggi, nell’epoca del capitalismo assoluto, ossia dell’affermazione dei valori economici e del profitto quale unico metro a cui assoggettare  t u t t i  gli ambiti della vita, questa formazione economico-sociale, per la sua natura, è oggettivamente indirizzata a peggiorare, su scala planetaria, in modo crescente le condizioni di vita della stragrande maggioranza delle popolazioni e a infliggere danni ecologici catastrofici e irreparabili. Ebbene, è di questo monstrum che l’atteggiamento ‘modernista’ dei politici di sinistra si rende corresponsabile, così come se ne rende corresponsabile l’atteggiamento di fedeltà ‘a ogni costo’ dell’elettorato di sinistra.

Quindi, l’intero saggio-pamphlet di Badiale e Bontempelli suona come una durissima requisitoria contro il tradimento dei valori autentici della sinistra da parte dei politici di sinistra e contro l’ottundimento dell’‘appartenenza’ dell’elettorato c.d. di sinistra. Sostengono, Badiale e Bontempelli, che, se si vuole essere, al giorno d’oggi, interpreti fedeli dei valori originari della sinistra, occorre togliere il sostegno, a cominciare da quello elettorale, ai partiti di sinistra, ivi inclusi quelli c.d. ‘radicali’, ‘antagonisti’, ‘di alternativa’; e che, pur preso atto che «[l]e categorie di destra e di sinistra sono state importanti e significative dentro una lunga vicenda storica, che parte dalla Rivoluzione francese e arriva agli anni ’80 del Novecento […] [m]a [che esse] sono storicamente esaurite» (p. 328), bisogna cominciare a collocarsi concettualmente in un’ottica che «implica l’abbandono [delle nozioni] di destra e sinistra, e l’elaborazione di una nuova visione del mondo» (p. 333). La circostanza che gli autori si muovano in modo ‘sbarazzino’ rispetto ai miti e ai feticci storicamente incrostatisi sulla nozione di ‘sinistra’, li porta a dare una lettura di alcuni fatti che, alla sinistra paludata, ‘sul mercato’, risulta persino impensabile. Tra questi, l’argomento contro la diffusamente auspicata società multiculturale: essi distinguono un multiculturalismo ‘che funziona’ perché la pluralità è ricondotta a sintesi da «un’idea unificante, dotata di forza politica come è stata, ad esempio, nel Duecento, l’idea imperiale sveva» (p. 60), da uno che ‘non funziona’, perché non riesce nel disegno di integrazione (e citano il caso della moderna Argentina). In questa seconda condizione si trova la quasi totalità dei paesi, «politicamente corrosi e moralmente sfiniti da decenni di demenza neoliberistica» (ivi), sicché «[l]’immigrazione, allora, non porta granché di buono alla nostra società» (ivi). «Ciò che l’immigrazione salva, infatti, è […] il meccanismo attualmente vigente dell’economia, socialmente rovinoso e in prospettiva addirittura catastrofico, che andrebbe invece interrotto e ridefinito […]. Se non si trovassero neppure gli immigrati per i lavori generalmente rifiutati, tali lavori dovrebbero per forza venire resi meno umilianti, meno nocivi, meno sottopagati, e sarebbe introdotto un benefico fattore di crisi in un sistema basato su forme di brutale sfruttamento per la parte più debole della classe lavoratrice. […] La ferocia capitalistica sarebbe più debole se non potesse più disporre dell’attuale sovrabbondanza di manodopera» (p. 61). (Cfr. invece le tesi di diverso avviso di coloro che alla mobilità globale del capitale vorrebbero opporre, come fattore correttivo ed equitativo, la mobilità del lavoro, ossia la migrazione universale e permanente: p.e., Pr. Sh. Jha, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni, tr. it.).

Ancora, richiamando la vicenda della riforma scolastica in Italia, essi dichiarano: «Raramente la sinistra ha riconosciuto valore autonomo alla cultura […]. Sicuramente non lo ha mai fatto il movimento comunista, che ha creato un modello di totale riduzione della cultura a strumento della politica» (p. 227). Quel che però non mi ha convinto nel messaggio conclusivo del saggio di Badiale e Bontempelli è l’appello, all’elettorato di sinistra (ma anche di destra…), a volere andare ‘oltre ciò che correntemente si intende per destra e per sinistra’. Ravviso qui una sottile ambiguità e pericolosità.

Certo, avere compreso la lezione badial-bontempelliana circa il carattere inconsistente delle posizioni sventolate in atto dalla ‘sinistra sul mercato’, porta, chi è interessato a un recupero della politica quale  s c e l t a   p e r   u n   p r o g e t t o   s o c i e t a r i o  (da ancorare, almeno secondo il sentire dei due autori, al valore supremo della giustizia sociale), a fare piazza pulita delle posizioni oggetto dello sventolamento (il ‘teatro’ della politica…) dei partiti di sinistra, e a tentare una elaborazione di quel progetto che si misuri con dati, problemi, obiettivi, esigenze, vincoli, etc. e f f e t t u a l i,  e, soprattutto, si  a t t i v i  per farvi fronte[1]. Ma, e questo è il punto, un progetto societario può prendere tante, diverse e anche incompatibili direzioni. Un progetto societario di destra contiene cose che non  p o s s o n o  stare in uno di sinistra, almeno con riferimento ai valori-base, quelli identificativi, non-negoziabili. Per capirci, il valore ‘eguaglianza’ è un valore positivo per un progetto di sinistra, non lo è per uno di destra, che, poggiando sull’assunto del primato onto-antropologico dell’individuo, non può che accettare ¾ e accetta con gradimento ¾ la legittimità e la tutela delle differenze (quali e quante che siano) che conseguano alla individualità, si tratti di accumulo di ricchezze, di proprietà, di opportunità di esistenza, etc[2].

Non è così per una prospettiva di sinistra, in cui il primum è l’ i n t e r o  e, pertanto, è a questo che va commisurato il raggio di libertà dei suoi membri, che, in prima istanza, non può che essere eguale per ciascuno (ciò che, a sua volta, fonda la legittimità dell’assunto democratico: ‘una testa, un voto’). Quindi, prima di lanciare slogan come ‘oltre la destra e la sinistra’ ¾ specie in un tempo come il presente in cui i populismi attecchiscono con grande immediatezza a causa della disillusione lasciata dal tramonto delle ideologie (basti pensare p.e. a fenomeni come il blairismo, il berlusconismo, e, ora, il sarkozismo…) ¾ , che tendenzialmente fanno di tutte le erbe un fascio, sarebbe il caso di precisare quanto segue: la critica della ‘sinistra sul mercato’ (che in Italia, p.e., va dagli ex Ds fino a Prc incluso), deve trovare sbocco in una proposta non già ‘oltre la destra e la sinistra’, ma in una proposta di una ‘o l t r e s i n i s t r a’, la cui caratteristica principale dovrà essere quella di riannodarsi alla radice ultima e fondativa del progetto societario di sinistra: l’aspirazione a una vita degna di essere vissuta possibile e accessibile a tutti ¾ e, una volta scelto ciò, tutto il resto ne consegue. E, ripeto, questo è un valore di sinistra, non solo nel senso che appartiene alla  s t o r i a  del movimento della sinistra, ma anche perché è confliggente con assunti-base della ideologia politica di destra (quale, p.e., l’individualismo à la Locke). Certo, per chi  p o s t u l a   e   p o n e   c o m e   e q u i v a l e n t e  ‘politica come scelta di progetto societario’ e ‘progetto societario ispirato dal valore della dignità della persona umana’, lo slogan di Badiale e Bontempelli non suscita problemi e resistenze, esso è  o v v i o  ¾ ma solo perché, di fatto, l’‘oltre destra e sinistra’ viene così a coincidere con un orizzonte  d i   s i n i s t r a  tout court. Il messaggio conclusivo di La sinistra rivelata non può ¾  n o n   d e v e  ¾ essere rivolto a chiunque, ma anzitutto e prioritariamente all’ e l e t t o r a t o   d i   s i n i s t r a.

Che è, poi, la chiave di volta e lo snodo logico ed effettuale dell’intera argomentazione badial-bontempelliana. Infatti, il più sprezzante atto d’accusa dei due autori non è tanto indirizzato al ceto politico della sinistra, quanto proprio alla cecità scotomica del suo elettorato (il ‘buon elettore di sinistra’ del sottotitolo del libro). Perché ¾ vale ricordarlo ¾ , in una democrazia a suffragio universale, in cui coloro che possono attendersi un miglioramento della qualità della loro esistenza in termini materiali e culturali sono numericamente assai di più di quelli che non si trovano in tale condizione, la vittoria nelle competizioni elettorali dovrebbe essere sempre e in modo schiacciante della sinistra. Il che invece non accade, e, di recente, accade semmai più spesso il contrario. Questa abbrivio di ragionamento oltrepassa la linea di percorso dei due autori, che inchiodano sì alle sue responsabilità l’elettore  d i   s i n i s t r a  (in quanto individuato come irretito in un vincolo di appartenenza), ma che non si chiedono perché e come accada che le sirene dell’ideologia di (centro)destra, un po’ dappertutto, seducano la  m a g g i o r   p a r t e  degli elettori e degli elettorati.

Manca ¾ mi pare ¾ nel saggio in esame una valutazione e una spiegazione, anche di passaggio, dell’attrazione che le ideologie di destra o, comunque, del populismo, esercitano diffusamente presso gli elettorati. Una analisi elementare degli interessi e dei numeri in campo dice che non dovrebbe essere così, perché i non abbienti (o i meno abbienti) sono molti di più degli abbienti, perché quanti vivono male sono molti di più di quelli che vivono bene, e così via. Di questo mistero, di questa ‘maggioranza silenziosa e inerte’, si possono offrire varie spiegazioni. Badiale e Bontempelli optano per il tradimento e le imposture dei rappresentanti dell’elettorato di sinistra, e per il malinteso senso di appartenenza del popolo della sinistra. Ma altre sono proponibili: p.e.: l’assenza di consapevolezza in questo popolo dei propri interessi, l’inerzia politica indotta in esso dall’‘oppio’ della società dello spettacolo, le mutazioni psicoantropologiche innescate dalla struttura comunicativa dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (cfr. le indagini del post-macluhaniano de Kerckhove), l’assenza di una offerta di politiche adeguate da parte delle formazioni partitiche in cui esso possa riconoscersi, e così via. Queste e altre spiegazioni sono complementari a quelle dei due autori e tutte insieme non sono necessariamente non componibili tra loro. Entrando nel merito e a grandissime linee, la questione della mancanza di elettorati attivi e ‘incalzanti’ di sinistra si lascia ricondurre a due grandi tipologie di persone: quelle che fraintendono i loro interessi oggettivi e quelle che non hanno l’attitudine o la necessaria attenzione a compiere un’analisi del contesto e delle dinamiche politiche nella loro società. Le prime sono quelle che ritengono di ‘stare bene’ (piccoli proprietari, professionisti); le seconde sono quelle troppo ipnotizzate dalla società dello spettacolo ¾ si tratti dello spettacolo delle merci di G. Debord, si tratti del vero e proprio spettacolo mediatico-televisivo ¾ per potere neanche pensare a un orizzonte diverso. In entrambi i casi, quel che manca, è quel  c a t a l i z z a t o r e  politico in grado di fare intendere, alle prime, la limitatezza della loro autorappresentazione di benessere e di status, e, alle seconde, il degrado a cui si acconciano con le loro pratiche consumistico-spettacolari. Un tale catalizzatore è un attore che, scientemente e metodicamente, si dà come missione quella di ‘illuminare’ quelli che non stanno nella luce (Brecht) e di agire appropriatamente per rimuovere ostacoli e costruire rampe di avvio. Lenin ci ha detto ¾ e dimostrato ¾ che un tale attore è il  p a r t i t o. Che cosa siano stati i partiti di conio leninista, è cosa risaputa e, oggidì, accompagnata da una adeguata vituperazione.

E tuttavia, l’insegnamento di Lenin, nella sua essenza, è il solo che possa dare risposta al problema. Perché, non è affatto detto che l’attore che organizza il progetto di società degna di essere vissuta debba per forza imboccare la strada dell’autoritarismo, della violenza, del totalitarismo: anziché pensarlo come il partito-stato del modello sovietico, si può p.e. pensarlo come l’elaboratore di idee e percorsi, come il supporto attrezzato per la interpretazione e gestione politica di specifiche problematiche e situazioni, come l’istanza di composizione e coordinamento di iniziative spontanee, etc. Insomma, una specie di ‘Big brother’, ma non quello angosciante di Orwell, ma solo nel significato, assai più rassicurante, di  f r a t e l l o   m a g g i o r e, quello che ci assiste con le sue maggiori esperienze, con i suoi consigli, con la mano d’aiuto che ci porge quando ne abbiamo bisogno, che ci aiuta a capire quelli che hanno a che fare con noi quando non ci riusciamo da soli… Ebbene, il ‘fratello maggiore’, o, quanto meno, la sua precondizione, il suo brodo di coltura, il suo codice genetico di autocostruzione, dovrebbe essere quell’ ‘a r e a’ di cui gli autori parlano solo due volte nell’intero saggio (a p. 40, scrivono che bisogna «cominciare a pensare a una forza politica che faccia vivere ciò che rimane valido degli ideali storici della sinistra», e a p. 333 scrivono che «[o]ccorre allora lavorare perché nasca un’area sociale, anche minoritaria (ma non infinitesima!) che condivida questi presupposti»).

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[1] Si cfr. a proposito di questa effettualità il caso di studio svolto da Badiale in “Rumore molesto. Il linguaggio della politica”, del 31.08.2007, apparso sul sito www.arianaeditrice.it, in cui il linguaggio della sinistra c.d. radicale viene esaminato e rivelato come esclusivamente funzionale alla rimozione dell’esame sostantivo delle questioni sul tappeto.

[2](Si veda, esemplarmente, la teoria della proprietà di J. Locke, che, facendo discendere il fondamento ontologico della proprietà dal fare dell’individuo inteso come unità psicofisica, è così in grado di giustificarne qualunque derivazione in termini sia di quantità che di natura della proprietà. Questa linea di fondazione, da ultimo, si colora di grottesco nelle sue declinazioni dei c.d. anarcocapitalisti, Block, Rothbard, & Co.