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Cina, prima gli affari e poi il clima

di Manuela Cartosio - 06/09/2007

 

Da giovedì a domenica si tiene a Sydney l'annuale vertice dell'Apec (l'organizzazione economica Asia-Pacifico che conta 21 paesi membri, dai pesi massimi Cina, Russia, Usa al peso piuma Papua Nuova Guinea). In cima all'agenda, recitano le agenzie, come contrastare i cambiamenti climatici. Un obiettivo che assomiglia a un ossimoro: a Sydney, infatti, si ritrovano almeno tre paesi (Usa, Australia e Cina) indisponibili ad accettare tagli vincolanti alle emissioni di gas serra. Dobbiamo ancora crescere, dice la Cina, esonerata in quanto paese in via di sviluppo dal Protocollo di Kyoto (che scade nel 2012). Finché Pechino non taglierà, replicano Usa e Australia, non taglieremo neppure noi. Da Sydney, bene che vada, potrebbe uscire una posizione comune «al ribasso» da portare al vertice di Bali, dove si discuterà del dopo Kyoto.
Un ribasso che non piace ovviamente alle associazioni ambientaliste, consapevoli che il tempo stringe, anzi è già scaduto. Ieri a Sydney il Wwf ha diffuso un rapporto sul carbone, responsabile di un quarto delle emissioni carboniche totali. Dal 2001 al 2006 l'utilizzo del carbone nel mondo è aumentato del 30%, un balzo senza precedenti che mina e vanifica gli sforzi per ridurre l'emissione di gas serra. Un buon 90% dell'incremento nell'uso del carbone è avvenuto in Asia, con la Cina a fare la parte del leone (due terzi dell'energia consumata nel «Paese di mezzo» deriva dal carbone). Da qui al 2030 la crescita economica di Cina e India, prevede la Iea (l'associazione internazionale dell'energia), inciderà per il 70% sull'aumento globale dell'utilizzo del carbone. Sempre entro il 2030 le emissioni carboniche globali aumenteranno del 63%. Una percentuale micidiale, visto che solo per addolcire i cambiamenti climatici sarebbe necessario dimezzare l'emissione di gas serra entro il 2050.
La ricetta del Wwf è nota: ridurre il ricorso alle fonti energetiche fossili e, se proprio del carbone non si può fare a meno, impiegare le tecnologie per «catturarne» le emissioni inquinanti.
Da oltre un decennio il bisogno di assicurarsi fonti energetiche e materie prime detta la politica estera di Pechino. Ne è una riprova la missione del presidente Hu Jintao in Australia. Accompagnato da una folta delegazione, è arrivato con ampio anticipo sui «colleghi» dell'Apec. Ha fatto tappa nella regione occidentale dell'Australia, la più ricca di minerali, e ha messo in cascina fruttuosi accordi. Quello tra Petro-China e Shell garantirà a Pechino per vent'anni la fornitura di un milione di tonnellate di gas naturale l'anno. Un altro accordo tra Sino Steel, Rio Tinto e Shell dà avvio a un vasto progetto di estrazione di gas naurale. Hu, in una cena ufficiale, ha definito l'Australia occidentale «un'importante base energetica per la Cina». Non solo energetica, perché da lì partono ogni anno alla volta della Cina milioni di tonnellate di nickel, di minerali ferrosi e di altri materiali necessari per produrre l'acciaio. Per un valore, l'anno scorso, di 11 miliardi di dollari. La domanda cinese ha fatto scendere a zero la disoccupazione nell'Australia occidentale. La Cina, sul banco degli imputati per il global warming, oscilla tra reazioni a muso duro - «noi inquiniamo solo da trent'anni, l'Occidente da due secoli» - e promesse di convertirsi alle fonti energetiche pulite e rinnovabili. Ieri, in singolare coincidenza con il vertice di Sydney, il vicedirettore della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme ha annunciato che saranno investiti 265 miliardi di dollari da qui al 2020 per abbattere l'inquinamento e portare al 15% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Chi ci metterà questa valanga di soldi? «Ci aspettiamo che per la gran parte, il 90%, lo facciano le aziende», ha risposto il vicedirettore.
Intanto, in vista delle Olimpiadi, fervono le campagne per dare una mano di verde all'immagine della Cina. L'ultima ha chiuso o sospeso le attività in 649 fabbriche che inquinavano i fiumi.