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Perché distruggere un embrione “prevalentemente umano” se è utile?

di m.c. - 07/09/2007

“Prevalentemente umano”. Con

la decisione dell’Hfea (l’Autorità britannica

per la fertilizzazione e l’embriologia

umana) di autorizzare la ricerca su organismi

ibridi uomo-animale, entra nel dibattito

scientifico – ma di diritto, e ancor più, in

quello bioetico – un problema di difficile, o

forse mostruosa, definizione teorica: che

cosa significa organismo “prevalentemente

umano”? Il solo porsi della questione non

indica che la scienza ha brutalmente superato

un limite finora mantenuto, almeno

nominalmente? “Quello cui siamo di fronte

è un caso conclamato di violazione dell’identità

umana”, risponde il professor Francesco

D’Agostino, ordinario di Filosofia del

diritto a Roma e presidente onorario del

Comitato nazionale di bioetica. “Qualunque

intervento su un embrione umano determina

un’alterazione dell’identità umana,

dell’essere umano come tale, che è l’unica

cosa su cui tutti – atei o cattolici, agnostici,

scienziati o normali cittadini – dobbiamo

essere d’accordo, perché è ciò che abbiamo

in comune. E che dobbiamo considerare

come assolutamente inalterabile, altrimenti

consegnamo l’identità umana stessa al

potere di manipolazione della scienza”.

Il punto non è solo di criticare l’utilità

scientifica e terapeutica di questa sperimentazione,

come ha fatto ieri sul Foglio il

professor Angelo Vescovi, ragiona D’Agostino:

il fatto stesso che ci sia da discutere

sul concetto di “identità” dimostra la gravità

del problema. “Questo è anche un caso

esemplare, in quanto chiarisce per quale

motivo è nata la bioetica: perché gli scienziati

vanno avanti con la loro beata inconsapevolezza,

e ogni volta che si è di fronte a

una nuova scoperta scientifica è come se

ciò che è stato posto in precedenza dalla

bioetica, dalla filosofia venisse azzerato”.

Infatti, anche sulle “chimere” c’è chi sostiene

che occorra lasciare le briglia sciolte

alla scienza. Lo si può dire elegantemente,

come ha fatto la rivista Lancet: “E’

essenziale che gli scienziati educhino essi

stessi il pubblico”; oppure nel modo sbrigativo,

ma diffuso a livello comune, di Vittorio

Feltri, che ha bollato di “fantasia disturbata

da bigottismi” che “non ha titoli

per essere un impedimento” la posizione di

chi pone domande etiche alla scienza. Non

è così, risponde D’Agostino: “Lo stesso fatto

che gli organismi prodotti verranno distrutti

dopo quattordici giorni indica che

l’Hfea e gli stessi scienziati sono perfettamente

consapevoli della mostruosità. Se

non ci fosse ‘niente di male’, perché distruggerli?”.

Gli scienziati e i fautori delle

“chimere” sostengono che si tratti solo di

uno studio a scopo terapeutico. “Invece no.

La terapia non c’entra. Qui siamo di fronte

a una ricerca di tipo palesemente eugenetico:

non curare, ma costruire una specie

umana migliore. Dunque con un’identità

diversa, modificata. Per ora, si dice, è solo

sperimentazione. Ma una volta accettata la

manipolabilità, il problema è la sua ricaduta

nella pratica sociale. Che riguarderà

tutti, perché metterà in gioco l’identità degli

esseri umani anche in quanto ‘uguali’.

Perché in futuro alcuni uomini, quelli che

potranno permettersi questa tecno-scienza,

potranno dire: ‘noi siamo geneticamente diversi

dagli altri’. Ma questa è una prospettiva

eugenetica, non certo terapeutica”.

Un ribaltamento grave, secondo D’Agostino,

anche perché “questo è anche un caso

conclamato del fatto che oggi viene difesa

di più l’identità dell’animale che quella

dell’uomo: nel 2009 nell’Ue entrerà in vigore

una direttiva che vieta ogni sperimentazione

sugli animali. Ma non esiste un divieto

analogo per l’embrione umano”. Inoltre,

se si accetta non solo che l’embrione è materia

manipolabile, ma che il genoma umano

può essere modificato, allora in futuro si

potrebbe scambiare il patrimonio genetico

tra uomo e donna, ibridare un androgino. E

sarebbe ancora il concetto di identità umana

a essere violato.