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Home / Articoli / La vita come apertura e come dono a un radicale progetto di fedeltà all'essere

La vita come apertura e come dono a un radicale progetto di fedeltà all'essere

di Francesco Lamendola - 07/09/2007

 

  

      Si dice che Rabbi Zousia, un umile ebreo qualsiasi, amasse raccontare questo brevissimo apologo: «Quando mi presenterò davanti al tribunale celeste, non mi si chiederà perché non sono stato Abramo, Goiacobbe o Mosé; mi sarà domandato perché non sono stato Zousia». E la teologa Emmanuelle-Marie commenta in proposito: «Ogni uomo incarna un volto di Dio, ed è una sua immagine unica»: come dire che l'infedeltà verso se stessi, il nascondimento, la calcolata mancanza di verità e autenticità coincidono con il tradimento verso noi sessi e verso il progetto superiore che noi, appunto, incarniamo.

Quando diciamo che per poterci scegliere dobbiamo essere in grado di riconoscerci e, quindi, di perseguire un disegno di assoluta lealtà verso noi stessi, non intendiamo sostenere che il nostro io deve essere sempre più ottusamente autocentrato, sempre più narcisisticamente innamorato di se steso, anche nei suoi aspetti negativi o deteriori. Al contrario: rifiutare la tentazione dell'inautenticità, gli allettamenti del calcolo e del nascondimento vuol dire realizzare quell'idea di noi stessi che costituisce il nostro progetto originario (Hillmann dice: la nostra "ghianda" destinata a germogliare) e che è, in definitiva, il senso profondo del nostro esserci, di questa condizione che è la vita terrena. Infatti al centro del nostro io finiremo per trovare qualche cosa che non è più il nostro io, qualche cosa d'altro, di infinitamente più ricco e universale: ciò che Jung chiamava il Sé, culmine del processo d'individuazione; ciò che la mistica indiana definisce il Brahaman rispetto all'Atman, ossia l'anima universale rispetto all'anima individuale; ciò che potremmo semplicemente definire l'Essere rispetto all'essere.

Ci piace riportare un bellissimo brano di Paolo Cattorini tratto da Valore della vita, qualità della vita, persona (nel volume Centri di bioetica in Italia Orientamenti a confronto, Fondazione Lanza-Gregoriana Libreria Editrice, 1993):

 

"La vita si offre all'uomo come un'emergenza di sensi, che egli avverte come propri, tali per cui in essi sembra andarne del suo stesso essere. Essi rimandano a qualcosa che ha da essere, qualcosa che vale, che ha valore. Il riconoscimento cui aspiro, l'incontro in cui sosto con piacere, l'ordine con cui amo ridisporre le cose, sono queste le 'passioni' che muovono e ispirano le 'azioni' dell'uomo, e da cui non posso prescindere quando cerco il senso unico del mio stesso vivere, senso che in quei sensi determinati, in quei desideri, diversamente viene a parola.

"La decisione morale non crea queste inclinazioni, ma piuttosto ne riconosce e ne verifica criticamente il valore e cerca le condizioni per il loro dispiegarsi coordinato. La libertà dell'uomo decide ultimamente di affidarsi ad un valore, ad un desiderio di vita buona senza peraltro possedere la certezza di produrne l'adempimento conclusivo. Quei desideri sono messaggi, indizi, che condurranno in regioni e ad opere che neppure io già da ora conosco, ma che sperimento come mie nel senso che è attraverso me e con me che espressioni, pensieri e opere verranno all'essere.

"Il desiderio dell'uomo avverte insomma l'invito, che la vita gli rivolge, di acconsentire al carattere promettente con cui essa gli si presenta, e di acconsentirvi senza poter prevedere o disporre del compimento determinato di quelle promesse.

"Il desiderio è appunto questo aprirsi ad altro, questo sentirsi fuori di sé, questo tendere inesausto verso un positivo di senso, dichiarando lo squilibrio radicale, in cui l'uomo è consegnato (longitudinalmente) alla speranza di un futuro, di una progressiva vittoria sul nonsenso; e in cui egli è rimandato (trasversalmente) al volto di altri, verso i quali sente debito, responsabilità, prossimità.

"La vita per l'uomo, la vita dell'uomo è perciò la trasparenza ad un desiderio, che si sa non esaudibile da progetti determinati e che per ciò spera in una radicale garanzia per le proprie fatiche, per il proprio continuo giocarsi e cioè aspira ad un'illimitata vita buona in cui finalmente dimorare.

"Intanto, all'uomo è chiesta, nell'invito che il desiderio gli rivolge, e nella mediazione simbolica di singoli atti e decisioni, una più generale decisione di disporre di sé nella forma del dono, dello spendersi per altro.

"Questa esposizione dell'uomo, questa sua scentratura nel desiderio, giustifica - lo ripetiamo - la persuasione che il comportamento umano sia debitore nei confronti di inclinazioni (pulsioni, affetti, sentimenti) che sono anteriori ad una presa di coscienza riflessa degli stessi. Perciò il discernimento operato a proposito dei desideri dell'uomo non li rende affatto accidentali: la determinazione ultima del contenuto materiale della norma non può infatti prescindere dal riferimento 'empirico' ai desideri dell'uomo.

"Viceversa non si dà autoconoscenza dell'uomo se non attraverso i suoi atti. L'opera (carica di vissuti e mossa da inclinazioni), lungi dal procedere ad una coscienza pratica già pria consapevole di sé, rivela l'operante a sé stesso."

 

È agendo, pertanto, e prendendo decisioni che l'essere s rivela a sé medesimo; ed essere radicalmente fedeli a sé stessi non significa altro che riconoscere il proprio io negli atti della propria vita, accettandoli e accogliendoli come il risultato di circostanze casuali ed estrinseche, ma come la manifestazione autentica del nostro vero essere e, in definitiva, della nostra chiamata originaria. E questa rivelazione di noi a noi stessi non si compie in qualche astratta regione metafisica, ma nel rapporto concreto con persone, fatti, situazioni che formano il disegno complessivo della nostra vita: che sarà tanto più autentica e tanto più fornita di senso quanto più persone, atti e situazioni con cui entriamo in relazione divengono scelta consapevole e responsabile e non episodi sporadici e frammentari dominati dal non-senso del capriccio e dell'improvvisazione.

Il nostro essere è paragonabile a quei blocchi di marmo che Michelangelo si recava ad esaminare nella cava e nei quali già vedeva- si dice - la scultura che intendeva realizzare, scegliendoli perciò di una determinata forma anziché di un'altra. È come se l'Essere vedesse in noi - informi blocchi di petra - quell'opera finita che dovrebbe essere la nostra vita, se noi accogliessimo il suo progetto e la sua chiamata, sforzandoci di realizzare, con senso di apertura e di dono, quella fedeltà in cui consiste il suo progetto originario. Essere fedeli a noi stessi coincide con l'essere fedeli a quel progetto originario, che noi siamo chiamarti a realizzare; quel progetto per cui ciascuno di noi è assolutamente unico e irripetibile, è persona nel senso più pieno e pregnante del termine e non cellula abbrutita e inconsapevole di una massa uniforme e intercambiabile.

Il concetto cristiano di peccato, allora, viene sostanzialmente a coincidere con il concetto di filosofico di infedeltà all'Essere: noi pecchiamo allorché, tradendo la chiamata originaria e il progetto che siamo invitati ad accogliere, deturpiamo il nostro io inseguendo false immagini di bene, basate su una narcisistica ricerca di felicità a dispetto dell'altro e di noi stessi. Ogni volta che noi tradiamo la lealtà dovuta a noi stessi e all'altro, ogni volta che -per volontà di dominio, per paura o per amore del quieto vivere - disconosciamo e rinneghiamo la nostra insopprimibile esigenza di autenticità, ci allontaniamo dall'essere e deturpiamo il nostro stesso volto, degradandoci al rango di essere mancato, di non-essere. Ogni qualvolta tradiamo la promessa fatta all'altro, la fedeltà dovuta all'altro e alla nostra verità profonda, ci infliggiamo con le nostre stesse mani il castigo più severo: l'allontanamento volontario dalla dimora accogliente dell'essere, l'auto-relegazione nell'inferno del rimorso, del senso di colpa, della vergogna, della sofferenza senza sollievo e senza redenzione.

L'ordine cosmico, in definitiva, e la giustizia che regola la vita dell'universo si reggono su quest'unico, fondamentale principio: la fedeltà all'essere che è in noi stessi, ma che, attuandosi attraverso la relazione con gli essenti, ci riconduce all'Essere in sé stesso, nostra origine e nostra ultima destinazione. A tale invito noi siamo liberi di opporre un rifiuto, altrimenti l'ordine non sarebbe tale: perché solo se nasce da una scelta volontaria della coscienza l'ordine complessivo può definirsi tale. Nondimeno, è certo che - fra gli infiniti mondi possibili, come li definiva il filosofo Leibniz - uno solo è il migliore di tutti: quello in cui ogni essente risponde alla chiamata dell'Essere, ne accoglie con gioia e con fedeltà il progetto, si sforza di realizzarlo - pur traverso difficoltà, turbamenti e cadute - in vista di un ritrovamento finale ove le aporie e le lacerazioni presenti cadranno come una benda dai nostri occhi, e non resteranno che la luce e la bellezza dell'Essere, puro come cristallo di rocca.