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Non è la fine, ma il primo capitolo della guerra in Iraq sta avviandosi alla conclusione

di Jonathan Freedland - 08/09/2007


L’abbandono del Basra Palace da parte dei britannici, i commenti del segretario alla Difesa Usa, e i colloqui di pace che stanno muovendo i primi passi sono tutti segnali rivelatori di cambiamento




Dio lo sa, non ha senso essere altro che pessimisti quando si tratta della guerra in Iraq. L’occupazione è tuttora sanguinosa e vana quanto l’invasione originaria è stata disonesta e gratuita. Si continua a uccidere e a morire, mentre ogni tregua è solo lieve e relativa. Quindi sarebbe una speranza ingenua vedere in una serie di mosse di questi ultimi giorni un qualcosa di chiaro come un passo avanti decisivo. Ma potremmo individuare almeno un cambiamento, il passaggio da una fase di questo terrificante conflitto a un’altra. Come disse Churchill dopo la vittoria a El Alamein nel 1942: "Ora questa non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. Ma è, forse, la fine dell’inizio".

Il primo indicatore - e il più significativo - è il ritiro, completato lunedì, delle forze britanniche nella base aerea di Bassora. Dei 45.000 soldati britannici coinvolti nell’invasione originaria, e nelle quattro province che un tempo erano sotto il diretto comando britannico, presto ce ne saranno solo 5.000, rintanati dietro le mura di un solo aeroporto. Questi soldati non vivranno più tra la gente a cui l’ambasciatore britannico presso le Nazioni Unite solo il mese scorso aveva promesso di portare “un Iraq stabile e democratico, in pace con se stesso e con i suoi vicini". Invece, staranno a distanza, promettendo di emerge solo "in extremis". E le cose dovranno diventare molto e”estreme” perché osino rientrare nuovamente a Bassora città.


Naturalmente, il governo minimizza il significato del ritiro, insistendo che si tratta semplicemente dell’attuazione di un piano messo a punto sette mesi fa da Tony Blair. L’obiettivo era sempre stato quello di fare un passo indietro, una volta che gli iracheni fossero stati pronti a fare un passo avanti, e quel punto, dicono i ministri, è stato raggiunto a Bassora. Parlano benissimo del generale iracheno responsabile, Mohan al-Firaji, ritenendo di avere messo la città in mani sicure.

"Guarda, non è “Dixon di Dock Green” [una popolare serie poliziesca trasmessa dalla televisione britannica fra il 1955 e il 1976, e ambientata in una stazione di polizia nell’East End di Londra NdT]", mi ha detto un ministro importante, ammettendo che la polizia irachena è piena di miliziani, ma adesso c’è una parvenza di ordine, sufficiente a giustificare il ritiro britannico”.


I ministri sono meno disponibili riguardo alla tempistica. Dopo tutto, gli eventi hanno formato una sequenza curiosa, nella quale la Gran Bretagna ha consegnato 26 detenuti, fra cui alcuni membri dell’Esercito del Mahdi fedele all’esponente religioso sciita Muqtada al-Sadr, proprio mentre al-Sadr annunciava una tregua di sei mesi la settimana scorsa. La Gran Bretagna è arrivata a un accordo, per garantire che i suoi soldati potessero ritirarsi senza impedimenti nelle prime ore di lunedì mattina? E i britannici hanno dovuto muoversi adesso, prima che qualunque patto con al-Sadr potesse disfarsi?


O forse il momento scelto è dovuto più all’ansia da parte dei britannici riguardo alla prossima mossa di Washington. La prossima settimana, George Bush consegnerà il suo rapporto sui progressi della guerra, sperando di avere la meglio su un Congresso in agitazione per un cambio di strategia, se non per un’uscita – agitazione che non farà che aumentare dopo il rapporto Usa di ieri sera, che bolla il governo iracheno come "disfunzionale". Dan Plesch, analista esperto della SOAS [School of Oriental and African Studies, prestigiosa facoltà dell’Università di Londra NdT] si chiede se Londra temeva che, se la Casa Bianca dovesse rimanere sulle proprie posizioni, persino annunciando un aumento della sua "surge" [la nuova strategia per l’Iraq basata sull’aumento delle truppe NdT], la rabbia sciita a Bassora sarebbe diventata incontenibile. Meglio muoversi adesso, mentre al-Sadr e compagni erano ancora in difficoltà.


Qualunque sia stato il calcolo, l’apparenza è abbastanza chiara: la presenza britannica in Iraq va gradualmente diminuendo. Questo è certamente il modo in cui la vede la stampa araba, bollando il trasferimento dal palazzo come una "sconfitta schiacciante". Gordon Brown parlerà al Parlamento in ottobre, senza dubbio definendo il ruolo britannico da ora in poi come limitato unicamente al "overwatch" [supervisione operativa, ruolo in cui le truppe straniere fanno da tutor alle forze irachene NdT], piuttosto che al coinvolgimento diretto. Si dice che i pianificatori delle forze armate britanniche stiano prendendo in considerazione una riduzione a 3.000 uomini per la rotazione delle truppe in primavera. Tutti i segnali puntano in una direzione: non verso un ritiro completo a breve, ma verso una presenza ridotta, simbolica, il cui obiettivo primario sarà quello di risparmiare agli americani l’ignominia dell’abbandono completo da parte del loro più stretto alleato.


Tuttavia ci sono segnali di un cambiamento anche negli Usa. Lunedì, durante una visita a sorpresa in Iraq, il Presidente Bush ha fatto un cenno preciso. Parlando nella provincia di al Anbar, dove i leader tribali sunniti si sono uniti agli Usa per respingere al-Qaida, ha detto: "Se il genere di successi che stiamo vedendo ora continuerà, sarà possibile mantenere lo stesso livello di sicurezza con un minor numero di forze americane".


L’obiettivo di questo potrebbe essere stato quello di togliere forza al Congresso prima dello scontro della settimana prossima: l’accenno di Bush a una riduzione delle truppe potrebbe benissimo essere sufficiente a placare alcuni Repubblicani che stanno vacillando. Qualunque sia il movente, la mossa di Bush indica che la Casa Bianca adesso capisce che la sua guerra in Iraq è disperatamente impopolare, e che il modo per accontentare gli americani è quello di prometterne meno.


Potrebbe essere questo il contesto in cui capire i commenti del segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, che ha fatto il blitz segreto di mezzanotte verso al Anbar assieme al suo capo. "Sono più ottimista di quanto non lo sia mai stato da quando ho assunto questo incarico", ha detto.

A prima vista, potrebbe sembrare una prova del fatto che Gates continua nell’atteggiamento di negare l’evidenza che caratterizzava il suo predecessore, Donald Rumsfeld – come se il trionfo modesto di avere comprato alcuni signori della guerra ad al Anbar avesse un peso maggiore di tutto il dolore e la distruzione in tutto il resto dell’Iraq. Ma Gates è più intelligente di così. Quando è stato scelto da Bush, faceva parte dell’Iraq Study Group di Baker-Hamilton, che ha dato una visione così fosca di tutta la catastrofe irachena. Era fra coloro che giudicarono la situazione "grave e in via di deterioramento", e raccomandarono la fine delle operazioni di combattimento Usa nel Paese. Il che significa che la definizione di ottimismo di Gates non sarà quella di Rumsfeld: quello che gli solleverebbe il morale non è una illusione di vittoria, ma un indizio che la fine è prossima.


L’ultimo di questi segnali di cambiamento è anche il più sorprendente. Questa settimana siamo venuti a sapere che, in una località della Finlandia che non è stata rivelata, 16 delegati di un gruppo di fazioni irachene in lotta fra loro si sono incontrati per discutere di pace – prendendo istruzioni, fra gli altri, da Martin McGuinness del Sinn Féin. McGuinness, assieme all’unionista seguace di Paisley [il reverendo Ian Paisley, leader del Democratic Unionist Party, partito estremista protestante, e attualmente alla guida del governo nordirlandese in carica dal maggio di quest’anno NdT] Jeffrey Donaldson, ha offerto ai rappresentanti sunniti e sciiti, fra i quali c’erano seguaci di al-Sadr, lezioni dell’esperienza dell’Irlanda del nord.

Ammetto che questa notizia ha suscitato in me un buonumore particolare: da molto tempo ritengo che il percorso dell’Irlanda del nord verso la pace dovrebbe diventare una delle maggiori esportazioni della Gran Bretagna, un modello di come anche i conflitti più intricati possano essere risolti. (In effetti, McGuinness aveva parlato a un incontro simile fra rappresentanti israeliani e palestinesi, convocato dal Guardian, nel 2002).


Ora, nessuno sta dicendo che la pace stia per scoppiare in Iraq. Quelli che piazzano le bombe collocate sul ciglio della strada e ordiscono i massacri nei mercati certamente non erano a quell’incontro finlandese. Parecchi di coloro che vi hanno partecipato provengono invece dai più addomesticati raggruppamenti parlamentari a Baghdad. Tuttavia, come la gente dell’Irlanda del nord sa meglio di chiunque altro, da qualche parte bisogna cominciare. Prima che Ian Paisley e Gerry Adams potessero stringersi la mano, hanno dovuto farlo John Hume e David Trimble.


Invece, la vera importanza di questi colloqui clandestini sta nel fatto stesso che siano avvenuti. Mostra che gli iracheni sono in grado di scorgere un orizzonte politico, un momento in cui l’occupazione sarà finita, e gli iracheni dovranno fare la loro pace. Quel momento non è adesso, ma, sembra, gli stessi aspiranti leader dell’Iraq riescono almeno a concepirlo.


Il cambiamento, quindi, non è dalla guerra alla pace, dall’occupazione alla ritirata. Ma sembra chiaro che il primo capitolo del conflitto iniziato nel 2003 sta avviandosi alla conclusione. Gli attori insistono che hanno piani per quello che succederà dopo – ma stanno, tutti, andando verso l’ignoto.


 The Guardian,

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)