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E' la donna, oggi, l'anello debole della catena

di Francesco Lamendola - 10/09/2007

 

  

Fra tutte le persone che conosciamo sono le donne, senza paragone, quelle con maggiori problemi psicologici. Crediamo che bisogni essere ciechi per non accorgersene; o che bisogni essere molto vigliacchi per non avere il coraggio di dirlo. Un malinteso senso di galanteria o, addirittura, di cripto-femminismo, vorrebbe che certe cose non si dicessero in pubblico; meglio lavare i panni sporchi in privato. Non sarebbe, come dire?, politicamente corretto. E invece no. Le donne, giustamente, hanno lottato per la parità dei diritti; quindi è giusto trattare questo problema esattamente come qualunque altro problema sociologico o antropologico.

Vi è un profondo malessere nella società occidentale contemporanea, e non dipende solo dal prevalere dell'avere sull'essere, dell'agire sul riflettere, del manipolare sul contemplare. Non dipende solo dal disastro ambientale, dal senso di insicurezza diffusa, dalla consapevolezza della estrema fragilità della nostra economia sempre più virtuale (estranea, cioè, alla produzione di beni e servizi reali), dalla minaccia del terrorismo e così via. Dipende, in larga misura, dallo squilibrio che si è creato nei rapporti fra i due sessi, dalla nevrosi che devasta e inquina le relazioni tra uomo e donna, e in cui la donna è, oggi, l'anello debole della catena. La sua insicurezza, la sua ansia, la sua infelicità si ripercuotono nella coppia e nella famiglia e investono pesantemente figli, mariti, amanti, genitori, amici, colleghi di lavoro. L'angelo del focolare ha perduto le ali e annaspa in una quotidianità che non la appaga e che le richiede uno sforzo sempre più grande di surmenage, di recita, di inautenticità; e, per conseguenza, di frustrazione e disperazione.

Non si tratta solo del doppio o triplo lavoro da quando, oltre alla famiglia e alla casa, ella ha dovuto accollarsi anche il peso di un'attività lavorativa che le ha sottratto gli ultimi spazi di vita privata, di serenità, di autonomia (e non si confonda l'autonomia economica con quella psicologica ed esistenziale: sono due cose diversissime!). Se fosse "solo" questo (solo per modo di dire), non vi sarebbe niente di nuovo rispetto agli ultimi centocinquant'anni; compreso il fatto che questa triplice responsabilità, di fatto ingestibile da un singolo essere umano, ha finito per riversarsi in parte non trascurabile su altre figure sociali: a cominciare dai nonni, reclutati a forza nella categoria dei bay-sitter non remunerati(anzi, quasi quasi - si dice -  dovrebbero ringraziare figli, nuore e generi: come farebbero, altrimenti, a passare le loro lunghe giornate?). No, non è solo questo. C'è un fattore relativamente recente, che negli ultimi anni ha condotto oltre il livello di guardia una situazione già difficile da gestire sul piano dell'organizzazione dei tempi e degli spazi familiari e soprattutto del sovraffaticamento fisico e mentale. C'è un altro elemento che sta portando la donna sempre più verso il margine del precipizio, rendendo l'atmosfera delle famiglie, delle scuole, dei luoghi di lavoro satura di elettricità, sempre più tesa e irrespirabile. Intendiamo parlare dell'obbligo, per la donna, di essere sempre e comunque seduttiva, ultrasexy, conturbante: a tutte le ore del giorno e della notte, in ogni periodo della vita, gravidanza compresa. Perfino le donne incinte all'ottavo mese si sentono in obbligo di essere provocatoriamente affascinanti, come le modelle da calendario dei camionisti. Devono scoprire il pancione e fare in modo da essere sessualmente irresistibili anche in quello stato: se ci riescono, la partita sarà vinta per sempre, non vi saranno più limiti a quanto possono far impazzire gli uomini sul piano dell'eccitazione sensuale.

Stesso discorso per le quarantenni, le cinquantenni, le sessantenni: devono far concorrenza alle figlie e alle nipoti, devono far girare la testa al maschio più di quanto sappiano fare le ragazzine: e, pur di riuscirci (o tentare i riuscirci) non esitano a sottoporsi a ore e ore di palestra settimanale, di lampade abbronzanti, di sedute dall'estetista, dal parrucchiere, nonché - se necessario - di interventi chirurgici per rifarsi il seno, il fondo schiena, la pancia, il collo, il mento, le guance, il naso. E tutto questo stress si aggiunge inesorabilmente a quello legato al ruolo sociale di lavoratrici (più o meno in carriera), madri, mogli, nonne e tutto il resto. La fortezza della propria seduttività dev'essere presidiata ventiquattr'ore al giorno per sette giorni alla settimana e trecentosessantacinque giorni l'anno; guai a lasciare un angolino indifeso, guai a lasciarsi sorprendere con la messa in piega fuori posto al supermercato, o con le occhiaie in ufficio.

Perché lo sguardo che le donne veramente temono, oggi più che mai, è quello delle altre donne: impensabile permettere che la vicina di casa le veda coi capelli in disordine o che la mamma del compagno di scuola del proprio figlio si accorga che il rossetto non è stato dato in maniera scientifica. Sarebbe ingenuo pensare che tutta questa smania di seduzione a trecentossanta gradi sia rivolta ai signori uomini: no, essi non sono che il destinatario apparente di tanti sforzi e di tantoi sacrifici. Le vere destinatarie sono le altre donne: per farle crepare d'invidia; per apparire più giovani, più belle, più desiderabili di loro; per mostrare loro che non temono rivali e che sarebbero capaci di soffiargli l'uomo come e quando vogliono, se solo lo volessero. Fin dai banchi di scuola delle elementari, lo sport preferito delle bambine è di allearsi contro qualcuna di loro, per parlarne male, per umiliarla, per emarginarla, per farla sentire più brutta, più goffa, più stupida, più indesiderabile; ma, in realtà, per far fuori una dopo l'altra le potenziali rivali e arrivare sole al traguardo, come al Grande Fratello o sull'Isola dei famosi. Alle medie e alle superiori, poi, peggio ancora. "Quella stronza si crede forse più bella di me?, devo fargliela pagare": e via con le alleanze, con i tiri incrociati, con le maldicenze a mezza bocca, con le insinuazioni demolitrici.

 

Ci si chiederà perché siamo arrivati a questo punto, perché le donne hanno fatto propria una simile filosofia di vita che vede ovunque competizione, rivalità, lotta per sopraffarsi con ogni mezzo e in cui il maschio, sempre più spaesato (e svirilizzato) ci sta come i cavoli a merenda: cioè viene sempre più relegato alla funzione di mero pretesto per lo sfoggio esasperato della seduttività femminile, ma non ne è il vero obiettivo. Qualunque psicoterapeuta - crediamo -  potrà confermare, per inciso, che un numero crescente di donne prova piacere mentale e, a volte, fisico (giungendo fino all'orgasmo) non nel darsi, ma nel rifiutarsi al desiderio del maschio, beninteso dopo averlo provocato e sovreccitato in ogni modo (cfr., sul piano letterario, il romanzo La donna e il burattino di Pierre Loüys).

Già, come è stato possibile arrivare a un tale grado di comportamenti compulsivi, nevrotici, a un tale oblio della propria autenticità? È proprio vero che è tutta colpa del maschio, del marito che, quando la moglie ha quarant'anni, guarda le ventenni; del datore di lavoro che assume e coccola le dipendenti sexy e provocanti; perfino dei bambini dell'asilo, che desiderano la maestra giovane e carina e rifiutano quella anzianotta e poco curata nel trucco e nel vestire? Che, insomma, le donne, oggi, sono letteralmente obbligate ad adottare una tale strategia della seduzione all'ultimo sangue, come se fossero state gettate in trincea, in una guerra da loro non dichiarata e non voluta, ma alla quale hanno dovuto adattarsi per sopravvivere ed evitare, per quanto possibile, di finire stritolate? Che, insomma, esse sono in tutto e per tutto delle vittime; vittime di una situazione che non dipende da loro e che si è creata loro malgrado, mettendo in crisi i collaudati vincoli della solidarietà femminile?

In queste spiegazioni vi è certamente qualche cosa d vero; ma, purtroppo, non tutto. Pensare diversamente e dare tutta la colpa al sesso maschile (o quel che ne resta: cioè non molto) lusingherebbe entrambi: gli uomini godrebbero al pensiero del loro potere, le donne si sentirebbero assolte dalla responsabilità degli aspetti più discutibili del post-femminismo. La verità è che gli uomini non sono così potenti né le donne così innocenti come sia gli uni che le altre vorrebbero credere e far credere. Il fatto è che le donne, nella psicosi da seduttività esasperata, hanno trovato come punto d'appoggio un aspetto latente della loro personalità, e ad esso sono state ben felici di sacrificare gli attributi tradizionali del loro ruolo psicologico: il senso del pudore e della riservatezza; la dolcezza che ispira desiderio di protezione; l'arrendevolezza che non nasce dalla debolezza ma da una saggezza collaudata in millenni di coesistenza con l'altro sesso. Intendiamoci: il sesso forte è sempre stato quello femminile, su questo non vi sono dubbi. Ma le donne delle società pre-moderne hanno saputo armonizzare la consapevolezza della propria forza con la saggezza di lasciar credere agli uomini l'esatto contrario. Ciò le ha appagate per millenni, e per millenni ha appagato anche l'uomo.

Ma oggi? È chiaro che la battaglia ingaggiata dalle donne per essere sempre e comunque vincenti sul piano strettamente sessuale è una battaglia persa in partenza: come tutte  le battaglie scatenate dalla mentalità consumistica, si risolve in un'eterna corsa alla produzione e al consumo, in un circolo chiuso da cui non v'è uscita né redenzione. Ed è altrettanto chiaro che l'uomo, in questa battaglia, è destinato ad uscire a pezzi: distrutta l'immagine della propria forza, della propria virilità, costretto nel ruolo umiliante di semplice catalizzatore della libido femminile che non è più diretta alla conquista e al possesso, ma alla seduzione e all'immediato rifiuto (il sublime piacere del rifiuto!) o, nel migliore dei casi, all'usa-e-getta, come una lattina di birra o una scatola di pomodori pelati.

La donna, però, non è destinata a uscirne meglio. Sempre più costretta a puntare sulle cose e sull'apparire per trovare conferma negli altri alla propria irresistibile bellezza, è condannata a scendere sempre più in basso nella sua stessa autostima. Se, infatti, volersi bene nasce dal piacersi (non dal piacere agli altri), dall'accettarsi per quel che si è, dal riconoscersi e dallo scegliersi liberamente (e non perché così vuole la società dei consumi), saremmo portati a dire che, oggi, le donne si piacciono pochissimo e non  si vogliono affatto bene. Appena rientrate in casa, non vedono l'ora di gettar vie le scarpe coi tacchi a spillo che hanno torturtato per ore le loro caviglie; di levarsi il trucco che, col caldo e col sudore, ha impiastricciate loro il viso fino a renderlo simile alla maschera di un pagliaccio. No, non si divertono a vivere come vivono, a recitare eternamente la parte della femme fatale. Ma si sentono costrette a farlo. Perché? Ancora una volta, probabilmente la risposta l'ha data alcuni secoli fa Etienne De la Boëtie: agli esseri umani piace la servitù volontaria.

O, almeno, piace alla maggior parte di loro.

Quanto abbiamo fin qui detto, infatti, vale per i grandi numeri, ma non per tutte le donne. Ve ne sono ancora che si piacciono, che si vogliono bene, che hanno abbastanza autostima da non sentirsi obbligate a dimostrare sempre e in ogni luogo quanto sono sexy e sessualmente irresistibili. Che non accettano di buon grado il ruolo di donna-oggetto, cercando magari di guadagnarci su qualcosa (come tante belline e bellone della tivù, del cinema, dello spettacolo).

Inoltre, per la par condicio, promettiamo che in un'altra occasione diremo qualcosa anche a proposito della stupidità e della mancanza di autostima del sesso maschile. Ma un fatto, per noi, resta chiaro: è la donna, oggi, l'anello debole della catena. È lei che va soggetta a scoppi sempre più frequenti d'isterismo, a forme larvate o esplicite di depressione, che abusa degli psicofarmaci e del lettino dello psicanalista - quando non, semplicemente, del pacchetto delle sigarette e della bottiglia di vino o di super-alcolico. Lo fanno già le giovanissime, le minorenni. Qualche cosa vorrà pur dire, se abbiamo occhi per vedere e orecchi per udire, e una testa ancora in grado di riflettere.