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Il demone nascosto dell'infelicità femminile

di Francesco Lamendola - 10/09/2007

  

 

"Io ti rivedo sempre

fra tanta gente

che ti sfiora, che ha voglia di te.

Lungo le strade

dentro i bar dove aspetti sempre

ma tu non sai più chi.

Tu non volevi, tu

cercavi qualcosa

che non hai che nessuno ti dà.

Ora cammini sola

fra tanta gente

e non sai che io soffro per te."

 

Queste parole di una bellissima poesia di Luigi Tenco, Fra tanta gente (sì, abbiamo detto proprio poesia e non canzone: perché Tenco era un vero poeta, che scriveva poesie e poi le metteva in bella  musica) ci sono tornate alla mente allorché, l'altro giorno, abbiamo incontrato in un bar, tutta sola, Giovanna, che non vedevamo da parecchi anni. Il suo corpo testimoniava una metamorfosi totale: i suoi stupendi capelli biondi erano diventati una chioma color carota; i suoi abituali abiti lunghi avevano ceduto il posto a un vestitino-minigonna rosso-fuoco; ostentava arie da ragazzina, col suo casco e con lo scooter che mai aveva guidato prima. Ancora più impressionante la metamorfosi interiore: alla sua caratteristica capacità di ascolto era subentrata una chiacchiera logorroica; lo sguardo limpido e sincero era sparito dietro occhiate oblique ed ellittiche, che mai si posavano sull'interlocutore; parlava di una riconquistata libertà, ma in lei si intuiva facilmente una profonda inquietudine e una grande infelicità

E ci sono venute alla mente tante, tantissime altre figure femminili di amiche, conoscenti, tutte segnate dalla stessa inquietudine e dalla stessa infelicità; tutte ugualmente impegnate a mascherarne i segni dietro progetti di effimera rinascita, bruschi cambiamenti di look, interminabili monologhi che non significano assolutamente nulla, che eludono proprio l'essenziale. E ci è venuto in mente che gli esseri umani di quest'ultima generazione, e specialmente di sesso femminile, si comportano nei confronti del proprio malessere interiore  esattamente come fanno davanti al malessere fisico: mettendo a tacere i sintomi invece di ascoltarli; rivendicando spazi di una "libertà" puramente esteriore ed apparente, ma imprigionandosi sempre più nel labirinto delle mezze verità e delle mezze bugie; agitandosi e correndo qua e là in cerca di mille cose da fare, ma guardandosi bene dal fare l'unica cosa che potrebbe dar loro un po' di pace e di serenità: fermarsi, ascoltarsi dentro, rendere giustizia a quella verità profonda che hanno misconosciuta, disattesa e calpestata e che adesso grida e piange e si dispera al centro della loro anima.

Da Ibsen e, ancor più, da Strindberg in poi (e non è un caso che tale riflessione sia partita dai Paesi scandinavi, ove prima che altrove si sono messi in moto certi meccanismi sociali) è diventato quasi un luogo comune parlare dell'inquietudine femminile contemporanea. Poi del problema si sono impossessate le femministe, e tutto è parso chiaro: l'inquietudine femminile era un prodotto del maschilismo; abbattuto quest'ultimo, anche l'inquietudine sarebbe scomparsa e la donna sarebbe stata liberata. Invece così non è stato: e ora si fa finta che il problema non esista più, nessuno ne parla o, se si arrischia a farlo, ne parla solo in chiave personale, come se non fosse un problema universalmente diffuso nella società occidentale contemporanea, ma riguardasse questa o quella singola donna, a titolo puramente individuale. Perché le donne, nel complesso - si sa - sono felici: basta guardare quanto sono diventate più belle, più attive, più dinamiche delle loro mamme e delle loro nonne. Che cos'era una donna di quarant'anni, uno o due generazioni fa? Un ferrovecchio. E adesso: uno splendore. E che cos'era la vita limitata, soffocante della casalinga di un tempo, in confronto a quella della donna di oggi, sempre in movimento, sempre impegnata in qualche cosa, sempre protesa ad affermare il proprio ruolo nella società; e, magari, a far vedere che tante cose,  dalle quali era esclusa per una legge non scritta, ebbene sa farle, in realtà, meglio del maschio?

 

Sì, certo, questa è l'apparenza; ma bisogna avere la vista molto corta per fermarsi lì. Non è necessario possedere le virtù chiaroveggenti di Edgar Cayce o avere il dono della profezia come Nostradamus per accorgersi, appena si spinge lo sguardo un po' sotto la superficie, che le cose stanno un po' altrimenti. Dietro i corpi levigati e desiderabili, dietro i prodigi cosmetici e chirurgici, dietro i vestiti firmati e ultraseduttivi, dietro gli sguardi assassini da femme fatale, la donna, forse, non è mai stata tanto sofferente, tanto sola, tanto infelice e disperata come lo è oggi. E il ruolo di donna oggetto sempre perfettamente curata, sempre irresistibilmente seduttiva che, poco a poco, si è cucito addosso - a richiesta non tanto del maschio, quanto dell'immaginario collettivo evocato dalla pubblicità consumistica, dove ogni casalinga è sfidata a non sfigurare accanto a Michelle Hunziker o Aida Yespica - c'entrerà pure per qualcosa, se non c'inganniamo più di tanto. Ma, più ancora, c'entra un fondamentale peccato di omissione: quello di non essere veramente se stessa, di non lasciar emergere la sua verità profonda, riconoscendola lealmente e vedendo in essa non un ostacolo, ma una vocazione, una chiamata.

Nel giochino di sostituire l'apparire all'essere, sport preferito della post-modernità, ci siamo cascati tutti, uomini e donne (e conosciamo uomini del cui comportamento, come uomini appunto, ci vergognamo fino ad arrossire): ma le donne più degli uomini. Forse erano più esposte ai ricatti  e alla lusinghe degli stereotipi americaneggianti; forse erano, fin dall'inizio, l'anello debole della società, perché più gravate dal triplo ruolo di mogli, casalinghe e lavoratrici; forse quegli stereotipi, nel clima di generale omologazione della società di massa (che è, per inciso, l'esatto contrario di una società libera), hanno fatto breccia così facilmente perché trovavano una rispondenza nella natura profonda della donna: che è quella di sentirsi desiderabile sempre e ad ogni costo. Sia come sia, il risultato è stato impressionante: aumento vertiginoso delle donne alcoliste, depresse, dipendenti da dosi sempre crescenti di psicofarmaci o dalle sedute psicanalitiche; crisi del ruolo di madre dovuto a una crescente difficoltà di gestire i figli, specialmente nell'età evolutiva; crisi col maschio nel rapporto di coppia e crescita esponenziale delle separazioni, dei divorzi, della ricerca sempre più affannosa del compagno ideale, magari di vent'anni più giovane, del principe azzurro che le faccia sentire perpetuamente in vacanza e perpetuamente col coltello dalla parte del manico: se cominci a russare la notte, se non mi tributi i doverosi omaggi e le quotidiane attenzioni, ti dò il benservito e me ne cerco un altro, possibilmente più giovane, sempre più giovane. Un compagno-amante-bambino che si possa gestire come un figlio, anzi meglio di un figlio: perché un figlio, anche quando non ne puoi più delle sue bizze, te lo devi tenere ugualmente, mentre il baby fidanzato lo puoi scaricare in qualsiasi momento, e buon pro gli faccia…

Ecco, forse la radice del problema è proprio qui, nel rifiuto della donna odierna di essere veramente se stessa, nel dover-voler essere conturbante come Marylin Monroe, eternamente giovane come Miss Italia e, soprattutto, spensierata e felice come le ragazze della pubblicità. Già, ma cosa c'è di male nel voler essere felici? Assolutamente nulla: solo che bisogna vedere in che cosa si ripone il proprio progetto di felicità. La felicità è uno stato individuale, non esistono regole standard del tipo: "Come ringiovanire di vent'anni, trovarsi un compagno e un lavoro molto più soddisfacenti e ricominciare a vivere in trentacinque minuti". Non esistono scorciatoie e non esistono piccole o grandi furberie per accorciare i tempi, per giungervi con poco sforzo, per arrivare prima ancora di essersi messi in cammino. E verso dove, poi? Verso il Paradiso degli imbecilli e degli alienati con i quali gli stereotipi consumisti ci martellano duecento volte al giorno, mostrandoci famigliole ultrafelci dove i mulini sono sempre bianchi, i figli sempre carini e obbedienti, i mariti sempre snelli e premurosi e le donne sempre bellissime, spensierate, allegre e sicure di sé? Dove sembra che basti vestire l'ultimo capo firmato, ostentare l'ultimo grido della moda per far crepare d'invidia tutte le amiche e le colleghe e, pertanto, sentirsi felici e appagate come non mai?

Bisogna pur dirlo, anche se - oggi - questo discorso non piace: lunga e faticosa è la strada verso l'equilibrio interiore, verso l'arte di apprezzare la vita, anche e soprattutto nelle piccole cose che essa continuamente ci offre. Nessuna scorciatoia, nessuna autostrada ci può condurre alla meta presto e senza sforzo. No, occorre cadere più volte e sbucciarsi le ginocchia; occorre essere disposti a pagare di persona, non col portafoglio, ma con lacrime vere e vero sangue; occorre accettare i momenti di oscurità, di sconforto, quando sembra che uomini e dei ci abbiamo abbandonati al nostro destino di dolore e solitudine. Occorre, soprattutto, aver chiara la destinazione: che è la lealtà verso se stessi. Questa deve essere la motivazione profonda, questa la stella polare lungo il cammino, questa la carica per affrontare le incertezze e i turbamenti della vita, le delusioni, le amarezze, le incomprensioni. Questa, fondamentalmente, la nostra vocazione, la nostra chiamata: sempre e ancora quella del buon vecchio Socrate e dell'oracolo di Delfi: conosci te stesso.

Tutto il resto, felicità compresa, ci verrà dato per premio. Proprio quando avremo smesso di porlo al centro del nostro affannoso agitarci; proprio quando avremo imparato che la felicità è la conseguenza di un fondamentale atto di coraggio: infischiarcene di ciò che il mondo pensa di noi e metterci sotto i piedi il nostro stesso puerile bisogno di rassicurazione, di approvazione, di gratificazione da parte degli altri. Il nostro valore non si misura sugli sguardi pornografici che l'altro sesso ci sbava addosso: questo dovrebbero capire le donne intelligenti. E ce ne sono, sicuramente. Le altre, che la smettano di preoccuparsi in maniera ossessiva di essere più affascinanti della vicina; di vedere in tutte le altre donne, persino nelle figlie e nelle madri, delle rivali sempre pronte a farle fuori; e che la smettano di inseguire l'ammirazione volgare della fetta più stupida del genere maschile, fatta di mezzi-uomini che nascondono le loro tendenze omosessuali dietro le apparenze seducenti di un Rodolfo Valentino.

Che imparino a stare da sole, se occorre; a non vergognarsi di sé; a pretendere dall'altro la stessa lealtà che devono esigere da sé stesse. Allora potranno forgiare gli strumenti per una autentica liberazione; allora creeranno le premesse per un cambiamento il cui premio, che giungerà gratis, sarà qualcosa di simile a ciò che comunemente vien chiamata la felicità. O che forse, più modestamente ma più realisticamente, si dovrebbe chiamare la pace dell'anima.