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Quel fiume di armi dagli Stati Uniti ai paesi arabi

di Ezio Bonsignore* - 10/09/2007



Chiunque abbia una minima conoscenza del settore sa benissimo che molti degli accordi a livello governativo per la vendita di armamenti e altri materiali militari sono in realtà faccende squisitamente politiche, in cui almeno uno dei contraenti (e spesso tutti e due) vede l’accordo sopratutto come uno strumento per mirare a obiettivi strategici a lungo termine, la cui importanza trascende di gran lunga da un lato la necessità di soddisfare i bisogni operativi delle forze armate e dall’altro il desiderio di riportare in cassa almeno parte dei costi di sviluppo e industrializzazione.

Al contrario di quanto gli oppositori del commercio di prodotti per la difesa (alias ‘mercato di morte’) amano sostenere, capita ben raramente che degli interessi di tipo puramente industriale e finanziario siano il fattore principale per la conclusione di un contratto di questo tipo. La natura eminentemente politica delle vendite d’armi diventa anzi sempre più chiara e dominante, in parallelo con il crescere del valore finanziario dell’accordo, e si pone come il fattore assolumente prioritario nel caso di vendite in aree di crisi.

Ma anche con questo sfondo generale, i piani recentemente annunciate dall’amministrazione Usa per vendita di armamenti avanzati per uno straordinario valore totale di 63 miliardi di dollari a Israele, Egitto, Giordania, Arabia Saudita e le cinque monarchie del Golfo (Bahrain, Kuwait, Qatar, Oman e gli Eau) spicca come un qualcosa di assolutemente unico, non solo per le sue iperboliche dimensioni ma sopratutto perchè si tratta forse della vendita d’armi a più alto contenuto politico che si sia mai vista. Non siamo più a uno schema tradizionale, in cui le vendite d’armi vengono usate per appoggiare la politica americana in Medio Oriente; questo piano è di per sè tutta la politica americana in Medio Oriente, con la diplomazia in funzione di supporto di retroguardia invece del contrario.
Chi riceverà cosa è virtualmente irrilevante a livello politico (anche se naturalmente le persone in uniforme tenderanno a vedere le cose in modo ben diverso), e anche quella che a noi può sembrare una smisurata montagna di danaro è in realtà ben poca cosa se vista dalla Casa Bianca o dal Pentagono; ai livelli di spesa attuali, 63 miliardi di dollari coprono sì e no dieci mesi dei costi correnti per le operazioni in Iraq, acquisti di materiali non compresi. Quello che che invece conta davvero è l’obiettivo politico e strategico, che consiste essenzialmente nel tentativo di strappare la visione neocon di un Nuovo Medio Oriente dal pantano iracheno dove è rimasta intrappolata e rimetterla in marcia. L’approccio di base rimane quello da sempre praticato dall’amministrazione Bush e cioè la politica estera e la diplomazia basate sopratutto sull’uso (o la minaccia dell’uso) delle armi; con la differenza che alle armi nelle mani dei soldati americani, dovranno ora aggiungersi quelle vendute ad alleati e amici nella regione.

L’estrema importanza dell’obiettivo cui Washington mira è sottolineata dal fatto che l’amministrazione americana ha platealmente abbandonato uno dei precedenti punti chiave di tutta la sua politica in Medio Oriente: non permettere mai delle vendite di armi a paesi arabi, che potrebbero minacciare la superiorità militare di Israele. E lo stesso Israele, che di norma non lascia mai passare una sola vendita di materiali militari americani ai suoi vicini senza esprimere il suo allarme e la sua opposizione, e che in non pochi casi è riuscito a mobilitare la lobby filo-ebraica per far modificare, ritardare o cancellare del tutto la vendita, questa volta non ha nemmeno fiatato. Gerusalemme capisce perfettamente cosa Washington stia tentando di fare, e pur se forse non condivide tutti gli scopi della manovra americana, si rende conto che questo non è proprio il momento più adatto per piantare una grana. Il primo ministro Olmert si è così affrettato a dichiarare: “Comprendiamo la necessità americana di appoggiare i paesi arabi moderati”.

Al centro di tutto c’è, ovviamente, l’Iran. A torto o a ragione, Washington si è convinta che l’Iran rappresenti il principale ostacolo allo spiegamento della sua visione strategica globale per il Medio Oriente. In questo contesto, gonfiare i paesi arabi di armi moderne mira a due scopi: da un lato, rafforzare il potenziale militare di questi paesi contro una minaccia iraniana che i governi arabi forse percepiscono davvero o forse no, ma che in ogni caso diventerebbe ben concreta – nelle loro menti se non nella realtà – se gli Stati Uniti dovessero muoversi militarmente contro il regime degli Ayatollah; e dall’altro, far passare con forza il messaggio che gli Stati Uniti, nonostante il caos iracheno, sono e rimangono l’unica forza che garantisca la sopravvivenza delle varie monarchie tradizionali e pseudo-democrazie arabe. Questi scopi poi si combinano nell’assicurare che a loro volta i paesi riceventi continuino a garantire la tutela degli interessi americani nella ragione, e mantengano il loro appoggio alla politica americana verso l’Iran e le sue possibili evoluzioni future.
E’ anche facilmente possibile identificare un certo numero di scopi e obiettivi collaterali. Ad esempio, una chiara dimostrazione della piena disponibilità americana a fornire ai paesi arabi (ivi compresi quei paesi che sono ancora formalmente in guerra con Israele) tutti gli armamenti moderni che essi possono desiderare, sarà utilissima per impedire che questi paesi cedano alla tentazione di mettersi anch’essi sulla strada degli armamenti nucleari, cosa che altrimenti accadrebbe senza ombra di dubbio se per una ragione o per l’altra gli Usa non riuscissero a fermare il programma nucleare iraniano. Inoltre, la vera e propria valanga di sofisticate armi americane che sta per riversarsi sulle monarchie del Golfo, con tutto quello che ciò comporta sul piano politico e strategico, avrà il ‘benefico’ effetto di ridurre ulteriormente l’influenza europea nella regione, che è già al lumicino. Tanto per dirne una, sarà davvero interessante stare a vedere quanti dei grossi contratti per la vendita di armi europee all’Arabia Saudita, annunciati trionfalmente nel 2005-2006 ma mai firmati (a cominciare dall’ordine per i Typhoon) per ‘cause inesplicabili’, arriveranno davvero a maturazione. Anche le casseforti degli sceicchi del petrolio non sono proprio senza fondo…
Ma come tutte le manovre spregiudicate in zone di crisi, la nuova politica delle vendite d’armi americane in Medio Oriente comporta un non indifferente margine di rischio per possibili effetti controproducenti. Forse i più evidenti tra questi sono quelli legati alla vera e propria ossessione di Washington nell’identificare l’Iran come il principale nemico degli Stati Uniti in Medio Oriente e l’unico vero colpevole per l’umiliante fallimento in Iraq.

Che l’Iran sia davvero attivamente impegnato in “attività omicide” in Iraq, come il Presidente Bush ha sostenuto in un recente discorso, rientra nel novero del possibile. Quello che però è un fatto accertato è che l’Arabia Saudita ha fornito e continua a fornire un ampio appoggio, in termini sia di uomini che di denaro e materiali, agli insorti sunniti (particolarmente nella provincia occidentale di Anbar lungo il confine tra l’Arabia Saudita e l’Iraq) e che sul fronte opposto anche gli insorti e terroristi sciiti di origine straniera catturati o uccisi in Iraq risultano essere in grande maggioranza cittadini sauditi.
Ora, è sin troppo facilmente comprensibile come Washington abbia delle eccellenti ragioni per non voler porre Riyad di fronte alle sue responsabilità, almeno in questo momento. E’ altrettanto comprensibile come gli Stati Uniti intendano far leva sull’aspra rivalità tra sciiti e sunniti, e anzi cercare di fare tutto il possibile per rinfocolarla e renderla ancora più feroce, in modo da unire i paesi del Golfo in una specie di Santa Alleanza anti-sciita che continuerebbe a giustificare e approvare la presenza americana in Iraq, e si porrebbe solidamente a fianco degli Stati Uniti nella loro campagna contro l’Iran.

Ma a parte i ben noti rischi connessi con il giocare col fuoco, il problema di base in tutto questo schema è che le vere minaccie contro l’Egitto, l’Arabia Saudita e virtualmente tutti gli stati del Golfo non vengono da un Iran in fregola di supremazie regionali e nemmeno da un possibile futuro Iran nucleare bensì dal loro stesso interno. Sarebbe ben difficile citare un solo paese arabo nella regione che non si trovi a dover affrontare delle potenziali crisi interne di eccezionale gravità e alimentate da varie combinazioni di elementi esplosivi quali il fanatismo religioso, l’opposizione a dei regimi corrotti e dispotici o l’ostilità latente tra la piccola élite dominante dei cittadini originali e la massa di immigrati che sono spesso la maggioranza della popolazione ma continuano a essere trattati come servi della gleba.
Anche le armi più sofisticate e avanzate del mondo possono fare ben poco per sopprimere i sintomi negativi di queste difficoltà; di risolverle davvero non se ne parla proprio. E più i governi dei paesi arabi si sentono minacciati e si stringono agli Stati Uniti in cerca di protezione più cresce l’opposizione interna contro questi governi e le loro politiche. E in una perversa spirale, più gli Stati Uniti si impegnano ad assicurare la sopravvivenza di regimi e governi, che sono sempre più odiati e disprezzati dai loro stessi popoli, più diventa certo che ogni futura rivoluzione o campagna terroristica prenderà delle caratteristiche nettamente anti-americane e anti-occidentali, anche quando questo non è necessariamente dovuto a fattori ideologici o religiosi.

Ma la politica di vendite d’armi annunciata da Washington rischia di avere un altro risultato non proprio piacevole: e cioè che un futuro Osama bin Laden diventato davvero Califfo, o anche solo una versione araba di un Castro o un Chavez, si troverà pronto a disposizione un bellissimo arsenale di armi americane. Una specie di versione aggiornata del passaggio tra l’Iran dello Scià e quello degli Ayatollah, ma su scala ancora più vasta e molto più pericolosa.


Fonte originale: http://www.paginedidifesa.it/2007/bonsignore_070907.html
Si ringrazia "Pagine di Difesa" per la concessione di quest'articolo.

* Ezio Bonsignore è direttore di "Military Technology"