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Possiamo contare solo su noi stessi nel cammino verso l'oltre-uomo?

di Francesco Lamendola - 11/09/2007

 

  

 

In precedenti articoli abbiamo sostenuto - con Nitetzsche, ma anche con Aurobindo e Teilhard de Chardin - che l'uomo è qualcosa che deve essere superato, e che ciascuno di noi è chiamato a intraprendere questo cammino di oltrepassamento, a esplorare questa Terra necdum cognita e a costruire "cieli nuovi e nuove terre": non più guardando verso il basso, gravati dal peso della corporeità e dalle resistenze dell'ego, ma slanciandoci arditamente in volo come il nidiaceo che affronta ad ali spiegate la sfida del vuoto e la gioiosa avventura di scegliere sé stesso, realizzando la propria vera natura.

Quel che vogliamo domandarci ora è se, nell'intraprendere un tale non semplice cammino, dobbiamo contare unicamente sulle nostre forze o se non esista un aiuto capace di darci forza e coraggio ogni qual volta, spaventati e stanchi, saremo tentati di arretrare e di ridiscendere verso il basso, là dove il sol tace, come Dante allorché si vide incalzato dalle tre fiere sul pendio del dilettoso monte e risospinto nella selva oscura. E non sono poche le volte in cui la paura e lo scoraggiamento ci assalgono, e tanto più forte quanto più ci sembrava d'essere ormai vicini alla meta: perché più si riesce a salire e più aumenta il pericolo.

Prima di rispondere, o tentar di rispondere a un tale interrogativo, vogliamo riportare un brano dell'esploratore polare sir Ernest Shackleton (1874-1922) che nel 1916, per salvare se stesso e per portare soccorso ai suoi compagni rimasti intrappolati dai ghiacci nella banchisa antartica, sull'Isola Elephant, realizzò un'impresa incredibile e mai tentata prima da un essere umano. Dopo aver compiuto la traversata dello Stretto di Drake su una piccola imbarcazione scoperta, su cavalloni giganteschi e sotto le raffiche di vento gelato, ghiaccio e neve, traversò con due soli compagni le inesplorate montagne centrali della Georgia Australe fino a raggiungere la stazione baleniera di Gritvyken, il centro abitato più vicino ove chiedere aiuto e da dove organizzare i soccorsi per gli altri uomini che si trovavano in gravissimo pericolo.

 

"Quando ripenso a quei giorni non dubito che la Provvidenza ci abbia guidati non solo attraverso i nevai, ma anche attraverso il mare irrequieto che separa Elephant Island dal luogo del nostro approdo finale. So che durante quelle lunghe, estenuanti trentasei ore di marcia su montagne e ghiacciai senza nome, mi sembrò spesso che fossimo in quattro, e non in tre. Non ne parlai ai miei compagni, ma in seguito Worsley ebbe a dirmi: 'Sa, capo, avevo la strana sensazione che ci fosse un altro con noi', e Crean fece una confessione analoga. Si percepisce 'la povertà delle parole umane, la rozzezza della favella mortale' quando si cerca di descrivere realtà intangibili, ma la cronaca del nostro viaggio non sarebbe completa senza un riferimento a un tema tanto caro ai nostri cuori."

      SHACKLETON, Ernest, Ghiaccio, Milano, Rizzoli, 1999,  pp. 227.

 

Shackleton non era un sempliciotto né un credulone; era uno scienziato e un uomo ragionevole ed equilibrato. Chi ha letto tutto il suo diario sa anche che egli era estremamente sobrio nelle sue osservazioni e che annotava i fatti della spedizione con la massima oggettività e con il massimo distacco. Eppure egli sentiva che c'era un quarto compagno invisibile che camminava accanto a loro tre: e la stessa cosa avvertivano gli altri, anche se, sul momento, non ne parlarono affatto (quindi non possono essersi influenzati a vicenda). Sì, le parole umane sono inadeguate a esprimere certe verità: con buona pace di quei filosofi del linguaggio secondo i quali dovremmo limitarci ad esprimere quegli enunciati che possono essere sottoposti a una verifica di ordine strettamente logico, le cose più importanti e le esperienza significative della vita non possono venire espresse a parole. E non è necessario andare fino alle montagne della Georgia Australe per averne la conferma: basta chiederlo a una qualunque ragazzina che sia stata innamorata, a un bambino che abbia perduto la mamma, a due fratelli o due amici che si siano ritrovati dopo mille pericoli e mille difficoltà.

Questa sensazione di non essere soli, di avere qualcuno accanto, di avvertire una presenza amica che ci sostiene e ci aiuta nei diversi passaggi della vita non è poi così rara e l'hanno percepita innumerevoli esseri umani, delle più varie fedi religiose e delle più disparate opinioni circa il rapporto con l'altro mondo. Lo psichiatra americano M. Scott Peck, una bella figura di uomo e di studioso recentemente scomparso, ha scritto in proposito una pagina significativa, che - a nostro parere - andrebbe letta e riletta e profondamente meditata. Nel suo libro The road less traveled, ossia La strada meno frequentata, ma tradotto in italiano col titolo meno felice Voglia di bene (Milano, Frassinelli, 1985, pp. 223-233), egli ha tratteggiato la natura di questa misteriosa "presenza" in termini semplici e al tempo stesso efficaci, partendo dalla constatazione che la scienza non è in grado di render ragione di quelle misteriose coincidenze (lui dice "serendipicità", dal vocabolo inglese serendipity) che costellano la nostra vita e di cui anche Carl Gustav Jung si era occupato, trovandole altamente significative. Secondo Scott Peck, anche se noi non siamo in gradi di spiegarli razionalmente, esiste

 

"(…) una serie di fenomeni che hanno in comune le seguenti caratteristiche:

a) favoriscono - cioè aiutano, sostengono e proteggono la vita umana e la crescita spirituale.

b) Il loro meccanismo ci è solo parzialmente noto  (come nel caso della resistenza fisica o dei sogni) o del tutto oscuro (come nel caso dei fenomeni paranormali)secondo l'interpretazione che il pensiero scientifico moderno dà delle leggi naturali.

c) Sono frequenti, ricorrenti e comuni a tutta l'umanità.

d) Benché possano essere influenzati dalla coscienza umana, la loro origine è estranea alla volontà e ai processi decisionali consci.

"Sebbene questi fenomeni vengano in genere considerati come indipendenti l'uno dall'altro, certi loro aspetti comuni mi hanno indotto a pensare che facciano parte o siano manifestazioni di un unico fenomeno: una forza esterna alla nostra coscienza, che favorisce la nostra crescita spirituale. Per centinaia, anzi per migliaia d'anni, prima della concettualizzazione scientifica delle immunoglobuline, degli stati onirici e dell'inconscio, le uniche a riconoscere la presenza di questa forza sono state le religioni, che le hanno dato il none di grazia. E ne hanno cantato le lodi: «Stupefacente grazia! Com'è dolce il suono…».

"Ma come dobbiamo comportarci noi scettici nei confronti di questa forza che, come ho detto, «è esterna alla nostra coscienza e favorisce la nostra crescita spirituale?». Non possiamo toccarla. Non siano in grado di controllarla. Eppure essa esiste, è una realtà. Dobbiamo forse metterci i paraocchi, fingere di non accorgerci di lei,  semplicemente perché non si accorda con i tradizionali concetti scientifici? Mi sembra imprudente. Sono infatti convinto che sia impossibile sperare di comprendere a fondo la realtà del cosmo e del posto che l'uomo vi occupa senza incorporare la grazia nella nostra cornice concettuale.

"Noi tuttavia non siamo neppure in grado di localizzare questa forza. Sappiamo soltanto dove non è, è cioè nella nostra coscienza. (…) La nostra tendenza a pensare in termini di entità ci costringe a trovare una collocazione a tutto, persino a Dio e alla grazia, pur sapendo che in tal modo ci rendiamo più difficile la soluzione di molti problemi.

"Poiché i miei limiti intellettivi mi costringono a pensare (o a scrivere) in termini di entità, se mi sforzo di non pensare all'individuo come a un'entità arrivo a ipotizzare i confini dell'individuo come delimitati da una membrana permeabile - una siepe invece di un muro - attraverso, sopra e sotto la quale altre entità possono insinuarsi. Così come la nostra coscienza è parzialmente permeabile all'inconscio, quest'ultimo è a sua volta permeabile a una «mente» esterna, una «mente» che ci permea ma non è parte di noi. Ben più elegante ed efficace di questa moderna spiegazione scientifica è l'interpretazione del rapporto tra grazia ed entità individuale data nel quattordicesimo secolo (1393 circa) da Dame Julian, un anacoreta di Norwich: «Come il corpo è rivestito dagli abiti, la carne dalla pelle, le ossa dalla carne e il cuore dal tutto, così noi, anima e corpo, siamo rivestiti e avvolti dalla bontà di Dio. E mentre il nostro corpo si consuma fino alla dissoluzione, la Bontà di Dio rimane sempre intatta»."

 

La grazia, dunque - o, se così non vogliamo chiamarla, quella presenza misteriosa eppure certa ed evidente, che accompagna tanta parte della nostra vita (pur spesso non ne siamo del tutto consapevoli) - è l'aiuto su cui possiamo contare nel nostro impervio cammino verso ciò che sta oltre l'uomo terreno, verso l'uomo spirituale. Le religioni le danno noni differenti e si dividono perfino sul fatto di collocare questa 'forza' all'interno o all'esterno dell'uomo. Per le tre grandi religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo e islamismo - essa sarebbe all'esterno; per l'induismo e il buddhismo, viceversa (ammesso e non concesso che quest'ultimo sia una religione e non, primariamente, una filosofia scientifica e assolutamente laica, anzi perfino ateistica) sarebbe all'interno. Ma che senso ha parlare di esterno ed interno per qualche cosa in cui siamo immersi e che ci pervade da ogni lato, che è parte di noi o, meglio, della quale noi siamo una parte? Non è un po' puerile questo tentativo di localizzarla, di incasellarla, di etichettarla, magari di brevettarla e di pretenderne l'esclusiva?

 

Resta la domanda circa il perché noi dovremmo fare uno sforzo così grande come quello di metterci in cammino dall'uomo all'oltre-uomo, dall'uomo terrestre all'uomo spirituale. E, se questa forza misteriosa che abbiamo chiamato "grazia", ci viene donata senza che siamo noi a esercitare un controllo su di essa, perché questo dono? Che cosa si vuole da noi, quale sarebbe lo scopo e la destinazione del nostro tentativo di gettare un ponte al di là della condizione umana attuale, di superare tale condizione come dato puramente storico-biologico per trasformarla ontologicamente in una libera coscienza che si riconosce, si sceglie, si ama e vuol rientrare nella dimora ospitale dell'Essere?

La risposta, o il tentativo di risposta, a un tale interrogativo è inseparabile dal riconoscimento di quella  forza benefica di cui abbiamo detto, e che accompagna i nostri passi come una presenza quasi tangibile, specialmente nei frangenti più difficili. Essa ci sostiene affinché noi prendiamo coscienza della nostra reale natura e della nostra destinazione ultima, perché è essa stessa quella natura e quella destinazione. Noi siamo lei ed essa è noi: solo che non lo sappiamo e crediamo di essere tutt'altra cosa, di essere separati.

Cediamo ancora la parola a M. Scott Peck:

 

"Qual è l'origine della grazia? L'amore infatti appartiene alla coscienza, ma la grazia no. Da dove viene questa «forza che si origina oltre i confini della coscienza e favorisce la crescita spirituale degli esseri umani?».(…) Per spiegare i miracoli della grazia e dell'evoluzione noi supponiamo l'esistenza di un Dio che, amandoci, desidera la nostra crescita. A molti quest'ipotesi appare troppo semplicistica, addirittura ingenua e infantile. Ma non abbiamo molte alternative. Nessuno del resto è riuscito a formularne una migliore o anche semplicemente diversa. Siamo perciò costretti a scegliere fra l'ipotesi forse puerile di un Dio che ci ama e il vuoto teoretico.

"Se accettiamo questa ipotesi, scopriremo tuttavia che le sue implicazioni filosofiche sono tutt'altro che semplici.

"Se postuliamo che la nostra capacità d'amare, l'impulso  a crescere ed evolverci è un afflato divino ,non possiamo fare a meno di chiederci perché Dio voglia la nostra crescita. Qual è il fine di questa crescita? Qual è l'obbiettivo dell'evoluzione? Cosa può volere Dio da noi?(…) Tutti cloro che postulano l'esistenza di un Dio benevolo non possono che giungere a un'unica, terribile conclusione: Dio vuole che diventiamo Lui. La nostra crescita ha come fine ultimo la divinità. Dio è il fine ultimo dell'evoluzione. Dio è la fonte della forza che ci spinge a crescere e ne è al tempo stesso la meta. È infatti questo che diciamo quanto intendiamo che Dio è Alfa e Omega, il principio e la fine."

 

O, per dirla con la sapienza induista, Tat tvam asi, «tu sei Quello».

Non c'è da meravigliarsi che un tale pensiero riempia di sgomento anche l'essere umano più coraggioso. È un pensiero che fa tremar le vene e i polsi, come direbbe Dante. Prendersi sulle spalle il compito immane, infinito di diventare Dio, di riconoscersi in Lui, di innalzarsi alle Sue paurose, rarefatte altezze!

Eppure, tale pensiero può essere anche una fonte di inesauribile fiducia e di inestinguibile consolazione, specialmente nei terribili momenti di oscurità. Perché se noi siamo in Lui e siamo parte di Lui, allora non dobbiamo avere più paura di nulla. Tutto quello che ci capiterà sarà per il bene e nulla, proprio nulla, potrà farci del male, a patto che noi non ci separiamo da quella perenne sorgente di forza e non volgiamo le spalle alla nostra missione, tradendola e rinnegandola. Tutto quello che ci viene chiesto, in definitiva, è di rimanere fedeli a noi stessi, alla nostra verità profonda che è anelito di assoluto, perché così facendo rimarremo fedeli all'Essere e l'Essere non smetterà di sorreggerci, pervaderci, illuminarci la strada, sostenerci quando inciamperemo e aiutarci a rialzarci quando cadremo.

Perché sicuramente cadremo, e parecchie volte.

Ma non saremo soli. Come disse Shackleton, un silenzioso compagno di viaggio ci starà accanto: e, finché avvertiremo la sua presenza, tutto finirà per risolversi in bene.