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Che bugiardi e noiosi

di Gianfranco La Grassa - 11/09/2007

 

 

 

I media di regime sono oggi pieni delle “eroiche” parole di TPS: “massimo rigore; ma le tasse non aumenteranno”. Peccato che, fino a due settimane fa, esponenti di primo piano del futuro partito democratico, quali Rutelli e Veltroni (il capo in pectore), ma anche membri del Governo, affermavano che era ora di ridurre la pressione fiscale; e che ci si sarebbe accinti all’opera fin dalla prossima finanziaria. Adesso, semplicemente, “le tasse non aumenteranno”. Nemmeno a questo si può credere; basta pensare a quel che accadrà con l’ICI le cui aliquote non vengono fissate dal Governo, il quale attuerà il “massimo rigore” padoa-schioppesco semplicemente tagliando le risorse trasferite agli Enti locali. Alcuni – ma solo alcuni – sindaci promettono di abbassare l’ICI, ben sapendo però che verranno innalzati (addirittura raddoppiati o anche più) gli estimi catastali, quindi la base imponibile della “gabella”. Alla faccia delle riduzioni, che servono a prendere per i fondelli solo i gonzi. E vedrete che, tra “tocchi” e “ritocchi”, magari in direzioni contrastanti, alla fine anche altre aliquote fiscali, e la pressione in generale, verranno accresciute. Comunque, già è sufficiente al momento la “promessa” di non aumentarle per accusare questi governanti di mendacio; e anche di attitudine alla presa in giro.

 

I vari “Panebianco”, cioè gli intellettuali in servizio permanente attivo presso il Corriere, dunque dipendenti dalla RCS, in quanto vertice della grande finanza e dell’industria parassitaria italiana, stanno suonando la carica per un attacco “antidemocratico”. Non mi tange che si sputi su questo schifo di “democrazia” all’italiana, in cui tutti i posti di vertice sono occupati da “quelli dell’attuale regime”. Sono però contrario a che la “democrazia”, già ridotta al lumicino, venga ulteriormente intaccata da questi settori capitalistici che sono semplicemente tanti topi nel formaggio. Preferirei arrivasse una forza in grado di “asportare chirurgicamente” l’intero quadro politico italiano – con equanime atteggiamento verso destra e sinistra – onde dar vita ad una politica di “taglio delle unghie” a questi grifagni finanzieri e industriali dei cosiddetti “poteri forti”, divoratori delle risorse prodotte dal lavoro della popolazione italiana.

Di rincalzo ai “Panebianco” intervengono i “Giavazzi-Alesina” che – sostenendo che il liberalismo può essere meglio attuato “da sinistra” – fanno capire quale regime si voglia instaurare con simili attacchi “concentrici”: in definitiva, si pretenderebbe soltanto di rafforzare e blindare quello odierno, guidato dalla sinistra, di cui ho ricordato recentemente, e più volte, l’ampia somiglianza con quello brezneviano in URSS, fatta salva la differenza, di forma, tra proprietà “pubblica” (statale, non certo collettiva) e “privata”. In ogni caso, si tratta della dittatura di un blocco sociale, parassitario e incapace di sviluppo, costituito dall’alleanza tra grandi gruppi finanziario-industriali (le “cavallette”) e truppe cammellate del lavoro dipendente (si e no metà dello stesso) ancora sotto il controllo di apparati sindacali di Stato (con rappresentanza politica nel centrosinistra), che devastano il paese tanto quanto le sunnominate “cavallette”. Almeno la metà del lavoro salariato e tutti gli strati bassi di quello “autonomo” sarebbero ancor più oppressi e “sfruttati” da tale blocco sociale, che ha già fatto fallimento in ogni altro paese; proprio in Italia dovrebbe attecchire più ancora di adesso? Ne dubito assai.

Di fronte a tale prospettiva, è comunque sconsolante la reazione degli “economisti” della “sinistra estrema”, magari “marxisti”. Si contesta a Giavazzi ecc. che si possa coniugare sinistra e liberalismo; la sinistra sarebbe per il primato del “pubblico”, che in realtà, in tutta l’esperienza storica dei “socialismi” (e non mi riferisco solo a quelli controllati da un partito unico denominato, sbagliando, comunista), è stato soltanto una serie di variazioni sul tema del lassalliano statalismo.

 

In realtà, dunque, il liber(al)ismo dei “Giavazzi-Alesina” sembra, ma soltanto sembra, opposto allo statalismo “sovietico”, mentre esprime invece qualcosa di equivalente (non di eguale; è chiara la differenza?) in termini di “dittatura” di dati blocchi sociali. I dominanti, nel blocco sociale preminente in URSS, erano gli ottusi “uomini di apparato” (di Stato) brezneviani; i dominanti, nel blocco sociale preminente in Italia, sono i proprietari privati (finanzieri e industriali) della GFeID. In entrambi i casi, al di là della differenza nella forma della proprietà, si tratta di dominanti sanguisughe e di gruppi di lavoratori che – in quanto succubi di corrotti dirigenti “pagati” dai precedenti – assumono anch’essi una funzione di contrasto sempre più netto con gli interessi generali del sistema-paese. Gli ideologi dei “dominanti di Stato” erano dei “comunisti” apparentemente marxisti e realmente lassalliani; quelli dei “dominanti privati” italiani non possono che essere liberali e liberisti.

I due tipi di ideologi sembrano sostenere tesi opposte solo perché apparentemente opposto è il carattere – la proprietà formale dei mezzi di produzione – del dominio degli oligarchi al vertice della piramide sociale; in entrambi i casi, si tratta però di capitalisti e manager incapaci di essere imprenditori. Essi vivono alle spalle dei dominati, ma non semplicemente “impadronendosi” del loro “pluslavoro” tramite l’organizzazione dei processi produttivi nelle loro aziende, bensì facendo rastrellare l’intera ricchezza creata dall’insieme lavorativo dallo Stato, alla cui direzione vengono collocati dei servi ben pagati, che poi passano loro tale ricchezza mediante “finanziamenti a fondo perduto”, con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro, aggiungendovi inoltre dosi adeguate di prepensionamenti. La polemica degli statalisti – mascherati da difensori del “primato del pubblico” – contro il (finto) liber(al)ismo degli ideologi degli attuali dominanti in Italia non coglie quindi minimamente nel segno, e assume allora una funzione di oggettiva copertura delle manovre che questi stanno inscenando al fine di imporre più duramente la loro “dittatura” (con parvenze sempre più labili di “democrazia” elettoralistica), servendosi delle sinistre in quanto ancora capaci di aggregare, tramite i sindacati, quote del lavoro salariato al blocco sociale (parassitario) di cui si è detto.

In conclusione: sempre più il liber(al)ismo sarà assunto come propria ideologia dalla parte maggioritaria della sinistra politica e sindacale; sempre più i dominanti (privati) del capitalismo – che predicano il libero mercato e vivono di sostegno statale – si serviranno della sinistra per i loro scopi di dominio, in misura crescente “dittatoriale”. La sinistra “estrema o radicale” è destinata a slittare progressivamente verso posizioni di (almeno tentata) deviazione della rabbia dei dominati, predicando lo statalismo (assistenziale e di puro sperpero) come mera finzione degli interessi dei subordinati; con ciò esaltando la funzione degli avversari. Simili “sinistri radicali” stanno dunque assumendo un ruolo equivalente (non eguale) a quello giocato dai menscevichi e socialisti rivoluzionari nei confronti di Kerenski e del Governo “borghese” russo nel 1917. Se esistesse una organizzazione politica anticapitalistica, dovrebbe impostare una corretta strategia atta a colpire i sinistri “estremi”, smascherandone il ruolo apparentemente riformista, in realtà torbidamente reazionario, e subito dopo la sinistra “moderata” in quanto vero supporto politico del capitalismo non imprenditoriale, ma meramente assistito dallo Stato. Solo così si taglierebbe l’erba sotto i piedi degli attuali dominanti, in preda alla fregola di imporre una dittatura “elettoralistica” più dura e opprimente (e sfruttatrice).