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Autopresentazione del filosofo Costanzo Preve

di Costanzo Preve - 11/09/2007

Fonte: comunitarismo

 

 

Dal momento che non sono collegato ad Internet e quindi non dispongo di un blog personale, alcuni amici mi hanno cortesemente chiesto di scrivere una sintetica autopresentazione per poterla poi mettere in Rete. Accetto con gratitudine.

Esporrò questa autopresentazione in alcuni punti successivi, che anticipo subito:

  1. Breve autocertificazione. Dall'illusione di essere un intellettuale impegnato o organico al programma realistico di operare come studioso indipendente e (possibilmente) originale e creativo.
  2. La centralità della storia della filosofia. La storia della filosofia come deduzione sociale delle categorie accompagnata dalla concretizzazione storica progressiva di un orizzonte universalistico veritativo.
  3. Un'interpretazione originale del pensiero di Karl Marx (1818-1883).
  4. Un'interpretazione originale della natura del marxismo storico tardo-ottocentesco e novecentesco dalle sue origini ai suoi (provvisori) esiti attuali.
  5. Un'interpretazione della dinamica complessiva di sviluppo del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991)
  6. Un'interpretazione della natura globale del “capitalismo assoluto”, postborghese e postproletario, che caratterizza l'attuale momento storico.
  7. Breve esposizione delle mie opinioni politiche e geopolitiche nell'attuale momento storico.
  8. Breve esposizione delle mie opinioni ideologico-culturali nell'attuale momento storico.

Spero che questa esposizione in otto punti, di diseguale importanza scientifica, filosofica ed autobiografica, possa contribuire a rimettere l'eventuale discussione critica sul mio modesto pensiero su binari più razionali e meno inquinati dai gossip e dalle affrettate ed irresponsabili falsificazioni. Ovviamente esse non cesseranno e non possono cessare, perché nutrono la società dello spettacolo (Debord) e della chiacchiera, curiosità ed equivoco (Heidegger). E tuttavia ci si rivolge sempre idealmente al “popolo invisibile” delle persone serie e desiderose di discutere sulla base di informazioni veridiche e di stimoli critici.

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 1. Breve autocertificazione. Dall'illusione di essere un intellettuale impegnato o organico al programma realistico di operare come studioso indipendente e (possibilmente) originale e creativo.

Le autocertificazioni autobiografiche devono essere sempre prese con le pinze. La psicoanalisi freudiana ci insegna come il soggetto si costruisce la propria storia passata ed il proprio profilo presente sulla base di una lunga storia di rimozioni, sublimazioni ed adattamenti. Anche i matti si autocertificano come Napoleoni, ma non per questo possono sfuggire ad una visita psichiatrica. E tuttavia anche le autocertificazioni ci possono dire qualcosa su di un individuo.

Nessuno sfugge all'influenza determinante del tempo storico e dell'ambiente sociale in cui è “gettato” dalla casualità dell'incontro dei propri genitori. Nel mio caso la prima decisione esistenziale (fine anni cinquanta - inizio anni sessanta) fu quella di non accettare l'insieme di valori adattativi al capitalismo della visione del mondo piccolo-borghese dell'Italia dell'epoca e di “contestarli”, ed in qual periodo storico il cosiddetto “marxismo” costituiva il principale modo di farlo (non l'unico, ce ne erano anche altri, il neofascismo, l'anarchismo, gli stili di vita detti “alternativi”, eccetera). Il “marxismo” era così assai spesso scelto esistenzialmente senza neppure conoscerne gli elementi minimi filosofici, sociologici ed economici, conoscenza che veniva dopo. Non si diventava “comunisti” dopo aver studiato il marxismo, ma si diventava “marxisti” dopo essersi autoproclamiti esistenzialmente comunisti. In questo, niente di nuovo. La storia ci offre molti esempi di questo tipo.

E tuttavia la prima “eresia” che caratterizzò la mia iniziazione al marxismo stava in ciò, che nell'ambiente che mi era più vicino (la piccola borghesia di Torino di “sinistra”) le due modalità ideologiche dominanti erano quelle dell'antifascismo azionista e dell'operaismo sociologico di identificazione. Entrambe mi erano profondamente estranee, esistenzialmente e culturalmente (inutile qui scendere in dettagli), per cui il mio “tradimento” del profilo identitario piccolo-borghese di integrazione subalterna nel capitalismo non mi portò ad un approdo collettivo nuovo in cui riconoscermi, ma da un'inedita solitudine. Dato il mio sostanziale disinteresse sia per l'antifascismo azionista (Bobbio, Antonicelli, eccetera) sia per l'identificazione operaistica (Panzieri, estremisti gruppettari successivi), il mio approdo al marxismo fu un approdo al marxismo “in solitudine”. Questo non significa affatto – ovviamente – non avere contatti permanenti, amici, compagni, ed anche estimatori. Significa però relazionarsi con i gruppi “militanti” organizzati come ci si relaziona con un autobus di linea. Lo si prende, ma si sale e si scende alla fermata che ci sembra più opportuna.

Dato il clima intellettuale del periodo storico (1956-1991), che poi in una mia opera ho connotato come “tardomarxismo”, non potevo che essere attratto dalla figura dell' “intellettuale”, nella doppia versione dell'intellettuale impegnato (Sartre) e dellì'intellettuale organico (Gramsci). Oggi sono lontanissimo da questi due profili, e non mi considero più nemmeno un “intellettuale”. So bene che all'interno della divisione del lavoro fra lavoro intellettuale e lavoro manuale ed all'interno di una gerarchia differenziale di conoscenze e di competenze specifiche di fatto si è spesso “intellettuali”, lo si voglia o non lo si voglia, in quanto produttori di profili ideologici articolati e sistematizzati che hanno poi una “ricaduta” ed un utilizzo manipolato da parte di ceti politici specializzati (intellettuali di “sinistra”) o da parte di apparati oligarchici di potere economico con il loro accompagnamento corale giornalistico (“opinione pubblica”, eccetera). E tuttavia gli intellettuali a partire da fine ottocento sono un gruppo sociale specifico che non deve essere assolutamente confuso con gli studiosi, gli specialisti, gli artisti, gli scienziati, i filosofi, eccetera. Tutti costoro possono anche essere “intellettuali”, così come un medico può anche essere velista ed un avvocato può essere anche cacciatore. E tuttavia, gli intellettuali in quanto tali sono soprattutto produttori specializzati di profili ideologici articolati, arricchiti e sistematizzati.

Nel mondo di “sinistra” della seconda metà del novecento i due profili principali di intellettuale erano le figure convergenti e largamente complementari di intellettuale “impegnato” (Jean-Paul Sartre) e di intellettuale “organico” (Antonio Gramsci). Io ho cercato sinceramente di essere entrambi, ma ora ho cambiato idea. Vale la pena dire sia pure brevemente il perché.

L'intellettuale impegnato (engagé) è quello che si impegna per le cause giuste contro quelle ingiuste (popoli del terzo mondo, classe operaia, sfruttati, eccetera). Tutto questo è molto nobile, corretto e non mi sogno certamente di criticarlo. E tuttavia non possiamo non riflettere sulla sua evoluzione. Oggi chi si impegnava per i popoli rivoluzionari si impegna per l'esportazione imperialista armata dei cosiddetti “diritti umani”, oscena protesi ideologica dell'impero americano distruttore della legalità internazionale. Se infatti il criterio fondamentale non è quello della comprensione del mondo ma è quello dell' “impegno”, si passa la vita in una frenetica staffetta da un impegno ad un altro, con esiti inevitabilmente narcisistici ed autoreferenziali. Inoltre, con esiti soggettivistici. Ad esempio, Sartre si “impegnava” per l'Algeria, ma per la Palestina no (probabilmente per il timore di essere considerato “antisemita”). Ma gli oppressi si difendono da soli, ed hanno bisogno prima di tutto che si comprenda e si rispetti la loro causa, senza bisogno di grilli parlanti o di “funzionari dell'umanità”.

L'intellettuale organico è l'intellettuale che, sulla base dell'interpretazione dicotomica del capitalismo come modo di produzione permanentemente scisso in polo borghese e polo proletario (vedi punto 6), si schiera contro la Classe Borghese per la Classe Proletaria. Ma dal momento che la classe in sé e per sé è una pura astrazione nella sua immediatezza diretta di fabbrica (a meno che si sia anarcosindacalisti e/o “operaisti”, ma è lo stesso), di fatto essere “organici” significa scegliere l'organicità ad un determinato partito o gruppo politico. Ma questa organicità non è che una forma di subalternità introiettata, che mette al servizio di gruppi specializzati di politici la funzione intellettuale di comprensione della società. Il fallimento è assicurato, ed il novecento ne è stato uno scenario teatrale gigantesco.

Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l'avere capito fino in fondo che l'autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l'autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera).  Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l'avanzamento di questa ipotesi con l'appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l'esclusione del reo.

Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare.

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 2. La centralità della storia della filosofia. La storia della filosofia come deduzione sociale delle categorie accompagnata dalla concretizzazione storica progressiva di un orizzonte universalistico veritativo.

Io mi sono formato non solo professionalmente ma anche esistenzialmente come studioso di storia della filosofia occidentale. Questo studio ha caratterizzato la mia intera vita (oltre che permettermi di guadagnarmi uno stipendio ed una pensione), e sarebbe quindi sciocco rimuoverlo come qualcosa di poco rilevante. Il mio stesso interesse per Marx ed il marxismo successivo è inseparabile dalla loro collocazione adeguata nel corso di questa storia della filosofia.

A differenza di quanto accade nella pratica concreta delle scienze naturali moderne, in cui esiste una differenza di principio fra la storia delle scienze e la codificazione sistematica dei paradigmi scientifici ritenuti unanimemente validi dalla comunità mondiale degli specialisti, nella filosofia invece la pratica filosofica non può mai essere unificata in un solo paradigma unanimemente accettato, e quindi non può mai essere svolta senza un ritorno contestuale all'intera storia della filosofia precedente.

Nelle scienze naturali moderne (il discorso sarebbe diverso per le scienze sociali, il cui statuto è “intermedio” fra le scienze naturali e la filosofia, senza però identificarsi con nessuno dei due) è possibile raggiungere grandi risultati e diventare premi Nobel senza disporre di serie conoscenze sulla storia della propria disciplina. Naturalmente la conoscenza di questa storia può diventare un concreto fattore positivo quando ci si trova di fronte a delle crisi di paradigma (Thomas Kuhn), in modo da favorire il coraggio innovativo, ma resta comunque il fatto che è possibile essere ottimi scienziati specialisti senza disporre di conoscenze approfondite nella storia della propria scienza. Tutto questo è assolutamente impossibile nel campo della filosofia.

La pratica della filosofia non coincide ovviamente con la conoscenza della storia della filosofia. Ma essa ne presuppone l'assimilazione profonda. Non è un caso che oggi l'impero americano, nel suo tentativo simbolico di azzerare tutto il passato al di fuori della promessa biblico-messianica con cui legittima la sua pretesa imperiale, istituzionalizzi nei suoi apparati universitari una pratica della filosofia “analitica” priva di dimensione storica. Se per “filosofia analitica” si intende l'analisi semantica dei concetti, essa non nasce a Los Angeles o a Cincinnati ma nasce con Aristotele di Stagira. Ma qui il tentativo di fare filosofia senza storia della filosofia esprime simbolicamente il “creazionismo” dei concetti da zero, cancellando la storia precedente come poco rilevante. Sia pure a mio avviso poco soddisfacente ed insufficiente per il suo ostentato relativismo la correzione di Richard Rosty sulla filosofia come “conversazione dell'umanità” rivela l'autoconsapevolezza dei migliori filosofi americani di oggi della natura folle della pratica astorica della filosofia analitica.

La prima storia della filosofia occidentale fu la classificazione fatta da Aristotele e dai filosofi precedenti sulla base della teoria tassonomica delle quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale). Questa teoria è del tutto astorica ed inadeguata, e proprio per questa sua astoricità è divenuta il modello di tutti i manuali di storia della filosofia. Con questo, Aristotele resta ovviamente un grande, anzi un grandissimo, ma sarebbe assurdo chiedergli cose che al suo tempo non potevano essere prodotte culturalmente, dalla relativizzazione storica della schiavitù alla teoria darwiniana dell'evoluzione, dal modello cosmologico copernicano alla teoria dialettico-materialistica della genesi storica e sociale delle categorie del pensiero, che presuppone la non ancora esistente ai suoi tempi teoria marxiana dei modi di produzione sociali.

L'avvento del cristianesimo non poteva certamente migliorare questa situazione, ma anzi la peggiorò. Se in Aristotele la classificazione filosofica si basava sul presupposto astratto ed astorico della tassonomia aprioristica delle quattro cause, con l'avvento del nuovo monoteismo rivelato la filosofia  diventa “ancella della teologia” e la sua pratica passa sotto il controllo di apparati ecclesiastici che hanno anche il potere di persecuzione e di interdizione. L'ultimo esempio storico (per ora) di questa subordinazione della libera pratica filosofica ad apparati teologici dotati di protesi poliziesche armate è stato quello della teologia atea del materialismo dialettico sovietico, il cui studio è enormemente facilitato dall'accurato studio di sistemazioni teologiche precedenti (confucianesimo imperiale cinese, ordini francescani, domenicani e gesuiti, eccetera).

L'illuminismo settecentesco e Kant riportano lo studio della storia della filosofia su basi razionalistiche e non più subordinate alla compatibilità coattiva con la teologia. In un certo senso, si tratta di un ritorno al metodo aprioristico delle quattro cause di Aristotele. Ma tutti gli apriorismi, da Aristotele a Kant, mostrano un (spesso involontario ed in buona fede) rifiuto della storicità, e della consapevolezza per cui le categorie filosofiche non hanno solo la storicità della loro discussione pluralistica differenziata successiva, ma hanno anche la storicità della loro genesi e del loro sviluppo.

E' stato il grande Hegel il primo pensatore che ha messo a mio avviso su basi metodologiche corrette la storia della filosofia occidentale, il che non significa ovviamente che non abbia potuto sbagliare o essere “ingeneroso” su singole valutazioni particolari (Epicuro, eccetera). La storia della filosofia di Hegel rifiuta sia la subordinazione alla teologia (Tommaso d'Aquino, marxismo sovietico, eccetera), sia la classificazione aprioristica sulla base di tassonomie astratte (teoria delle quattro cause di Aristotele, terza via fra razionalismo ed empirismo in Kant, eccetera). La storia della filosofia diventa il percorso progressivo dei grandi dell'autocoscienza razionale dell'umanità, e questa impostazione si vuole direttamente polemica con la concezione della storia della filosofia come successione di “opinioni” largamente casuali dei filosofi, ed anche della storia della filosofia come semplice “contestualizzazione” dei sistemi di pensiero al periodo storico e geografico dato.

Quella di Hegel è stata ovviamente una rivoluzione nella storia della filosofia, che l'ha messa su basi più solide di quelle precedenti di Aristotele e di Kant. Tuttavia essa soffriva di alcuni difetti strutturali, che sarebbe sbagliato sottacere. In primo luogo, non c'era (e non ci poteva essere) una vera deduzione sociale delle categorie filosofiche, per il semplice fatto che Hegel non ignorava soltanto la teoria dell'evoluzione di Darwin, ma ignorava soprattutto la teoria dei modi di produzione sociali di Marx. In secondo luogo, c'era una sottovalutazione evidente ed anzi ostentata delle tradizioni filosofiche non occidentali (indiana, cinese, eccetera), in quanto la storia del pensiero umano era fatta iniziare con il solo mondo greco. In terzo luogo, la storia della filosofia era ricostruita come una sorta di “grande narrazione” rigida e monolineare, in cui non erano di fatto consentite delle “uscite laterali”, e tutto l'apparato concettuale era cucito insieme in un solo grande nastro. In quarto luogo, infine, questo mirabile apparato concettuale di fatto “precipitava” teleologicamente in un punto, e questo punto diventava di fatto il coronamento finale insuperabile di tutte le possibili filosofie, e cioè la sistemazione hegeliana dell'idealismo.

Questi quattro difetti (ed altri ancora che qui trascuro per brevità) non distruggono però il grande avanzamento effettuato da Hegel nei confronti del precedente astrattismo aprioristico di Aristotele e di Kant. Gli insulti di Schopenhauer e di Kierkegaard ed i rilievi di Feuerbach e di Trendelenburg, infatti, non toccano il cuore teorico dell'impresa hegeliana, che sta appunto nell'aver cercato di “concretizzare” storicamente le vicende del pensiero filosofico superando sia la subordinazione servile alla teologia sia le classificazioni aprioristiche di Aristotele e di Kant. Che poi questo sia avvenuto con difetti anche gravi è oggetto di collocazione e di contestualizzazione storica posteriore.

E veniamo a Marx, o più esattamente alla rivoluzione marxiana, che non può che riguardare anche la storia della filosofia così come si era svolta fino a lui. E tuttavia Marx non si è mai occupato del problema della storia della filosofia occidentale, ma solo della critica dell'economia politica e della teoria della successione storica dei modi di produzione. Il suo contributo al tema che ci interessa non può quindi che essere indiretto, implicito e metodologico. Esso non deve essere cercato nelle opinioni pur acute che ha espresso su singoli filosofi (Democrito, Epicuro, Aristotele, Feuerbach, Hegel, eccetera). Esso deve essere cercato nel suo metodo “materialistico” di deduzione sociale delle categorie, metodo da tenere ben distinto dalla deduzione trascendentale di Kant ed anche dalla catena teleologica e di fatto necessitata di Hegel. Nessuno può allora parlare “in nome di Marx”, oppure ritenere di sapere “che cosa avrebbe detto Marx”. Queste sono sciocchezze religiose. Il problema sta nel sapere se Marx apra un campo metodologico più produttivo di quello di Aristotele, Kant o Hegel nello specifico campo della ricostruzione razionale della storia della filosofia occidentale.

A mio avviso sì. Utilizzando criticamente il metodo di Marx si può tentare di disegnare una ricostruzione della storia della filosofia sulla base del metodo della deduzione sociale delle categorie, da non confondere con la semplice “aggiunta integrativa” di informazioni sul contesto storico. E tuttavia, questo utilizzo del metodo marxiano non può essere disgiunto da una serie di spregiudicate critiche allo stesso Marx.

In primo luogo, bisogna respingere l'idea utopica dell'abolizione della filosofia nel senso della sua integrale realizzazione. Si tratta di un'utopia escatologica di origine romantica, che a sua volta era l'esito di una maldestra secolarizzazione di una precedente escatologia religiosa di tipo messianico. La filosofia è invece un'attività umana permanente, che trova la sua radice antropologica nel “domandare” umano sul senso complessivo dei destini individuali e collettivi.

In secondo luogo, la negazione di fatto compiuta da Marx della concezione filosofica veritativa di Hegel, cui Marx intende sostituire integralmente una concezione “scientifica” (nel senso di liberata da presupposti filosofici) della conoscenza della natura e della società, porta e non può non portare ad una forma di nichilismo ontologico, nichilismo ontologico che assume la forma del relativismo sociologico. In questo modo la filosofia è di fatto ridotta ad ideologia, o meglio a copertura sofisticata di interessi sociali di classe. Ma se Platone “esprime” gli interessi della classe aristocratica ateniese e Kant “esprime” gli interessi della protoborghesia tedesca nascente, eccetera (ed inoltre Gentile esprime gli interessi del fascismo, Lukács dello stalinismo e Heidegger del nazionalsocialismo), allora la filosofia perde ogni valenza veritativa universalistica ed è di fatto ridotta alla sua “ricaduta” ideologica. Se si persevera su questa strada si evita certamente lo Scilla della classificazione astorica ed aprioristica (Aristotele, Kant, e soprattutto il 95% della manualistica in cui la filosofia è ridotta a dossografia, e cioè ad elencazinoe diseducativa di opinioni), ma per cadere nel Cariddi del relativismo sociologico degli “interessi economici” sublimati ideologicamente in pretese di verità eterne più o meno trascendentali.

Per passare fra Scilla e Cariddi bisogna disporre di una nave robusta e di un buon pilota. Occorre quindi tenere insieme concretamente il punto di vista della genesi sociale e storica delle categorie filosofiche con il punto di vista dell'autonomia e della veritatività della conoscenza specificatamente filosofica. La storia della filosofia è una disciplina che prima di tutto insegna l'umiltà, perché occupandoci di Platone Spinoza o Hegel ci liberiamo delle velleità narcisistiche di onnipotenza e scopriamo che ciò che vorremmo dire è già stato detto in passato ed ancora meglio di quanto riusciamo a fare noi. Ma a fianco dell'umiltà essa ci insegna anche il coraggio, e cioè il coraggio di tentare interpretazioni nuove e di osare anche la manifestazione del nostro dissenso con “mostri sacri” che restano ciò nonostante al di sopra di noi (Spinoza, Marx, Hegel, eccetera).

Ed è appunto ciò che oserò fare nel prossimo terzo paragrafo.

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    3. Un'interpretazione originale del pensiero di Karl Marx (1818-1883).

Da più di un secolo il profilo espressivo complessivo del pensiero di Karl Marx è oggetto di interpretazioni di alto livello filologico e teoretico, e allora la “concorrenza” è forte. La fusione ideologico-storica fra interpretazione di Marx e politica del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991) ha creato per quasi un secolo un clima “medioevale”, in cui la libera discussione su Marx era subordinata al controllo poliziesco di apparati inquisitori di partito e di stato. L'attuale situazione, in cui la discussione su Marx è di fatto sequestrata da apparati specialistici universitari di “sinistra”, che la mescolano spesso con il Politicamente Corretto e con la cultura radicale post-sessantottina (pacifismo, femminismo, eccetera), è solo apparentemente migliore della precedente, in quanto almeno non c'è da temere l'incarceramento e la morte, ma è altrettanto insoddisfacente, perché la persecuzione ideologica precedente rivelava pur sempre indirettamente la rilevanza storica gigantesca del pensiero di Marx, mentre l'incorporazione attuale in alcuni apparati universitari globalizzati anglofoni di “sinistra” ne testimonia la sostanziale irrilevanza. E' possibile però che la situazione attuale sia provvisoria, ed il pensiero di Marx, opportunamente modificato e revisionato, possa riacquistare fra qualche decennio una funzione politica rivoluzionaria. Improbabile è però che tutto questo possa avvenire nel corso della mia vita terrena.

Fra i molti esempi possibili, ricordo qui i due profili complessivi di Marx proposti da Karl Korsch negli anni trenta e da Louis Althusser negli anni sessanta del novecento in Europa. Tralasciando qui le importanti differenze fra il teorico tedesco e quello francese ricordo che in entrambi i casi si è di fronte ad un sostanziale rifiuto di intendere Marx come un filosofo della storia. Per Korsch Marx è un teorico del solo modo di produzione capitalistico, e non di un'intera storia universale, ed il criterio della scientificità dei suoi enunciati sta nella capacità reale del soggetto operaio, salariato e proletario di agire collettivamente in modo realmente anticapitalistico. Per Althusser Marx è stato lo scopritore scientifico del Continente Storia, e questa scoperta scientifica implica la riduzione dello spazio filosofico a semplice spazio epistemologico, “scaricandone” tutte le precedenti illusioni metafisiche, umanistiche e storicistiche, e recuperando nello stesso tempo un concetto di critica dell'economia politica come spazio di lotta di classe integrale nei rapporti di produzione.

Ho voluto partire dalle interpretazioni classiche di Korsch e di Althusser, che pure considero di altissimo livello critico e di grande interesse storiografico, per poter affermare subito per differenza il mio radicale dissenso con il loro approccio. Io ritengo infatti che la capacità rivoluzionaria della classe operaia, proletaria e salariata non debba essere messa a criterio in ultima istanza della cosiddetta “scientificità” del marxismo (Korsch), e non ritengo affatto che lo statuto filosofico del pensiero di Marx debba essere eliminato in nome di una pura “scienza strutturale” della società capitalistica (Althusser). Ritengo inoltre che Marx sia filosoficamente un idealista e politicamente un comunitarista, anche se questi “ismi” sono del tutto ingannatori ed inadeguati. Penso inoltre che quella di Marx sia a tutti gli effetti una filosofia della storia. Ma andiamo con ordine.

L'ispirazione unitaria del pensiero di Marx sta certamente nell'idea di critica, e più esattamente di critica radicale dell'esistente. Critica dell'economia politica borghese-capitalistica, prima di tutto, ma anche critica del diritto, critica della religione, critica della filosofia, eccetera. In questo senso, Marx non è allievo di Hegel, perché Hegel aveva arrestato la sua critica al presente, sottraendo questo presente stesso alla sua critica spietata. E nello stesso tempo Marx resta un allievo del suo metodo e della sua ispirazione, perché Hegel aveva trasformato l'intero spazio della storia della filosofia e della società precedenti in uno spazio di critica radicale. Ciò che Marx fa, e che Hegel non aveva fatto, è estendere il metodo critico al presente. Se comunque prestiamo attenzione al fatto che Hegel aveva criticato realtà politico-economiche a lui contemporanee (giacobinismo francese, liberalismo inglese, conservatorismo di Metternich, eccetera), vediamo che anche su questo punto Marx non era poi così lontano da Hegel.

La radice hegeliana del pensiero di Marx sta però in due specifiche “eredità” hegeliane, e cioè nella sua elaborazione ulteriore di due figure hegeliane precedenti, le figure del riconoscimento del lavoro dello schiavo rispetto al signore e dell'elaborazione della cosiddetta “coscienza infelice”. E' questo il punto da cui partire per cominciare a delineare un profilo espressivo di Marx in quanto pensatore complessivo. Entrambe queste figure provengono dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel del 1807, il capolavoro che fa da presupposto filosofico del Capitale di Marx del 1867. Non solo, ma queste due figure, convenientemente elaborate dialetticamente, fanno da presupposto indiretto alla teoria marxiana dell'alienazione, la quale a sua volta fa da presupposto al modo specifico in cui Marx tratta la teoria del valore-lavoro.

In breve, i passaggi sono tre:

( a ) Elaborazione dialettica delle due figure hegeliane del riconoscimento del riconoscimento del lavoro del servo e della coscienza infelice. Il servo prende coscienza attraverso il lavoro  di essere il creatore della ricchezza con cui vive il signore e ne cerca il riconoscimento, che però è impossibile finché lo sfruttamento sta alla base della riproduzione sociale complessiva. Il borghese rpende coscienza – e ne resta così inquieto, o meglio “infelice” - che il suo universalismo razionalistico è illusorio ed impossibile finché permane lo sfruttamento, e da questa coscienza infelice (che per Hegel è ancora pienamente religiosa, ma che Marx poi laicizza, o se vogliamo “secolarizza”) si origina la specifica filosofia della storia di Marx, basata sulla progressione dei tre momenti successivi della dipendenza personale (forme di sfruttamento precapitalistico), indipendenza personale (forme di sfruttamento borghese-capitalistico), ed infine libera individualità (comunista).

( b ) Il concetto di alienazione, lungi dal secolarizzare la tesi religiosa della rottura di un'unità originaria e la conseguente formazione di un “mondo a testa in giù” (Lucio Colletti), e lungi dallo  “spostamento semplice” dalla critica religiosa di Feuerbach alla critica dell'economia politica di Marx, deve essere inteso come “ricaduta antropologica” ed esistenziale della lotta per il riconoscimento del lavoro del servo e della coscienza infelice per l'impossibilità della universalizzazione reale dei valori umanistici borghesi. Ma il riconoscimento integrale è incompatibile con lo sfruttamento, e così pure è incompatibile l'universalizzazione reale con il mantenimento dello sfruttamento.

( c ) L'analisi marxiana del valore presuppone l'acquisizione del concetto di alienazione. Questo non significa, a rigore, che vi sia un'equazione integrale fra teoria filosofica dell'alienazione e teoria economica del valore (Lucio Colletti e Claudio Napoleoni sulla scorta della tesi di Isaac Rubin avanzata già negli anni trenta). Significa però che c'è un rapporto di dipendenza fra la premessa filosofica dell'alienazione e la conseguenza economica della teoria del valore di scambio della forza-lavoro umana come scambio ineguale sotto l'apparenza dello scambio di equivalenti.

In base a questa sommaria ricostruzione si ha una prima conclusione: il pensiero di Marx sorge dall'elaborazione della coscienza infelice del mancato universalismo reale (o, se si vuole, “materiale”) delle stesse promesse del precedente universalismo borghese. Essa è quindi il prodotto di un momento autocritico radicale della forma di coscienza “borghese”, che si è poi “incontrata” in un secondo tempo con un autonomo processo “proletario” di contestazione dell'esistente. E' possibile connotare questo incontro teorico come un incontro “pratico” fra l'idealismo (coscienza infelice dell'impossibilità universalistica delle promesse borghesi) ed il materialismo (autonomo movimento di rivendicazioni materiali da parte dei nuovi ceti di lavoratori salariati e “proletarizzati” dall'accumulazione primitiva borghese del capitale).

Accertato questo primo punto, passiamo al secondo. Ed il secondo sta in ciò, che bisogna ridiscutere dalle fondamenta il problema della dicotomia fra Idealismo e Materialismo in Marx.

Il profilo filosofico complessivo di Marx non ha soltanto “tracce giovanili di idealismo  poi superate” (Althusser), oppure “contatti con l'idealismo di Hegel pur all'interno di un rigoroso materialismo” (Lukács), ma è invece idealistico al cento per cento, nel senso dell'idealismo monomondano moderno che ha come “scienza filosofica” di riferimento la Storia, o più esattamente la storia universale dell'intera umanità pensata unitariamente come unico concetto trascendentale riflessivo e caratterizzata da una dialettica triadica. I riferimenti moderni della filosofia di Marx sono molti, ma i principali possono essere trovati in Spinoza, Rousseau, Fichte ed infine naturalmente Hegel, riferimento massimo e principalissimo. Non ha dunque senso alcuno parlare di marxismo anti-hegeliano, ma neppure di marxismo hegeliano. Questa contrapposizione dicotomica è fatta per fuorviare ed ingannare. Marx è un filosofo idealista indipendente, con caratteristiche specifiche ed inimitabili, ed ogni “comparazione” finisce per fare torto alla sua marcata e specifica originalità.

L'idealismo di Marx si basa sulla centralità del presupposto della centralità della storia universale dell'umanità pensata come unico concetto trascendentale riflessivo, e quindi necessariamente “ideale”. Secondo il modello di Hegel (ben distinto dal modello dell'idealismo di Platone basato sulla partecipazione e sull'imitazione e dal modello neoplatonico basato sul progressivo allontanamento da una unità primitiva ed originaria), l'Idea diventa Spirito, e cioè idea autocosciente di sé, soltanto attraverso un processo di “alienazione” in cui si sviluppa dialetticamente il “potere del negativo”. Per Marx la comunità originaria viene presupposta (senza nessuna tentazione primitivista o naturalistica di tipo russoviano), ma non è pensata come origine di una rottura semplice alienata “a testa in giù” (Lucio Colletti, letture variamente religiose di Marx). La storia si svolge progressivamente come insieme di scissioni, ed a loro volta le scissioni vengono indagate nella forma dei rapporti classistici dicotomici dei diversi modi di produzione. L'ultimo modo di produzione storico preso in considerazione da Marx, quello borghese-capitalistico, fa anche da presupposto per il possibile (nel senso della potenzialità aristotelica del dynamei on, vedi Vadée) rovesciamento dialettico nel comunismo. Ed il comunismo per Marx coincide di fatto con l'autocoscienza dello Spirito in Hegel (Geist), in quanto l'umanità può essere finalmente messa in grado di riconoscere se stessa nella sua storia (oppure, detto in linguaggio darwiniano, l'anatomia dell'uomo è la chiave per capire l'anatomia della scimmia, e non viceversa).

Questo profilo filosofico complessivo integralmente idealistico pensa però se stesso (in falsa coscienza necessaria, per usare una concettualizzazione marxiana) attraverso la metafora obbligata del materialismo e del concetto metaforico di Materia. Questo concetto, tuttavia, lungi dall'essere soltanto metaforico ed “ornamentale”, produce effetti reali di conoscenza, e permette di concettualizzare spazi conoscitivi ed ideologici particolari. Ne elenco qui in particolare cinque, di importanza diversa. Non è necessario gerarchizzarli, ma se lo si vuole fare è sempre possibile farlo:

(1)   La materia è metafora di prassi, ed in particolare di prassi rivoluzionaria anticapitalistica, che si opporrebbe alla presunta “contemplazione passiva” idealistica. In realtà l'idealismo (Fichte, eccetera), lungi dall'essere un pensiero della contemplazione o della “interpretazione” (tesi su Feuerbach del giovane Marx), è per natura un pensiero della trasformazione attiva (vedi in Fichte rapporto tra Io e Non-Io).

(2)   La materia è metafora di struttura. La società non viene così “idealisticamente” considerata come un tutto retto da opinioni, convinzioni, idee e valori etici trascendentali e/o razionalistico-immanentistici, ma viene storicizzata in successione di modi di produzione ed infine ideologie e sistemi ideologici oppositi di giustificazione e/o di contestazione.

(3)   La materia è sinonimo di ateismo, e cioè di inesistenza di Dio inteso come demiurgo materiale del mondo e come giudice in ultima istanza del bene e del male. Viene così chiamato “materialismo” il punto di vista della autopoiesi progressiva materiale dell'universo senza alcun intervento progettante divino e della connessa origine genetica dei valori morali e religiosi all'interno dello sviluppo storico.

(4)   La materia è metafora della fragilità umana individuale e delle connesse necessità del solidarismo comunitario. L'uomo è un animale particolarmente fragile e “non-specializzato”, riduttore della complessità e del carico di stress (Belastung), ed è quindi ad un tempo necessario e giusto che viva in una comunità solidale, forma sociale “materialmente” corrispondente all'idealità della sua autocoscienza complessiva di superamento dell'alienazione.

(5)   La materia è metafora della necessaria contrapposizione dicotomica nel mondo borghese capitalistico per pensare il concetto di “libertà”, opponendo la libertà formale (borghese) alla libertà materiale (comunista). Marx è infatti un pensatore della libertà,  ed il considerarlo un pensatore del livellamento egualitario forzato è un errore filologico e filosofico.

Queste cinque specificazioni metaforiche di “materia” non esauriscono il tema, ma sono sufficienti per rimettere su nuove basi il problema dell'interpretazione complessiva del profilo di Marx. Non si parla qui dei suoi contributi “economici” (teoria della crisi capitalistica, teoria del plusvalore assoluto e relativo, eccetera). Si parla qui esclusivamente del suo profilo complessivo di pensatore. E questo è il secondo punto che mi premeva di chiarire.

Il terzo ed ultimo punto sta nel fatto che in Marx c'è ovviamente il “classismo”, con  le connesse teorie fondanti della lotta di classe e della dittatura del proletariato, ma questo classismo è un mezzo e non un fine, ed è anzi messo al servizio di una forma di comunitarismo. La tattica è il classismo, ma la strategia storica è il comunitarismo. Sia Aristotele che Hegel possono essere considerati dei precursori dello specifico comunitarismo di Marx. Né Aristotele né Hegel sono ovviamente “comunisti”, ma su questa ovvietà non ha neppure senso soffermarsi. Lo specifico “comunitarismo comunista” di Marx, che ha come fondamento ontologico-antropologico il concetto di “ente umano naturale generico” (Gattungswesen), non deve essere ovviamente confuso con le varie forme preborghesi di comunità (Gemeinschaft), che hanno nutrito la polemica della cultura moderna di “destra” contro l'individualismo borghese.

Riepiloghiamo: bisogna avere il coraggio di proporre un'interpretazione complessiva di Marx, sapendo perfettamente che essa non può mai essere né quella “giusta” (non avendo mai lo stesso Marx sistematizzato e coerentizzato le sue concezioni), né tantomeno quella “definitiva”, perché ogni generazione storica ha sempre il diritto ed il dovere sovrani di reinterpretare i grandi pensatori; il pensiero di Marx è il prodotto di una particolare elaborazione della coscienza infelice della protoborghesia europea del tempo della giunzione di tre componenti teoretiche (illuminismo, romanticismo e positivismo), che si incontra con un'autonoma corrente di opposizione proveniente dalle classi subalterne, operaie, salariate e proletarie; il pensiero di Marx è una forma integrale, rigorosa, radicale e soprattutto originale di idealismo, che utilizza metaforicamente il concetto di materia (e di conseguenza di materialismo) in cinque principali significati, che a loro volta però producono decisivi “effetti di conoscenza”; infine, la filosofia politica di Marx è una forma di comunitarismo, che utilizza il classismo proletario esclusivamente come mezzo tattico di contestazione del capitalismo.

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 4. Un'interpretazione originale della natura del marxismo storico tardo-ottocentesco e novecentesco dalle sue origini ai suoi (provvisori) esiti attuali.

Ci si aspetterebbe che il metodo di Marx venisse prima di tutto applicato a se stesso, dando luogo non solo ad una valutazione critica “marxista” di Marx stesso (che non può ovviamente coincidere con la riproduzione acritica delle opinioni soggettive con cui lo stesso Marx interpretava se stesso), ma ad una storia marxista del marxismo e dei marxismi successivi. Niente di tutto questo. Sono in circolazione dossografie “opinionistiche” di storia del marxismo di carattere partigiano-ideologico, in cui ogni corrente esalta se stessa ed insolentisce e demonizza le altre. Questa pittoresca incapacità di autovalutazione “materialistica” (qui il termine di “materia” è usato come metafora di capacità di autoriflessione critica) ha anch'essa ovviamente una spiegazione materiale, dovuta alla precoce religiosizzazione dogmatica del marxismo come ideologia di salvezza e di riscatto delle classi subalterne, precoce religiosizzazione dogmatica che sacralizza la storia, sostituita alla vecchia divinità monoteistica, e che si dota di un apparato clericale ed inquisitorio che sostituisce al libero dibattito il controllo poliziesco sui dissenzienti.

E tuttavia una storia marxista del marxismo resta sempre possibile, purché si distingua preliminarmente fra due dimensioni teorico-pratiche distinte, anche se interconnesse:

(1)   La teoria di Marx è una scienza filosofica nel senso idealistico del termine, che comprende nel suo codice teorico due aspetti di fatto inscindibili, anche se astrattamente separabili, e cioè una interpretazione filosofica della storia universale intesa come concetto unitario trascendentale riflessivo, ed una “ricaduta” epistemologica costituita dal concetto di modo di produzione con le sue tre articolazioni dialetticamente interconnesse (forze produttive, rapporti sociali di produzione, ideologia). In quanto scienza filosofica, la teoria di Marx non può per sua propria natura assumere il profilo delle scienze naturali (Galileo) o delle scienze sociali (Max Weber), in quanto la valutazione morale, o se si vuole il giudizio di valore assiologico (nel nostro caso: il capitalismo è negativo, perché aliena e sfrutta), non può essere separato dalla conoscenza “oggettiva” (o meglio, oggettivata) dei rapporti economici e sociali esaminati.

(2)   La teoria di Marx non è direttamente una ideologia (al massimo, potrebbe essere una cattiva scienza filosofica, o una scienza filosofica migliorabile togliendone gli aspetti deterministici e/o utopici, eccetera), ma nel momento in cui se ne impadroniscono forze sociali reali per utilizzarla come profilo politico identitario di appartenenza, non può necessariamente che assumere un aspetto ideologico. E' dunque scorretto sostenere che l'ideologizzazione del pensiero di Marx è frutto di un “errore”, di un “fraintendimento”, di un “tradimento”, eccetera.

Anche il marxismo, quindi, deve essere indagato secondo il metodo della deduzione sociale delle categorie. Questo metodo è di difficilissima applicazione (vedi secondo paragrafo), in quanto deve tenere insieme un elemento storico-genetico, necessariamente relativistico e sociologico, con un elemento filosofico-veritativo, che per principio non riduce e non può ridurre la produzione teorica a semplice “riflesso” economicistico di interessi sociali di gruppo. E tuttavia, anche se difficile, si tratta di un metodo perseguibile. Il marxismo successivo a Marx, quindi, deve essere  indagato anch'esso con il metodo della deduzione sociale delle sue categorie, unito alla necessaria consapevolezza dell'intreccio fra la storia del suo codice originario di scienza filosofica e la storia del successivo intreccio delle ideologie di legittimazione, manipolazione ed appartenenza.

Il primo codice marxista sistematizzato e coerentizzato (si noti bene: il primo, non il secondo, perché Marx non è mai stato “marxista”, o lo ha anche esplicitamente dichiarato), fu elaborato e sistematizzato congiuntamente da Engels e Kautsky nel  ventennio 1875-1895. In termini freudiani, si tratta della “scena primaria” del marxismo, quella che non si dimenticherà mai più dopo averla vista. Esso fu elaborato (e non avrebbe potuto essere diversamente) sulla base di una committenza indiretta della socialdemocrazia tedesca del tempo, unita ad un influsso diretto del principale paradigma filosofico-scientifico borghese dominante, quello del positivismo. La chiave metodologica cui applicare la deduzione sociale delle categorie deve quindi prendere in considerazione l'intreccio sociologico-culturale di committenza indiretta (CI) e di influsso diretto (ID). Sapere se il già defunto Marx sarebbe stato d'accordo o meno con questo codice sistematizzato e coerentizzato è cosa da lasciare agli evocatori delle anime dei defunti ed ai lettori di Nostradamus. La mia personale opinione può essere riassunta così: non sarebbe stato d'accordo, ma nello stesso tempo non avrebbe potuto in alcun modo opporsi, ed il suo storicismo un po' “nichilistico” lo avrebbe probabilmente portato alla storicistica conclusione per cui in fondo il reale era razionale, e se il suo pensiero era stato assimilato in questo modo era impossibile che ciò avvenisse in altro modo.

Il codice marxista originario (1875-1895) era quindi una sorta di Grande Narrazione Positivistica (GNP). Spieghiamoci meglio. Il modello di scientificità positivistica (determinismo, prevalenza del cosiddetto “fattore economico”, irrilevanza della personalità nella storia, eccetera) era innestato su di un discorso ideologico di tipo progressistico-borghese, dando luogo ad un vero e proprio “ircocervo”, e cioè un Determinismo Teleologico Integrale (DTI), per cui il capitalismo sarebbe necessariamente ed infallibilmente evoluto in socialismo. Ritengo che sia antistorico irridere ingenerosamente questo penoso parto metafisico con la consapevolezza dell'oggi. In base alla deduzione sociale della categoria, bisogna relazionare questo modello ormai intollerabilmente obsoleto al tempo storico che lo ha prodotto. In base alla valutazione veritativa, bisogna invece dire che questo modello non solo non era “vero” (e non era neppure certo ed esatto – al massimo  era veridico, nel senso che era creduto veridicamente tale), ma era cattivo. Nello stesso tempo, probabilmente corrispondeva all'incurabile subalternità del suo soggetto di riferimento, che evidentemente “pretendeva” una religione imperfettamente laicizzata, che da un lato corrispondesse alla “vera scienza”delle università borghesi e dall'altro mantenesse la promessa del lieto fine emancipativo della storia. Il problema interpretativo non sta dunque nel capire perché questa penosa metafisica fu prodotta, ma perché in cento anni non è stata sostanzialmente corretta, e nel 1989 è morta più o meno nella stessa forma in cui era stata concepita nel 1889, e cioè un secolo prima. A questa domanda può soltanto rispondere un'analisi storiografica condotta con il metodo della deduzione sociale delle categorie, sia filosofico-scientifiche che soprattutto ideologiche. E qui la dossografia alla Diogene Laerzio, e cioè la noiosa  elencazione delle “opinioni” dei marxisti autoproclamatisi tali (l'autoproclamazione è un criterio simile a quella della autocertificazione di essere Napoleone da parte dei matti dei manicomi) non fa che incrementare l'inutile distruzione degli alberi per farne carta, o meglio cartaccia.

Il codice “marxista” socialdemocratico, sublimazione evoluzionistico-deterministica di un blocco sociale europeo già totalmente “neutralizzato” da ogni velleità rivoluzionaria dalla fusione dell'economicizzazione del conflitto (Bauman) con la nazionalizzazione imperialistica delle masse (Mosse), si estinse storicamente fra il 1914 (accettazione del grande macello imperialista da parte delle direzioni politiche e sindacali e dei loro miserabili intellettuali “organici”) ed il 1917 (servile scomunica della rivoluzione russa del 1917). La sua estinzione storica non coincide però con l'estinzione ideologica, che si ripresenta nella storia continuamente (ad esempio nell'ideologia storicistica del PCI fra il 1945 ed il 1989, vero esempio di kautskismo all'italiana insaporito con la vecchia tradizione dell'ipocrisia e della doppiezza linguistica ereditata dalla controriforma cattolica del cinquecento).

Il codice “comunista”, o più esattamente il codice ideologico di legittimazione politica del comunismo novecentesco (1917-1991) presenta sia elementi di continuità che elementi di discontinuità con il precedente codice ideologico socialdemocratico. Si tratta appunto del leninismo, che poi viene sistematizzato da Stalin fra il 1924 ed il 1926 in “marxismo-leninismo”, formazione ideologica che comincia ad entrare in crisi dopo il 1956 e la cosiddetta “destalinizzazione”. La destalinizzazione apre un piano inclinato in cui il marxismo-leninismo non cesserà di precipitare fino alla catastrofe del 1989. Criticato dall'esterno dalla tradizionale eresia trotzkista (la quale era in realtà il frutto di un'ortodossia secondinternazionalistica di estrema sinistra), viene contestato all'interno del movimento comunista dal maoismo cinese, destinato nel corso di un ventennio (1956-1976) a fallire sia in Cina che in Europa, anche se permane come guerriglia rivoluzionaria di contadini poveri (India, Nepal, Perù, eccetera).

Il codice “comunista” continua a conservare elementi socialdemocratici precedenti, primo fra tutti il determinismo teleologico che “assicura” la vittoria finale del socialismo, mentre rompe con il precedente codice socialdemocratico con la pratica della dittatura del proletariato intesa come dispotismo sociale esclusivista di partito. Non si trattò di un errore o di un fraintendimento nei confronti di Marx. Si trattò di un adeguamento obbligatorio alla situazione storica di assoluta incapacità di egemonia pacifica del proletariato sociale sulle classi medie vecchie e nuove, incapacità egemonica che fu necessario “compensare” con misure di dispotismo politico. Antonio Gramsci ebbe ragione nell'individuare nel concetto di “egemonia” il cuore della questione, ma si illuse sul fatto che una classe subalterna potesse diventare “egemonica”, sia pure attraverso la mediazione di improbabili “moderni principi” e di ancora più improbabili “intellettuali organici”.

Il materialismo dialettico sovietico fu la teologia di una classe subalterna, per sua natura incapace di “autocoscienza idealistica” (salvo ovviamente eccezioni, significative, ammirevoli e pur sempre minoritarie). Da un lato, sacralizzò il processo storico nella forma della successione deterministico-teleologica dei cinque stadi, successione positivisticamente divinizzata, e quindi non “superiore” al culto di Padre Pio o del sangue di San Gennaro. Dall'altro, restaurò con l'unificazione delle leggi dialettiche della natura e della società il cuore del pensiero primitivo mondiale, che era appunto basato sull'unità fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale. Sulla base del metodo della deduzione sociale delle categorie, una classe subalterna non può che produrre un'immagine del mondo arretrata e subalterna.

I gruppi eretici marxisti minoritari elaborarono tutti una “teologia di riferimento”, necessaria per il compattamento del gruppo ed il mantenimento della loro ideologia identitaria di appartenenza politica (anarchismo, comunismo dei consigli, bordighismo italiano, trotzkismi internazionali e nazionali, maoismi europei, asiatici e latino-americani, eccetera). La sostanziale sopravvivenza del trotzkismo, sempre marginale ma anche sempre sopravvissuto, deve essere a mio avviso correlata al fatto che il trotzkismo continua a funzionare come “coscienza infelice” dell'impossibilità storica di applicare un'ortodossia marxiana che sembra inapplicabile, ma di cui si nega pervicacemente l'inapplicabilità inserendo nella storia un “fattore negativo” (la burocrazia, appunto), che gioca lo stesso ruolo giocato dal demonio nelle teologie religiose. Ci si può allora contemporaneamente dichiarare marxisti rivoluzionari ortodossi, da un lato, ed evocare l'elemento diabolico-negativo della burocrazia, spiegandolo “razionalmente” con l'espediente ideologico del cosiddetto “basso livello delle forze produttive”. Il paradigma trotzkista rappresenta un luminoso esempio della teoria di Thomas Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche, sempre rimandate con la continua interpolazione di “aggiunte ad hoc” o di “eccezioni”. A tutt'oggi il codice ideologico trotzkista continua ad essere un fattore attivo per rimandare e rendere difficoltoso il necessario mutamento di paradigma teorico marxista.

In sintesi, tre sono i criteri principali per la composizione di una (non ancora esistente, ma già abbozzata in alcuni lavori pionieristici, fra cui includo anche alcuni miei) storia marxista dei marxismi:

(1)   Applicazione del metodo materialistico-genealogico della deduzione sociale delle categorie allo specifico oggetto storico del pensiero di Marx e dei marxisti successivi, indagati con il metodo dialettico-triadico di origine hegeliana della genesi, dello sviluppo ed assestamento provvisorio ed infine del tramonto e della dissoluzione.

(2)   Distinzione fra la scienza filosofica marxiana originaria e le sue necessaire ricadute ideologiche. Le ricadute ideologiche, quindi, non devono essere indagate in base alle false categorie di errore, fraintendimento, tradimento, eccetera, ma in base all'appropriazione selettiva di temi originari sulla base di interessi collettivi di identità.

(3)   Classificazione delle ricadute ideologiche sulla base dei destinatari sociali differenziati cui queste ricadute ideologiche si rivolgono, direttamente o (più spesso) indirettamente (con acclusa falsa coscienza necessaria di preteso ed inesistente universalismo  e di preteso ed inesistente statuto scientifico. Fra i molti destinatari ne seleziono soltanto quattro:

( a ) Classe dei contadini poveri e medi. Il messaggio marxista è percepito nei termini della riforma agraria radicale, o come collettivizzazione integrale della terra, o come ripartizione egualitaria (contadini poveri e braccianti), o come sostegno statale ai prezzi agricoli ed all'agricoltura (contadini medi). In quanto ai contadini ricchi ed alle imprese capitalistiche in agricoltura, il marxismo è un nemico meritevole di squadroni della morte (America Latina).

( b ) Classe operaia, salariata e proletaria dell'industria e dei servizi moderni capitalistici. Il messaggio marxista è percepito nella forma dello statalismo   assistenziale di “sinistra” (altro