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La deriva ipertecnologica della medicina

di Pasquale Rotunno - 11/09/2007

La deriva ipertecnologica della medicina

La medicina vive un singolare paradosso. Nel momento in cui sembra trionfante e realizza straordinari successi, le opinioni di chi vi fa ricorso oscillano tra una fiducia totale e un’altrettanto marcata diffidenza. Il ricorso alle medicine “alternative” testimonia l’insoddisfazione di molti verso modalità di cura spesso efficaci, che risultano tuttavia disumanizzate per la preponderanza degli aspetti tecnologici su quelli relazionali. Per la verità le cose non andavano meglio un secolo fa, quando i medici discutevano con i loro allievi i casi clinici in presenza degli stessi ammalati, magari al centro di un’aula ad anfiteatro. Eppure, l’assenza di indagini strumentali e di laboratorio costringeva i medici ad interrogare e visitare i pazienti. Era inevitabile un certo tipo di relazione interpersonale, che troppi medici contemporanei sostituiscono disinvoltamente con innumerevoli indagini diagnostiche. Due autorevoli clinici, Giorgio Cosmacini e Claudio Rugarli, nel libro “Introduzione alla medicina” (Laterza), avvertono che per la stessa natura della pratica medica, “un approccio puramente tecnico ai suoi problemi è insostenibile”. Un corretto rapporto tra medico e ammalato è tanto rilevante quanto eseguire bene un difficile intervento chirurgico. Un chirurgo abile nell’operare ma che trascura le paure del paziente non compie tutto il suo lavoro.
Non si tratta di due momenti distinti, il primo tecnico (visita, indagini, diagnosi), il secondo volto a placare le ansie dei malati. Fin da subito il medico deve cercare di capire chi ha di fronte e comunicare appropriatamente. La malattia non è qualcosa di oggettivabile in astratto, è parte del vissuto di un determinato paziente. Scrive Karl Jaspers, medico e filosofo: “Solo il medico che si relaziona ai singoli malati adempie all’autentica professione medica. Gli altri praticano un onesto mestiere, ma non sono medici”. Oggi s’incontrano medici tanto fiduciosi nei loro sofisticati strumenti tecnologici che neppure ascoltano né osservano l’ammalato. Il rapporto tra medico e paziente non è ancora considerato un rapporto tra uguali. Basti pensare al linguaggio incomprensibile talvolta usato dai medici, senza che si faccia alcuno sforzo per farsi capire. Un problema particolare riguarda le decisioni terapeutiche in condizioni d’incertezza. Essere costretti a scegliere tra un intervento chirurgico mutilante e una terapia medica con minore possibilità di successo non è facile per il paziente. Il medico dovrebbe prendere posizione pur rispettando la libertà del malato. Va a merito degli autori il richiamo all’unità del sapere anche in campo medico. La distinzione tra due culture, umanistica e scientifica, è artificiosa; sebbene abbia, in Italia, radici profonde. “Questa separazione tra le due culture è molto nociva per la medicina”, avvertono Cosmacini e Rugarli. In passato, lo studio della filosofia faceva parte del curriculum degli studi medici. Ciò corrispondeva a una peculiarità della professione medica, che si misura con la complessità della condizione umana. Nel caso della psichiatria, ad esempio, i confini con le scienze umane sono evidentemente labili. Lo stesso vale per altre discipline mediche. Rinunciare a interessarsi di letteratura e di arte ridurrebbe la professione medica a mero esercizio tecnico. Alcune malattie sono descritte in alcune opere letterarie con più acume che in tanti trattati scientifici. La rappresentazione di un’infinita varietà di tipi umani offerta dai grandi scrittori e artisti ha dato un contributo essenziale alla comprensione dell’uomo e dei possibili stati patologici. Il grande Marcel Proust, malato d’asma, figlio e fratelli di medici, ha parlato molto di medicina. Nella sua “Ricerca del tempo perduto”, è interessante il personaggio del dottor Cottard, sul quale scrive l’impietoso giudizio: “Quell’imbecille era un grande clinico”. Proust ricorda anche un personaggio realmente esistito: Georges Dieulafoy, ed è un’interessante testimonianza sulla medicina dell’epoca. Dieulafoy era chiamato al capezzale dei morenti, dove con aria malinconica confermava sempre che non c’era niente da fare e se ne andava con discrezione, non senza aver intascato la busta dell’onorario. In effetti, a quell’epoca i medici si erano aperti al metodo sperimentale e riconoscevano l’inutilità dei farmaci più largamente diffusi: assumevano quindi un atteggiamento di nichilismo terapeutico. Oggi è difficile che il medico svolga un ruolo culturale di rilievo al di fuori della sua professione, tuttavia “è bene che sia attento alle voci del mondo, come possono essere percepite attraverso l’arte e la letteratura”.
Nel Settecento, il “médecin-philosophe” Georges Cabanis, nel pieno degli eventi rivoluzionari, afferma che la medicina non è solo una tecnologia, è anche una scienza dell’uomo, un’antropologia. I suoi metodi comprendono l’osservazione e l’analisi; ma richiedono pure i metodi intuitivo-pragmatici del felice istinto, della simpatia col malato, della consapevolezza esistenziale. Quello medico è dunque un sapere “naturalistico”, cioè articolato nei tanti settori propri della scienza della natura, e insieme “umanistico”, in quanto comprensione dell’uomo sano-malato indagato in termini non settoriali. Quello medico è un sapere di confine, la cui caratteristica peculiare è lo sconfinamento, l’intersezione e il reciproco arricchimento tra le scienze della natura, la prassi basata su tali scienze (dette appunto di base) e la conoscenza-comprensione del contesto in continua evoluzione, al quale le scienze si applicano. Il metodo utilizzato è per certi aspetti di “riduzione”, per altri di “integrazione”, cioè volta a integrare gli elementi conoscitivi dei livelli di organizzazione inferiore con quelli dei livelli di organizzazione più alti. L’analisi procede dunque gradualmente dal livello chimico a quello cellulare, di tessuto, di organi, di organismo, di popolazione, fino ai livelli più elevati di analisi psicologica, sociologica, antropologica ed ecologica. La svolta epidemiologica della medicina negli ultimi decenni testimonia l’utilità dei vari piani d’analisi. La malattia non è più ricondotta a un’unica causa, bensì a più fattori di rischio che agiscono su un piano probabilistico a diversi livelli di organizzazione. Riduzione e integrazione si affiancano. Per esempio, abbandonata l’idea dell’origine monocausale del cancro, fortemente condizionata dall’idea meccanicistica di trovare il guasto nella macchina organica, oggi la medicina considera le neoplasie come il prodotto di una serie di fattori disposti a vari livelli gerarchici, da quello molecolare a quello ambientale. La medicina in quanto scienza dell’uomo è un’antropologia. Nella Grecia di Ippocrate, “una cognizione antropologica, ambientalista, naturalistica si coniugava al dialogo tra medico e paziente e a un’etica interumana che oggi diremmo politica”. Tecnica e antropologia erano parti complementari, costitutive del mestiere di medico. “Nullus medicus nisi philosophus”, proclama Galeno. L’aforisma conserva valore nel Medioevo, quando l’ideologia del cristianesimo non faceva distinzione, nella pratica, tra salute corporale e salvezza dell’anima: la condizione umana dava diritto di tendere a una “salus” comprensiva di entrambe. Ancora nel Rinascimento il sapere e l’agire del medico “fisico-filosofo” erano inseriti in una filosofia naturale, dove il microcosmo dell’uomo rispecchiava l’ordine universale. Le conquiste tecniche della rivoluzione scientifica hanno arricchito sempre più i mezzi di guarigione a nostra disposizione. Fino alle strabilianti promesse della ricerca contemporanea. I successi conseguiti hanno portato verso l’enfasi. Spesso la scienza si è mutata in scientismo, la tecnologia in tecnocrazia. Tanto che “l’uomo rischia di vestire i panni di un paziente ridotto da soggetto a oggetto e rischia di vestire l’abito di un medico ridotto a tecnico senza filosofia”. La medicina è un’attività tecnopratica basata su scienze, ma non è riducibile ad esse, in quanto è di più. Essa, diversamente dalle sue scienze di base (fisica, chimica, biologia, matematica, informatica) che indagano un oggetto, è un’attività che “ha per oggetto un soggetto, l’uomo, e si esercita non in un mondo neutro, ma in un mondo di valori”. È una relazione che si attua in un contesto di alta valenza esistenziale ed etica.
L’essere competente e disponibile è una duplice qualità essenziale per il medico. La competenza si acquisisce all’università, ma va sviluppata costantemente in tutto l’arco della vita professionale. Non si tratta di acquisire solo la conoscenza scientifica: “Il problema non è soltanto una questione di scienza, ma anche di saggezza, concernendo la capacità di formulare giudizi, spesso in condizioni non facili, e di prendere decisioni, spesso in condizioni di incertezza”. La disponibilità non si insegna; perché la sollecitudine verso il prossimo non è trasmissibile come il sapere scientifico. Tuttavia la si deve apprendere: “Ogni curante è tenuto a una ‘comprensione umana’ dell’altrui condizione”. Purtroppo questo è un aspetto ancora trascurato o male interpretato.
Sottovalutato è, anche, il ruolo dell’educazione sanitaria. Da non intendere come semplice “propaganda” di nozioni igieniche, piuttosto quale sperimentazione e adozione di comportamenti che garantiscono il benessere. La televisione può fare molto: evitando miracolismo e scandalismo, presenti in non poche trasmissioni dedicate alla salute. L’attenzione della tv va rivolta alla “cultura della salute” piuttosto che alla “cultura della malattia”, come avviene di solito. È sbagliato, inoltre, “ingenerare nel pubblico il ricorso indiscriminato a indagine ed esami (i cosiddetti ‘esami a tappeto’, la moda dei check-up), anziché invitare all’autocontrollo e all’autocura, con l’aiuto del medico”.
Per secoli l’inizio della vita non rientrava nella competenza dei medici. Il parto era affare delle comari e delle “mammane”; l’infanzia era considerata intrattabile in termini medici, data l’elevata mortalità infantile. Su queste fasi è oggi vivissima la tensione tra diverse visioni morali. L’etica medica è un campo concettuale con una lunga storia. La bioetica è, invece, una parola nuova, coniata nel 1971 da Van Rensselaer Potter (1911-2001) per definire l’area disciplinare che affronta i problemi morali e normativi della scienza in relazione al miglioramento della qualità della vita. L’antico “giuramento di Ippocrate” non basta per dipanare i dilemmi suscitati da interventi biomedici sempre più costosi, a fronte di risorse economiche invece limitate. Le ricerca della qualità della vita pone la questione dell’equità delle cure. Sin dai “Galatei medici” ottocenteschi si afferma che il medico nella sua opera di cura non tollera differenze sociali e religiose. Nel discorso “Ai medici condotti” (1908), Giovanni Pascoli giunge ad attribuire ai medici un importante ruolo di “riforma sociale”. In seguito ci si limita a chiedere al medico le classiche virtù della temperanza, giustizia, prudenza, fortezza. Ai giorni nostri, lo sviluppo tecnico-scientifico impone decisioni etiche sempre più complesse. Il medico deve talvolta prendere la decisione giusta in poco tempo. Egli può imparare dalla storia come esista sempre un pro e un contro. Ciò non gli eviterà di sbagliare.
Ma tale conoscenza lo rende più forte di fronte alle critiche. L’interesse del volume di Cosmacini e Rugarli, per l’ampiezza dei temi discussi, il rigore e la chiarezza dell’esposizione, va ben oltre l’ambito degli addetti ai lavori.