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L'utopia bancaria

di Carmelo Ferlito - 11/09/2007

I recenti sconvolgimenti finanziari che hanno coinvolto le borse mondiali sono particolarmente interessanti perché sono sorti in seno ad avvenimenti economici strettamente legati al mondo bancario: si tratta dei mutui ad alto tasso di rischio. Quanto accaduto ci interroga profondamente, perché coinvolge, attraverso il mutuo appunto, la gente comune. La domanda che sorge è la seguente: è possibile oggi, nel mondo globalizzato, pensare ad un sistema bancario che sia veramente al servizio delle persone e non orientato a manovre speculative a danno dei capitali che le persone stesse affidano agli operatori del settore? La maggior parte degli economisti oggi, probabilmente, risponderebbe negativamente a tale provocazione. Eppure la storia ci insegna che una diversa direzione è possibile.
È necessario fare un salto indietro di circa ottocento anni, al xiii secolo. Il Duecento, infatti, segna il momento di massimo splendore di un ciclo economico iniziato nell’Europa occidentale all’indomani delle crociate. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), infatti, l’Europa era sprofondata nel caos delle invasioni barbariche, perdendo molto del proprio patrimonio culturale, ma anche giuridico e commerciale. Si verrà così a creare un sistema economico, quello feudale, centrato sull’organizzazione autarchica di microsistemi autosufficienti; l’opera sarà terminata con l’avvento, nell’viii-ix secolo, dell’invasione islamica, che completerà la cacciata a Nord dei nuovi regni, espellendoli dal Mediterraneo (H. Pirenne, Maometto e Carlo Magno, Roma-Bari, Laterza, 1992). Le cose cambiarono radicalmente, come accennato, dopo il Mille, con le crociate, che permisero l’inizio di un ciclo economico espansivo che si concluderà solo con la grande peste del 1348; ciò fu possibile grazie alla ripresa dei contatti con l’Oriente bizantino, che aveva conservato immutato il suo splendore e la sua vivacità.
Gli effetti della peste nera, invece, si fecero sentire fino al 1450 circa; da questa data ebbe inizio quello che viene chiamato lungo Cinquecento, un periodo di grande espansione economica, segnato fortemente dalle nuove scoperte geografiche e che durò sino al terzo decennio del Seicento (G. Borelli, Questioni di storia economica europea tra età moderna e contemporanea, Padova, Cedam, 2001, pp. 31-60). Nell’ambito dei cinque secoli di sviluppo citati, ebbero modo di nascere e consolidarsi strumenti finanziari complessi, necessari a far fronte alle accresciute esigenze di contante: lettere di cambio, assegni, contabilità in partita doppia, fiere commerciali e cambiarie (R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, Torino, Einaudi, 1986). Parallelamente, alcune grosse famiglie avevano iniziato ad affiancare alla propria attività commerciale quella tipicamente bancaria, esponendosi finanziariamente verso altri grossi mercanti o addirittura verso le famiglie reali: il caso dei Medici di Firenze è emblematico più di ogni altro.
Mentre l’economia si apriva e tornava ad affermarsi un sistema di economia-mondo come lo era stato ai tempi dell’Impero Romano, anche nella fascia più bassa della popolazione qualcosa accadeva. Infatti, quanto descritto finora non coinvolgeva in modo diretto le piccole attività manifatturiere o agricole, che però risentivano del clima di espansione generale, in positivo certo, ma anche in negativo. Nella rinata vivacità economica chi poteva sopperire a momentanee esigenze di contante del piccolo capo-bottega di comune? Non certo la famiglia Medici e neppure i Fugger o i Welser di Germania. «Il dilatarsi dei consumi e l’estendersi della domanda ben oltre i confini della città e del contado, avevano ormai rivoluzionato le vecchie botteghe artigiane, esprimendo con sicuro processo la figura dell’imprenditore, tutto impegnato ad accrescere il volume dei beni per la prospettiva di inserirsi entro la trama delle proficue correnti del traffico internazionale. […] Le manifatture italiane dell’epoca […] apparivano sempre più condizionate dal danaro dei finanziatori, che con le loro abili manovre erano così destinati a dominare il sistema produttivo. Per tale via i benefici dell’espansione economica si mutavano in privilegio di pochi e gli stessi abili imprenditori – usciti dal mondo dei nostri gloriosi artigiani – anziché protagonisti finirono con il diventare le prime vittime del capitalismo nascente, salvo quando le circostanze li indussero a cambiare la prima vocazione imprenditoriale in quella ben più remunerativa di usurai e di banchieri» (G. Barbieri, Il pensiero economico dall’antichità al Rinascimento, Bari, Università di Bari, 1963, pp. 409-410). Alcuni predicatori, in particolare francescani, si accorsero, a partire dalla metà del Quattrocento, che le attività economiche medio-piccole rischiavano di venire soffocate da operazioni usurarie, ebraiche o cristiane.
Una vera e propria battaglia per risolvere questo problema fu portata avanti dal beato Bernardino da Feltre, che «riuscì a ravvivare le norme etico-economiche della tradizione in due precisi indirizzi: da un lato la drammatica raffigurazione dei danni spirituali e sociali del prestito usurario e il consolidamento dall’altro di un istituto, che estendesse i benefici del danaro – il fattore ormai ineliminabile del processo economico – a tutte le categorie lavorative e produttive della sua epoca in ascesa» (Barbieri, Il pensiero economico, p 412). La novità della battaglia di Bernardino fu dunque quella di non limitarsi alla predica anti-usura, ma di concepire uno strumento bancario concreto che potesse contrastarla: iniziò così la grande avventura dei monti di pietà, cinquecento anni di storia finanziaria al servizio del popolo (ampia la bibliografia in proposito; si vedano in particolare M.G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione dei Monti di Pietà, Bologna, Il Mulino, 2001 e S. Amadori, Nelle bisacce di Bernardino. Gli scritti giuridici in difesa dei Monti di Pietà, Bologna, Compositori, 2007).
Bernardino intendeva creare, e vi riuscì, degli istituti bancari che funzionassero naturalmente, non in perdita, ma senza fare usura. Le caratteristiche che accomunavano tutti gli istituti che nacquero furono le seguenti: predicazione di un padre francescano, in grado di far cogliere al popolo e alle istituzioni la necessità e la bontà del progetto; grande processione cittadina per la raccolta del capitale iniziale; struttura inizialmente molto semplice che, a partire dalla metà del Cinquecento, divenne più complessa. I monti di pietà raccoglievano i capitali necessari attraverso l’apertura di veri e propri conti correnti: i cittadini facoltosi versavano al monte i propri contanti, ricevendone una tenue, ma regolare, remunerazione, di solito attorno al 4%; diversi enti istituzionali, invece, venivano obbligati a versare presso il monte la propria liquidità. Con questi capitali i monti erogavano prestiti di diversa entità: erano di solito gratuiti per importi molto bassi, mentre per somme più elevate solitamente il tasso richiesto non superava il 6%; la garanzia era costituita da un pegno, sul quale era commisurata l’entità dell’erogazione; in caso di insolvibilità l’istituto si rifaceva vendendo l’oggetto all’asta. Potevano vivere questi istituti con uno spread di tassi così basso: sì, assolutamente sì. E la loro opera non fu marginale né tanto meno la struttura poco articolata. Prendiamo il caso veronese: a metà Settecento, in un anno, il complesso dei monasteri cittadini è esposto, presta, per lire venete 7.028.978, mentre da solo il monte di pietà, tra il primo ottobre 1759 e il 30 settembre 1760 eroga lire venete 2.816.621. Non parliamo poi della struttura: a Verona operavano nel monte circa quaranta dipendenti e i bilanci ci dicono che, pagati gli interessi passivi, gli stipendi, le altre spese di gestione, restava anche un utile, che la legge imponeva di versare in elemosina.
Nonostante la realtà desse ragione a Bernardino, visto che i nuovi enti si diffondevano con rapidità e riportando risultati gestionali di tutto rispetto, le polemiche continuarono anche dopo la prima diffusione, fino a quando giunse, nel 1515, la bolla Inter multiplices di Leone x, emanata con l’approvazione del concilio Lateranense v nella sessione del 4 maggio; essa proclamava la validità dell’esperienza attuata dai monti di pietà e sanciva la liceità del modesto onere da essi richiesto per le spese di gestione. La presa di posizione pontificia non ammetteva la produttività del capitale, ma ribadiva il principio del diritto romano in base al quale chi ottiene dei benefici è obbligato a sostenerne le spese. Il dibattito sulla liceità del prestito ad interesse, in realtà, non si placò mai all’interno della chiesa, anche se la bolla di Leone x contribuì a liberare il terreno per l’ascesa di queste nuove istituzioni creditizie, che col tempo assunsero una crescente importanza all’interno degli scenari finanziari delle diverse città italiane ed europee (per uno studio comparato su base europea si consulti Prestare ai poveri. Il credito su pegno e i Monti di Pietà in area mediterranea. Secoli xv-xix, a cura di P. Avallone, Napoli, Cnr, 2007). Tali banchi di pegno, pur nascendo con fini di sostegno ai poveri, non si limitarono a fare delle elemosine e crebbero esponenzialmente per quel che riguarda il volume d’affari; tuttavia già in partenza l’obiettivo non era quello di sostenere gli indigenti tout court, ma quello di supportare la vita materiale di chi già partecipava, se pur con difficoltà, alla realtà economica. I numeri, lo ripetiamo, davano ragione a Bernardino: solo nei territori della Repubblica di Venezia nacquero e prosperarono 70 monti di pietà (cfr. il nostro Tra conservazione e riforma. Realtà, consistenza e mutamento dei monti di pietà della Terraferma veneta al tramonto dell’Antico Regime, in corso di pubblicazione su «Annali Queriniani»).
L’esperienza dei monti di pietà sarà superata solo nell’Ottocento dalle Casse di Risparmio e dalle Banche popolari, che però ne presentavano gli stessi elementi di successo: essere uno strumento nato nel territorio e operante al servizio del territorio. In questo consiste l’utopia bancaria cui ci riferiamo. Disporre di un istituto di credito che operi in un ambiente circoscritto, raccogliendo in esso le risorse necessarie e rivolgendosi ad esso in fase di erogazione; un limitato raggio d’azione permetterebbe una politica di tassi di interesse fortemente orientata al rispetto del cliente. Subito ci si obietterà che ciò non ha senso in un’epoca di accorpamenti e globalizzazione. Non ci crediamo. La storia dimostra che questi istituti funzionarono e furono in grado di produrre utili anche in un sistema economico già globale. Certo, si tratta di adattare le forme, ma il principio base rimane valido. Riteniamo che un sistema interessante potrebbe essere la costituzione di una lega nazionale di cooperative bancarie: l’edificazione di una struttura capillare permetterebbe il raggiungimento di economie di scala per quello che riguarda la gestione di certi servizi. Un esempio: se si dovesse realizzare un sistema per l’home banking, potrebbe essere la lega a rivolgersi una volta sola ad una sola società di software; i costi sarebbero così divisi tra tutte le realtà locali, che verrebbero ad avvalersi dello stesso servizio informatico.
In definitiva, i tecnicismi sono studiabili e realizzabili. Prima di tutto è necessario trovare uomini coraggiosi che credano ancora che l’economia e la finanza possano essere al servizio dell’uomo. Devono essere coraggiosi, perché portando avanti progetti così subirebbero attacchi profondi da ogni parte. Eppure, siamo certi che una rete di istituti così funzionerebbe per le stesse ragioni per cui funzionarono i banchi di pegno francescani: perché risponderebbe ad un bisogno diffuso e, soprattutto, perché sarebbe al servizio dell’uomo.
Coraggio, ardimento e amore per l’uomo. Questi sono gli ingredienti primi. Il resto nascerà come conseguenza inevitabile.