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Ecco perché ero su quel palco

di Massimo Fini - 11/09/2007

Sarebbe un grave errore pensare che la folla che ha partecipato al riuscitissimo "'V-Day", organizzato da Beppe Grillo in Piazza Maggiore a Bologna e in altre 150 città italiane, rappresenti una parte del cosiddetto "popolo di sinistra" deluso dall'operato del proprio governo.

Così come fu un errore pensare che il milione di persone che si radunò qualche anno fa in piazza San Giovanni a Roma per protestare contro le vergognose leggi "ad personam" fosse composto esclusivamente da gente "di sinistra" (la sinistra, oggi, in piazza, mobilitando tutti gli apparati e le "truppe cammellate", è in grado di mandare, al massimo, trecentomila adepti).

Ho partecipato ad entrambe le manifestazioni, in piazza Maggiore sono intervenuto anche dal palco, insieme ad Alessandro Bergonzoni, Marco Travaglio, Sabina Guzzanti, al giudice Norberto Lenzi, oltre a Grillo che ovviamente si è riservato, con un'energia incredibile per un uomo che è vicino alla sessantina, la parte del leone, e credo di sapere di che cosa parlo. Si tratta di un movimento trasversale, formato da una miriade di gruppi non sempre omogenei, alcuni dei quali sono venuti allo scoperto, in piazza, come quelli di Grillo, di Flores D'Arcais, dei NoTav, del mio Movimento Zero, ma il cui grosso si trova, per il momento, su Internet, ed è formato in grande prevalenza da giovani, i quali chiedono certamente il ritorno ad un minimo di decenza legale e formale (i punti qualificanti del "V-Day" erano: via gli inquisiti dal Parlamento, non più di due legislature per ogni deputato o senatore, poter votare per nominativi singoli e non solo per liste dove gli eletti sono già decisi, di fatto, dagli apparati dei partiti), ma che, nella sostanza, hanno perso ogni fiducia nei partiti in tutti i partiti, e nei loro uomini, nelle classiche categorie politiche vecchie di due secoli - liberalismo e marxismo, con i rispettivi derivati, nella destra e nella sinistra - e anche, nel profondo e magari inconsciamente, nella democrazia rappresentativa.

Lo deduco anche dal modo in cui è stato recepito il mio intervento che andava ben oltre i temi del "V-Day". Pensavo che sarebbe stato accolto gelidamente da una platea fortemente legalista (le maggiori ovazioni sono toccate a Marco Travaglio che della legalità ha fatto il suo cavallo di battaglia). Ho infatti detto che ero d'accordo con i temi del "V-Day" (figuriamoci se non lo sono, anch'io batto, da anni, sul tasto della legalità come sanno i lettori di questo giornale), ma che rischiavano di mascherare la questione di fondo che riguarda proprio l'essenza della democrazia rappresentativa. Che è un imbroglio, una truffa, "un modo, sicuramente sofisticato e raffinato, per ingannare la gente, soprattutto la povera gente, col suo consenso". E che questo non è un problema italiano, anche se certamente il nostro sistema presenta aspetti degenerativi specifici, ma di tutte le democrazie occidentali, particolarmente inquietante in un periodo storico in cui queste stesse democrazie pretendono di omologare a sè, con la propaganda ideologica, la propria economia e, se del caso, le bombe e l'intero esistente. Ma che la rivolta contro la "democrazia reale", quella che concretamente viviamo, inizi dal nostro Paese è molto interessante perchè l'Italia, nel bene e nel male, è sempre stata uno straordinario laboratorio di novità (l'ascesa della classe mercantile, che porterà alla Rivoluzione industriale che ha cambiato il nostro intero modo di vivere, inizia a Firenze e nel piacentino, il fascismo nasce qua, persino il berlusconismo, che io considero un fenomeno postmoderno - non è vero che Berlusconi imita Bush, è vero il contrario - è un fenomeno che prende il via dall'universo mediatico italiano).

Innanzitutto non si è mai capito bene cosa sia davvero la democrazia. È un animale proteiforme, mutante, cangiante, sfuggente. Lo stesso Norberto Bobbio, che pur ha dedicato a questo tema la sua lunga e laboriosa vita, scrive in un passaggio che i presupposti fondanti della democrazia sono nove, in un altro ne indica sei, in un altro ancora tre e alla fine ne dà una definizione talmente risicata da perdere qualsiasi senso. In ogni caso si può dire che la "democrazia reale" non rispetta nessuno dei presupposti che, almeno nella "vulgata", le vengono attribuiti. Prendiamone, a mo' di esempio, solo due. 1) Il voto deve essere uguale. Il voto di ogni cittadino non deve valere nè di più nè di meno di quello di qualsiasi altro. 2) Il voto deve essere libero. Deve cioè essere conseguenza di una scelta spontanea e consapevole fra opzioni effettivamente diverse. I governanti devono avere un reale consenso da parte dei governati.

Bene. Il voto non è uguale e il consenso è taroccato. Sul primo punto ha detto parole definitive la scuola elitista italiana dei primi del Novecento: Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Roberto Michels. Scrive Mosca ne "La classe politica": «Cento che agiscano sempre di concerta e d'intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra di loro». Il consenso è taroccato perchè ampiamente indirizzato dai massmedia, in mano alle oligarchie economiche e politiche, che non per nulla vengono, spudoratamente, chiamati gli "strumenti del consenso". E lo stesso si può dire per tutti gli altri presunti presupposti della democrazia che Hans Kelsen, che non è un marxista nè un estremista talebano, ma un giurista liberale, considera una serie di "fictio iuris".

Nella realtà la democrazia rappresentativa non è la democrazia ma un sistema di minoranze organizzate, di oligarchie, di aristocrazie mascherate, politiche ed economiche, strettamente intrecciate fra di loro e, spesso, con le organizzazioni criminali - quando non siano criminali esse stesse - che il liberale Sartori definisce, pudicamente, "poliarchie", che schiacciano il singolo, l'uomo libero, che non accetta di sottomettersi a questi umilianti infeudamenti, cioè proprio colui di cui il pensiero liberale voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e invece ne diventa la vittima designata.

Del resto senza tanti discorsi teorici lo vediamo tutti, lo sentiamo tutti che noi cittadini non contiamo nulla. La nostra unica libertà è di scegliere, ogni cinque anni, legittimandola, come l'unzione del Signore legittimava il Re, da quale oligarchia preferiamo essere dominati, schiacciati, umiliati. Non siamo che sudditi.

Kelsen scrive: «Si potrebbe credere che la particolare funzione dell'ideologia democratica sia quella di mantenere l'illusione della libertà». E si chiede come «una tale straordinaria scissione fra ideologia e realtà sia possibile a lungo andare».

Me lo chiedo anch'io da tempo. E ho concluso così il mio intervento: «Le democrazie (inglese, francese, americana) sono nate su bagni di sangue. Ma non accettano, nemmeno cencettualmente, di poter essere ripagate dalla stessa moneta. Anzi hanno posto, come una sorta di "norma di chiusura" per dirla con lo Zietelman, che la democrazia è il fine e la fine della Storia. Saremmo quindi tutti condannati, per l'eternità, a morire democratici. Ma la Storia non finisce qui. Finirà, con buona pace di Fukujama e di tutti i Fukujama della Terra, il giorno in cui l'ultimo uomo esalerà l'ultimo respiro. Non sarà certamente la nostra generazione, quella mia e di Beppe Grillo, non sarà questo ludico "V-Day" a cambiare le cose, ma verrà un giorno, non più tanto lontano, in cui la collera popolare abbatterà questa truffa politica, come, in passato, è avvenuto con altre». Ovazione.