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Voltar le spalle alla grazia: il peccato d'origine della modernità

di Francesco Lamendola - 12/09/2007

 

 

 Nel precedente articolo Possiamo contare solo su noi stessi per realizzare l'oltre-uomo?, abbiamo svolto una riflessione su quella forza benefica, misteriosa, esterna alla coscienza, che sembra intervenire nelle nostre viste, e specialmente nei passaggi difficili, per sostenerci, incoraggiarci, aiutarci. La religione cristiana parla di "grazia"; noi, comunque, ci siamo sforzati di esaminare la questione, per quanto possibile, da un punto di vista neutro e spassionato, "laico" se si preferisce, affinché non sorgessero malintesi e fosse ben chiaro che non è necessario riconoscersi in una determinata confessione religiosa, anzi che non è neanche necessario riconoscersi credenti per ammettere (quantomeno come ipotesi di lavoro) che tale presenza benefica esiste e che si manifesta in svariate e provvidenziali occasioni sotto forma di sogni, premonizioni, fenomeni parapsicologici (telepatia, chiaroveggenza, psicometria, apporto di energia psico-fisica superiore al normale o anche, semplicemente (si fa per dire) coincidenze altamente significative che paiono indicarci la via giusta da seguire, come un faro nella nebbia nel mare in tempesta. Un non credente darà loro un altro nome: Jung le chiamava sincronicità, mentre gli studiosi dell'area anglosassone amano il termine serenditipty; ma che importa?, non è questo il problema. Lasciamo che gli sciocchi, quando si indica loro la Luna con il dito, guardino la punta del dito; e concentriamoci non sui nomi delle cose o, peggio, sulle etichette ideologiche o confessionali che quei nomi possono far supporre, ma sulla sostanza delle cose.

Il punto centrale è che, forse, non siamo soli nel difficile cammino che conduce dall'uomo materiale all'uomo spirituale o, se si preferisce un'altra terminologia, dall'uomo all'oltre-uomo; che, nei passi rischiosi del sentiero di montagna, una guida esperta e silenziosa ci accompagna e veglia su di noi, riportandoci sul terreno sicuro ogni qual volta stiamo per mettere il piede nel vuoto. Stiamo parlando in modo figurato, ma non solo (la vita è più stupefacente di qualunque fantasia): c'è, infatti, chi ha fatto davvero una simile esperienza, proprio in senso strettamente fisico. Il sacerdote francese André Dupeyrat, missionario del Sacro Cuore d'Issoudun, ha soggiornato per ben 21 anni fra le tribù più isolate della Nuova Guinea, dal 1929 al 1950, accostandole con animo di studioso oltre che di uomo di Chiesa, imparandone gli idiomi, familiarizzandosi con i loro usi e costumi. Nel 1935, durante un soggiorno in Francia, a Reully, aveva conosciuto - tramite il professor Paul Guignard, una donna gravemente malata e paralizzata da 30 anni nel suo letto, Jeanne Thibault,  esempio commovente di rassegnazione cristiana e di alta spiritualità. L'incontro si concluse con la promessa, da parte di lei, di pregare per il missionario quando sarebbe tornato nella lontana Nuova Guinea.

Tre anni dopo (egli aveva quasi dimenticato quel colloquio) padre Duperyrat stava percorrendo un sentiero spettacolare fra le montagne della Papuasia, un sentiero a fil di rasoio che sovrastava il mare da un'altezza di 1.000 metri, tutti a strapiombo. Era il 24 febbraio 1938. Ecco come lui stesso ha annotato gli eventi di quella escursione nel diario che, all'epoca, teneva quotidianamente:

 

"A destra e a sinistra, due nastri di schiume, che si svolgono a quasi 1.000 metri più in giù e che noi dominiamo quasi verticalmente. La vista è splendida. Ma per poco non mi costa la vita. Proprio prima di intraprendere la salita del primo colle, avevo sbattuto violentemente il ginocchio contro un ceppo, dissimulato dall'erba, e mi ero procurato una piaga e una contusione. Camminavo male. In cima alla prima gobba, fui talmente preso dalla bellezza del paesaggio che, col naso in aria, non mi accorsi di una svolta della cresta. Misi il piede nel vuoto… Una forza misteriosa mi respinse di lato."

 

Una annotazione molto sobria, come si vede; e nient'altro. «Una forza misteriosa mi respinse di lato». Egli non percepì, al momento, la stranezza del fatto; e forse lo avrebbe presto dimenticato se,  poco tempo dopo, non avesse ricevuto una lettera dell'amico Guignard, datata da Issoudun il 19 maggio 1938, che gli scriveva testualmente:

     

      "Un giorno, a Reully, ho trovato la nostra santa amica terribilmente affranta, dopo settimane di dolori atroci. Poteva appena parlare. Le dissi che voi eravate in viaggio di esplorazione e in quali condizioni, domandandole un aumento di preghiera per le missioni di Papuasia. Mi rispose semplicemente, con un fil di voce appena percettibile: 'La mia giornata di giovedì scorso forse gli ho salvato la vita.' Doveva essere il giovedì 24 febbraio.

     "Qualche tempo dopo, ebbi notizia che Giovanna Thibault era morta il 24 maggio 1938.

 

Padre Dupeyrat si rese conto immediatamente che la frase della morente: «La mia giornata di giovedì scorso forse gi ha salvato la vita» alludeva proprio a quel mattino sul sentiero strapiombante, allorché egli aveva messo il piede in fallo e sembrava destinato a morte certa. Il commento del sacerdote francese è breve ed eloquente:

 

      "Si confrontino ora le date del mio incidente sulla cresta a fil di rasoio e del giorno in cui la 'malata cristiana' pronunciò impercettibilmente le parole che rivelavano il valore delle sue sofferenze; sofferenze che erano state più atroci proprio durante il periodo di quella esplorazione, nella quale, più di una volta, sfuggii alla morte. La coincidenza è troppo straordinaria, per essere casuale…

     "Io credo nella Comunione dei Santi."

 

      (DUPEYRAT, André, 21 ans chez les Papous, con prefazione di Paul Claudel, Paris, 1952, tr. it. col titolo Nel Paese degli uccelli paradiso, Milano, Massimo, 1956, pp.191-195).

 

Ora, tornando al nostro assunto iniziale dobbiamo riconoscere che l'umanità ha creduto a questa forza potente, benefica e misteriosa per secoli e secoli e vi ha trovato una fonte di consolazione, speranza ed energia per affrontare le difficoltà della vita. Per secoli e secoli, gli uomini hanno serbato l'intima convinzione di non essere soli sulle strade del mondo, di non essere abbandonati a sé stessi ma, al contrario, di essere silenziosamente accompagnati e sostenuti dall'amore divino, dalla Grazia. Anche il più solo e il più misero degli esseri umani sentiva una tale presenza, la percepiva come una luce nella notte.

Poi, a un certo punto, più nulla. Sparita l'idea della Grazia, scomparsa la certezza di una provvidenziale presenza dell'amore divino sulle strade del mondo, l'orizzonte della vita si è svuotato di questa consolante certezza. Gli uomini hanno calcato la terra orgogliosamente e hanno ritenuto di potersi fondare unicamente sulle proprie risorse: e lo hanno chiamato coraggio. Di colpo, l'idea della Grazia è apparsa un qualche cosa di puerile, di superstizioso: il fardello imbarazzante di una umanità bambina che aveva paura di camminare da sola, che non si fidava delle proprie forze e si inventava fumosi surrogati della fiducia in sé stessa.

Quando si è verificato un tale, brusco cambiamento? Con l'inizio della modernità e, in particolare con l'avvento della cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo. Hanno incominciato i filosofi del tardo Rinascimento, Machiavelli in primis, e hanno continuato Galilei e, Cartesio e Newton: a dispetto del fatto che Galilei e Cartesio si professassero buoni cattolici e Newton dedicasse gran parte delle proprie fatiche allo studio della teologia. Di fatto, costoro hanno cacciato la Grazia dal mondo e hanno fondato il regno dei valori immanenti, con al centro un essere umano ben deciso a insignorirsi della natura. Il Creato è diventato il mondo, la gratitudine verso le cose è stata sostituita dalla loro manipolazione indiscriminata (vedi la Nuova Atlantide di Francis Bacon), l'Essere è caduto in oblio mentre sono stati divinizzati gli enti. Dalla prospettiva dell'assoluto si è passati a quella del relativo: nella politica, nell'etica, nell'estetica, ecc.; dalla prospettiva dell'eterno a quella del temporale; dal senso del dovere alla pretesa di sempre nuovi diritti. L'ottica del mercante, il protagonista della rivoluzione economica e culturale del XVII secolo, basata sulla quantificazione e sulla mercificazione delle cose, si è estesa alla cultura, alla ricerca scientifica, alla stessa filosofia, culminando nell'empirismo, nell'utilitarismo e nel pragmatismo di matrice anglosassone. Un grande filosofo come Leibniz, che aveva avuto il torto di parlare di armonia prestabilita fra la sfera del materiale e quella dello spirituale (versione aggiornata della Grazia divina) è stato deriso e messo alla berlina dai lazzi scomposti di Voltaire, autentico portabandiera della modernità, che ha anche deliberatamente travisato e messo in caricatura la teoria leibniziana del migliore dei mondi possibili, facendola passare per l'acritica celebrazione dell'esistente e, implicitamente, per una forma di tacita approvazione di tutto quanto al mondo è storto, ingiusto e doloroso.

Dove ci abbia condotti questo sedicente progresso (che, dice giustamente Kierkegaard, esplicandosi unicamente nel campo del relativo costituisce in effetti un regresso), sia detto senza alcun discutibile compiacimento, è sotto gli occhi di tutti. Respinta l'idea della Grazia, al punto che solo il fatto di nominarla è divenuto tabù (così come lo è divenuto il concetto di anima), che cosa abbiamo messo al suo posto per aiutarci nei passi difficoltosi della vita? Un Logos strumentale e calcolante che vede ovunque non essenti forniti di autonomia e intrinseca dignità, ma strumenti per il proprio dominio, per il proprio profitto e per il proprio piacere; l'ebbrezza di una razionalità chiusa in se stessa e che rifiuta e delegittima ogni altra forma di conoscenza del mondo che non sia quella scientifico-matematica (Galilei docet); una hybris tracotante e smisurata che ha abolito, col senso del mistero, ogni senso del limite e che pretende di farsi norma a se stessa, sulla base di uno sviluppo illimitato che sta portando l'intero ecosistema terrestre alla catastrofe, l'economia mondiale  al collasso e il rapporti sociali, compresi quelli familiari, alla disintegrazione e all'homo homini lupus di hobbesiana memoria.

È questo che vogliamo? È così che intendiamo proseguire, è questo il mondo che pensiamo di lasciare in eredità ai nostri figli? I Romani avevano coniato un'espressione molto efficace per descrivere una situazione come quella in cui noi, figli orgogliosi della modernità, ci stiamo cacciando. Dicevano: Quem Deus vult perdere, dementat, ossia: «Dio toglie il senno a colui che vuole mandare in rovina». Naturalmente, non nel senso letterale che Dio voglia rovinare qualcuno e pertanto lo faccia impazzire; ma in quello figurato, di qualcuno che è talmente deciso a rovinarsi con le sue stesse mani, che perde il contatto con la realtà e offusca da sé stesso la propria mente. Dice San Paolo nella Lettera ai Romani: (1, 21-22) «Si sono smarriti in stupidi ragionamenti e così non hanno capito più nulla. Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti…».

Quand'è che ci decideremo a ritrovare il senno perduto, mettendo da parte un poco della nostra folle presunzione?