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La fretta di ridurre la storia in briciole

di Robert Fisk - 12/09/2007

 
Cosa hanno le immagini scolpite? Perché noi umanoidi siamo così inclini a distruggere i nostri volti, fare a pezzi la storia dell’uomo, cancellare la memoria della lingua? Mi sono occupato come giornalista dello stupro della cultura bosniaca, serba e croata nell’ex Jugoslavia - la deliberata demolizione delle chiese, delle biblioteche, dei cimiteri e persino del magnifico ponte ottomano di Mostar - e ho avuto modo di ascoltare le scuse. «Non c’è posto per questa roba vecchia», sembra abbia detto il soldato croato mentre sparava con il suo pezzo di artiglieria contro la bellissima arcata ottomana sulla Neretva. La registrazione del crollo del ponte è stata una immagine di genocidio culturale - che ha preceduto quello compiuto dai talebani quando hanno fatto saltare in aria i giganteschi Buddha di Bamian.
All’inizio della settimana ammiravo un altro gigantesco Buddha - questa volta a Dushanbe, capitale del Tagikistan, a poche centinaia di miglia dal confine afgano. Il gigante dormiva così delicatamente che ho percorso in punta di piedi i quasi 130 metri della sua base e l’ho fatto bisbigliando per paura di svegliare questa creatura con le fattezze di un Modigliani, gli occhi chiusi e il naso che assomigliava ad un pendio sul quale avremmo potuto sciare. Si era salvato dalla furia degli iconoclasti, ho pensato, fin quando mi sono accorto che anche questo dio dispensatore del karma era stato dissacrato.

La parte superiore della testa, il naso e gli occhi sono intatti, ma la metà inferiore del viso è stata restaurata di recente mentre il lungo corpo è stato ricostruito per tre quarti con la mano non danneggiata posata sul fianco ed è adagiato sulla gamba sinistra con le pieghe degli abiti bene in vista. Che cosa è successo a questo Buddha? Sicuramente i talebani non sono arrivati a Dushanbe. Una giovane curatrice del museo di belle arti di Dushanbe mi ha spiegato in un inglese corretto, ma scolastico: «quando sono arrivati gli arabi hanno abbattuto tutte queste opere d’arte considerandole una manifestazione di idolatria», mi ha detto. È andata proprio così. Le forze dell’Islam sono arrivate nell’attuale Tagikistan intorno al 645 d.C. - erano i talebani dell’epoca, con le barbe in tutto simili a quelle dei loro successori del ventesimo secolo, senza televisori da mandare al macero, ma con molti Buddha da distruggere. In che modo si salvarono da questa prima razzia i Buddha di Bamian?

Il tempio buddista di Vakhsh, a est di Qurghonteppa era nuovo (aveva cento o duecento anni) quando arrivarono gli arabi e il museo ospita l’“opera” di questi distruttori di idoli sotto forma di numerosi reperti ben conservati. Il trono sembra essere stato colpito con le spade e la statua di Shiva e di sua moglie Parvati (dal sesto all’ottavo secolo) è stata danneggiata da questi antichi talebani al punto che sono rimasti solamente i piedi e la mucca sacra distesa sotto di loro.

Originariamente scoperta nel 1969, dieci metri sottoterra, la statua di “Buddha in Nirvana” è stata portata a Dushanbe a seguito della distruzione dei Buddha in Afghanistan. In altre parole, gli eccessi dei talebani hanno ispirato la conservazione post-sovietica. Se non possiamo più ammirare i volti delle potenti divinità di Bamian perché il «Dipartimento per la Soppressione del Vizio e la Tutela della Virtù» di Kabul ha ritenuto che dovessero essere cancellate dalla faccia della terra, possiamo ancora guardare questa divinità nella posizione del “leone dormiente” ora che è stata spedita a Dushanbe dai locali eredi del mostruoso impero di Stalin. Un pensiero che induce a qualche riflessione.

Un certo B.A. Litvinsky è stato responsabile del primo gesto di pietà architettonica. La statua è stata portata nella capitale del Tagikistan in 92 pezzi. Non molto tempo fa è arrivata una delegazione cinese che ha chiesto di portare in Cina il Buddha dormiente, ma gli è stato risposto che potevano solamente fotografare questo capolavoro - e forse questa è la genesi del “nuovo” Buddha nella Repubblica Popolare cinese.

Inutile dire che ci sono molti altri frammenti - animali, uccelli, demoni - che hanno compiuto il viaggio dal monastero al museo. E non ho potuto fare a meno di pensare che gli arabi si sono comportati non peggio degli scherani di Enrico VIII quando si misero all’opera nelle grandi abbazie dell’Inghilterra. Persino nella chiesetta di East Sutton, sopra Weald nel Kent, sono state dissacrate le immagini scolpite durante il periodo più glorioso della storia inglese. Non è forse vero che le nostre cattedrali sono piene di volti deturpati a testimonianza del fatto che siamo dei veri e propri talebani protestanti?

Comunque l’arrivo della scrittura araba consentì il fiorire della nuova poesia tagika - Ferdowski era tagiko e scrisse «Shanameh» in arabo - e a Dushanbe potete ammirare le più squisite iscrizioni tombali dell’epoca di re Babar con i versetti arabi scolpiti con cura coranica nella pietra nera e liscia. Tuttavia quando Stalin annesse il Tagikistan all’impero sovietico - consegnando crudelmente le storiche città tagike di Tashkent e Samarcanda alla nuova repubblica dell’Uzbekistan al solo scopo di mantenere vivo l’odio etnico - i suoi commissari misero al bando la lingua araba. Tutti i bambini furono costretti ad imparare il russo e, se anche scrivevano in tagiko, dovevano usare l’alfabeto cirillico non quello arabo.

Mustafa Kemal Ataturk ha, in maniera non dissimile, “modernizzato” la Turchia del suo tempo costringendo i turchi a passare dai caratteri arabi a quelli latini (e temo sia questa una delle ragioni per cui i moderni studiosi turchi incontrano difficoltà nello studio di vitali testi ottomani sull’Olocausto degli armeni del 1915). Liberarsi della lingua scritta e della storia sembra meno pericoloso. Non abbiamo forse tentato di fare la stessa cosa in Irlanda costringendo i preti cattolici a diventare sempre meno colti in modo da far sopravvivere la lingua irlandese solo in forma parlata e non scritta?

E così le coppie e i bambini tagiki che vengono a Dushanbe per dare uno sguardo al loro passato non sono in grado di leggere lo «Shahnameh» così come fu scritto - e non sono in grado di decifrare l’elegante poesia persiana scolpita su queste straordinarie lapidi. Ecco una piccola vittoria contro l’iconoclastia, forse la prima traduzione in inglese di una di queste antiche pietre che oggi pochi tagiki sono in grado di capire: «Ho sentito il potente Jamshed, il Re, scolpito su una pietra vicino ad una sorgente dire queste parole: molti - come noi - si sono seduti accanto a questa sorgente e hanno lasciato questa terra in un batter d’occhio. Abbiamo conquistato il mondo intero con il nostro coraggio e la nostra forza. Eppure non possiamo portare nulla con noi nella tomba».

Accanto alla stessa chiesa di East Sutton nel Kent c’è ancora una lapide inglese la cui iscrizione leggevo ogni qual volta, nei sabati invernali, prendevo una scorciatoia per tornare di corsa dalla scuola di Sutton Valence. Non ricordo a chi è dedicata la scritta, ma ricordo il verso inciso sopra il nome: «ricordami mentre mi passi accanto, ero un tempo come tu sei ora. Sarai un giorno come io sono. Ricorda che la morte ti seguirà».
E ricordo, esausto e gelato con indosso solamente una tuta leggera, che ho finito per odiare questo messaggio al punto che talvolta mi veniva voglia di prendere un martello a fare a pezzi tutto quanto. Sì, da qualche parte nel profondo dei nostri cuori di tenebra, forse siamo tutti talebani.