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La decolonizzazione Usa e Urss a favore delle industrie delle armi

di Giovanni Armillotta - 12/09/2007

 

La decolonizzazione Usa e Urss a favore delle industrie delle armi


Il perché io abbia scritto il presente saggio trae origini da un puro caso. Ero presente ad un seminario sulla decolonizzazione, e là ho preso coscienza come il luogo comune ereditato da sorpassate ideologie Est-Ovest, non sia appannaggio solamente di vecchi album di famiglia – ma alberghi in giovani leve sprovvedute, sia pure in buona fede.
Ascoltare che la decolonizzazione antianglo-franco-lusitana dal 1950 al 1960 (anche antilusitana! con deragliamento trilustrale) sia stata frutto di sanguinose lotte di liberazione, oltre che essere risibile, desta pure gravissime perplessità.
Mi sembrava non un’aula d’ateneo, bensì una di quelle famose stanze d’antan di scuole di partito, ma con una differenza. I “professori” di quelle antiche scuole erano a conoscenza di entrambi i corni della questione, mentre i maestrini di oggi hanno imparato a memoria solo l’altro corno, quello surrettiziamente lasciato in eredità dagli ancora filosovietici dentro. Dare ad intendere che Mosca abbia favorito la decolonizzazione contro la volontà degli Stati Uniti dimostra che la geopolitica non è soltanto non studiata o incompresa, ma che lo stesso buon senso faccia fatica a nuotare nella materia grigia o d’altro colore.
Le necessità delle coeve superpotenze di surrogare i sorpassati Paesi coloniali per acquisire, al momento pacificamente, i nuovi limites per lo spartimento delle zone d’influenza ed esportare la guerra dal vecchio Continente (1914-45) al Terzo Mondo (dal 1960-61) – onde favorire le proprie industrie belliche – non è un qualcosa di arcano, o magari fatto proprio da qualche studioso originale, o dai vari centri sociali del nostro Paese e dal movimento no-global. Esso è stato la prima esigenza delle necessità del nuovo ordine mondiale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Scrive l’Ambasciatore Guido Lenzi (1):
“La fase successiva [al perseguimento di una pace perpetuta di stampo illuminista occidentale, ndGA], derivata anch’essa dalla Carta dell’ONU (che con appositi protettorati ne controllò direttamente l’avvio), fu il processo di decolonizzazione sospinto dagli Stati Uniti (non si dimentichi la crisi di Suez nel 1956) e sobillato dall’Unione Sovietica (che ne approfittò per procedere in direzione opposta, da Budapest, in quello stesso anno, fino all’impresa per lei terminale in Afghanistan).
Si trattò di un processo precipitoso, che lasciò (non provocò, come afferma chi ha sempre da ridire) delle zone di anarchia, dei regimi personali o apertamente dittatoriali, risoltisi col tempo negli Stati falliti ai quali siamo oggi confrontati. Più antica ma altrettanto problematica, anch’essa accudita dagli occidentali (sempre loro) che li emanciparono dall’Impero ottomano, si è rivelata la creazione degli Stati arabi mediorientali” (2).
Cinque anni prima il Prof. Steven Hugh Lee dell’Università della Columbia Britannica a Vancouver, aveva affermato:
“Poiché alla fine della guerra [1945, ndGA] gli Stati Uniti erano la potenza più forte a livello mondiale, la politica dell’amministrazione fiduciaria era destinata chiaramente a favorire i loro interessi, come parte integrante dell’imperialismo neoliberale americano, che ridimensionava il protezionismo e metteva sempre più l’accento sull’accesso ai mercati, sulla riduzione delle tariffe e sulla politica economica della ‘porta aperta’. Di questo si resero conto gli inglesi, che rischiavano di perdere gran parte del prestigio internazionale e del potere in caso di decolonizzazione.
Nel 1943 il ministro degli Esteri britannico, Antony Eden, osservò sagacemente che Roosvelt ‘sperava che le ex colonie, una volta libere, finissero per dipendere politicamente ed economicamente dagli Stati Uniti, senza nemmeno dubitare che ciò potesse avvenire a vantaggio di altre potenze’” (3).
Passi la sprovvedutezza, passino le gennarate, passino gli errori marchiani e le frasi fatte, ma non passi l’ignoranza di fondo.
Quell’ignoranza che elimina i tre primi grandi contributi che l’ONU ha offerto alla comunità internazionale. La decolonizzazione anni Cinquanta-Sessanta (benedetta dalla Casa Bianca e dal Cremlino) quale conquista pacifica da parte di colonizzatori e colonizzati.
L’apporto decisivo di alcuni Paesi guida afro-asiatici al riscatto dei popoli, da essi ottenuto cercando di opporsi alle manovre dell’imperialismo statunitense e del socialimperialismo sovietico. Ed il grande lascito giurisprudenziale che l’Assemblea Generale dell’ONU ha elaborato a favore del diritto internazionale e delle Genti, per i valori etici dell’indipendenza. Per cui la decolonizzazione non fu opera del sangue, ma del diritto e degli uomini, siano essi stati di buona volontà o puramente degli scaltri diplomatici oppure degli accorti mercanti, e non dovuta ad altro.
È vero: dopo si ebbe lo sviluppo dei movimenti e delle guerre di liberazione nazionale, ma essi più che all’iniziativa della volontaria violenza di persone e idee, furono un’imposizione di Washington e Mosca, fomentate nelle zone indefinite e/p grigie, una volta stabilite alessandrine linee di confine in Africa, Asia e pure America Latina (inizio anni Settanta).
Inoltre è bene ricordare che il processo di decolonizzazione avviato dall’ONU, coincise con l’acme della guerra fredda: il conflitto per la Corea. Alcuni Paesi – con in testa l’India (che assunse un atteggiamento equidistante di mediazione fra le due superpotenze) – cercarono di sganciarsi dalla tutela di Washington e Mosca, per evitare di essere coinvolti nelle loro dispute belliche. La Jugoslavia (scomunicata da Stalin nel 1948), l’Indonesia (indipendente una seconda volta nel 1949 [4]), l’Egitto (repubblica dal 1953) e successivamente il Ghana, assieme a Nuova Delhi, posero le basi di quello che poi sarà il Movimento dei Paesi Non-Allineati. Il termine non-allineati fu coniato dal premier indiano Jawaharlal Nehru, durante un discorso tenuto a Colombo (5) nel 1954.

(Primo paragrafo di: Giovanni Armillotta, La decolonizzazione secondo lo schema giuridico del diritto internazionale, in «Relaciones Internacionales», Universidad Nacional de la Plata, Facultad de Ciencias Jurídicas y Sociales, Instituto de Relaciones Internacionales, N. 32/2007, Diciembre 2006-Mayo 2007, pp. 55-80)