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Quando l'Europa si allinea agli Stati uniti

di Caroline Pailhe - 18/12/2005

Fonte: Il Manifesto

 
Durante la sua visita a Parigi nel settembre 2005, Daniel Fried, vice segretario di stato americano incaricato degli affari europei, si è rallegrato del «messaggio determinato» rivolto all'Iran dall'Unione europea (Ue). Ritiene sia «la cosa giusta». Elogiando il realismo e la determinazione della Francia «che non si vergogna dell'uso ragionato della forza», Fried sottolinea che Washington «vuole un'Europa forte, che si affermi non come contrappeso o rivale [degli Stati uniti], ma come un partner nel mondo (1)». Vero è che dopo la dichiarazione del marzo 2003, del presidente George W. Bush sulla fine delle ostilità in Iraq, gli europei non hanno mancato occasione di rassicurare il loro partner transatlantico sulla convergenza dei comuni interessi di sicurezza, senza mai proporre una propria agenda. E il dossier nucleare iraniano, che preoccupa la comunità internazionale da più di due anni, è uno dei primi test di questo rinnovato partenariato, in cui europei e americani lavorano in tandem sul modello dei due sbirri: lo «sbirro buono» e lo «sbirro cattivo».
Nelle trattative con Tehran, la troika costituita da Germania, Francia e Regno unito, lavora certo in modo più paziente, ma con gli stessi strumenti di Washington, attorno al continuum «diplomazia, minaccia di sanzioni e minaccia dell'uso della forza». Una politica che alla fine tende ad un unico obiettivo: impedire a uno stato giudicato ostile di portare avanti un qualsiasi ciclo nucleare autonomo, sia pure per usi civili, anche se autorizzato dal trattato di non proliferazione (Tnp) e sotto l'attenta sorveglianza dell'Agenzia dell'energia atomica (Aiea).
Secondo l'accordo di Parigi del 15 novembre 2004, firmato con l'Iran dalla troika, i negoziati avevano due scopi precisi. Gli iraniani dovevano «fornire garanzie obiettive che il [loro] programma nucleare avesse una finalità strettamente civile» e gli europei dovevano dare «solide garanzie relative a una cooperazione nucleare, tecnologica ed economica e seri impegni nel campo della sicurezza». Come pegno di buona fede, Tehran decideva in modo unilaterale di bloccare temporaneamente, durante i negoziati, tutte le attività legate all'arricchimento e al ritrattamento dell'uranio e di continuare ad applicare, anche prima della sua ratifica, il protocollo supplementare dell'Aiea firmato nel dicembre 2003 (leggere pagine 20 e 21).
Ma, nell'agosto 2005, gli europei propongono al nuovo presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad un accordo che consiste, secondo un diplomatico europeo, in «una graziosa scatola vuota, confezionata con molta carta da regalo (2)». Perché se la proposta prevede la prosecuzione del dialogo e la possibilità di cooperazione in molti settori, le promesse dell'Unione restano vaghe, mentre le richieste nei confronti dell'Iran sono molto gravose (3). In sostanza l'Europa esorta Tehran ad abbandonare definitivamente le attività di arricchimento e ritrattamento dell'uranio, senza darle alcuna garanzia in merito alla possibilità di ottenere, fuori dalle sue frontiere, il combustibile nucleare necessario allo sviluppo del programma nucleare civile.
In sintesi, la posizione europea si allinea a quella di Washington e di Tel Aviv. La sola «garanzia obiettiva che il programma iraniano ha [abbia] una finalità strettamente civile» discende, per i negoziatori occidentali, dal blocco definitivo delle attività di arricchimento e ritrattamento dell'uranio e del plutonio da parte dell'Iran, attività peraltro contemplate dall'articolo 4 del Tnp.
Infine, neppure rispetto alle garanzie richieste da Tehran in materia di sicurezza, gli europei hanno fatto maggiori concessioni. Si sono limitati a riaffermare gli obblighi internazionali sull'argomento.
A livello regionale, pur riconfermando il loro sostegno a un Medioriente privo di armi di distruzione di massa, in accordo con la risoluzione 687 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, adottata nel 1991 nel quadro della prima guerra del Golfo, la proposta europea tace sui punti concreti che permetterebbero di raggiungere questo obbiettivo. Tuttavia, secondo ogni logica, il dossier iraniano non può essere risolto senza garantire Tehran contro un eventuale colpo di mano, e senza prevedere con fermezza il disarmo dell'intera regione, di cui si conosce l'instabilità, rafforzata dall'idea della presenza in Israele, al di fuori di qualsiasi controllo, di duecento testate nucleari.
L'Unione non ha dunque la volontà politica di offrire compensazioni significative, tali da modificare gli obiettivi di Teheran e rendere possibile un compromesso. Il problema è che la crisi non riguarda solo il dossier nucleare. Essa coinvolge una serie di aspetti politici e strategici, la cui chiave non si trova in Europa, ma bensì a Washington.
E la Casa bianca non tratta con uno «stato canaglia», né con un «avamposto della tirannia», ma chiede un «cambio di regime», se necessario con la forza.
Ora, ritenendo ormai esaurite le risorse della diplomazia in questo dossier, gli europei, appoggiati dagli Stati uniti, inaspriscono il tono e pensano a misure coercitive, minacciando di portare la questione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Quanto all'azione militare preventiva, cara all'attuale amministrazione americana per la quale «tutte le opzioni sono possibili», non è affatto così «inconcepibile» nel quadro dell'Ue, come sostiene il ministro britannico degli Affari esteri, Jack Straw (4).
Nel 2003, sempre sullo slancio della guerra in Iraq, le istituzioni europee e gli stati membri non hanno infatti risparmiato gli sforzi per tracciare una linea di condotta di fronte alle «nuove minacce» internazionali, facendo proprie le preoccupazioni americane sulla sicurezza e senza differenziarsi veramente dalla visione e dalla strategia di Washington per farvi fronte.
Nel dicembre 2003, l'Unione europea ha adottato una «Strategia dell'Ue contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa», che permette di capire la politica degli stati membri rispetto alla questione iraniana (5). Anche se la lotta contro la proliferazione predilige innanzitutto azioni non militari, in particolare privilegiando il dialogo politico e il rispetto dei trattati internazionali, il testo prevede che «qualora fallissero le misure [preventive], si possa passare a misure coercitive nel quadro del capitolo VII della Carta delle Nazioni unite e del diritto internazionale (sanzioni, selettive o globali, intercettazione di importazioni e, se necessario, ricorso alla forza)».
Nel corso dello stesso Consiglio europeo del dicembre 2003, l'Unione si è dotata di un concetto strategico di sicurezza elaborato da Javier Solana, alto responsabile per la politica estera e la sicurezza comune, intitolato «Un'Europa sicura in un mondo migliore» (6). La proliferazione delle armi di distruzione di massa è individuata come una delle cinque minacce fondamentali, accanto a terrorismo, conflitti regionali, indebolimento degli stati e criminalità organizzata. Si ritrova quindi il trittico «terrorismo, proliferazione delle armi di distruzione di massa (Adm), stati canaglia» caro alla National Security Strategy del 2002, che definiva la politica americana in materia. Quanto ai mezzi da adottare, la strategia europea prevede, senza bisogno dell'avallo del Consiglio di sicurezza, «interventi a monte rapidi e, se necessario, vigorosi», perché l'Ue deve essere capace «di agire prima che la situazione (...) si deteriori» e «quando si riscontrino segni di proliferazione». Perché «un'azione preventiva può permettere di evitare problemi più gravi nel futuro».
Nel momento in cui erano ancora allo stadio di progetto, questi due documenti chiave hanno ampiamente aperto la strada al vertice bilaterale euro-americano del 25 giugno 2003, a Washington, alla fine del quale è stata adottata la dichiarazione comune degli Stati uniti e dell'Ue sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa, con la quale i firmatari s'impegnano a «utilizzare tutti i mezzi di cui dispongono per evitare la proliferazione degli Adm e le sue disastrose conseguenze (7)». Con ogni probabilità, gli Stati uniti, anche se impantanati in Iraq, non sono pronti ad «evitare gli stessi errori in Iran», come sottolinea David Kay, ex capo degli ispettori americani a Bagdad (8). La possibilità d'interventi preventivi, con o senza l'aiuto degli israeliani, resta di attualità. Peggio ancora, gli europei li seguono passo passo nelle loro avventure imperiali.
Di fatto, come conferma il dossier iraniano, all'Europa manca la determinazione necessaria a posizionarsi fuori dall'ombrello americano, come una vera «potenza tranquilla». Così, non ha colto l'occasione per sollecitare un rilancio - o magari un ripensamento - del regime di non proliferazione, che rimane squilibrato sotto molti aspetti, in un settore dove la via d'accesso alla bomba atomica non è altro che lo sviluppo dell'industria civile. Al contrario, invece di impegnarsi fermamente sulla via del disarmo come il Tnp richiede agli «stati dotati di armi nucleari», le potenze europee puntano alla contro-proliferazione, per garantire una sicurezza che si riassume nella protezione del loro predominio tecnologico, militare e strategico.
Eppure, in un mondo sempre più globalizzato, la sicurezza degli uni non si costruisce contro quella degli altri. Alla fine, non ci può essere che una sicurezza collettiva, dove la definizione dei rischi e delle minacce, così come gli strumenti per porvi rimedio, soddisfino l'insieme dei protagonisti - ovviamente diversificato - che interagiscono sulla scena internazionale, e non solo alcuni stati ricchi, privilegiati e dotati dell'arma atomica.



note:

* Ricercatrice del Gruppo di ricerca e informazione per la pace e la sicurezza (Grip), Bruxelles.

(1) Le Monde, 21 settembre 2005.

(2) Reuters, 27 luglio 2005.

(3) Per un'analisi dettagliata della proposta europea, si legga Paul Ingram, «Preliminary analysis of E3/EU proposal to Iran», Basic Notes, British-American Security Information Council, 11 agosto 2005.

(4) British Broadcasting Corporation (Bbc), Londra, 28 settembre 2005.

(5) «Stratégie de l'UE contre la prolifération des armes de destruction massive», 15708/03, 12 e 13 dicembre 2003.

(6) «Une Europe sûre dans un monde meilleur», 15895/03, 8 dicembre 2003.

(7) «Dichiarazione comune del presidente del Consiglio europeo Costas Simitis, del presidente della Commissione europea Romano Prodi e del presidente Usa George W. Bush sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa», Washington, 10902/03, 25 giugno 2003.

(8) David Kay, «Let's not make the same mistakes in Iran», The Washington Post, 7 febbraio 2005.
(Traduzione di G. P.)