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Invasione irachena: la tattica della guerra infinita

di Antonella Vicini - 13/09/2007

 

 
Invasione irachena: la tattica della guerra infinita


Se il rapporto con cui il generale David Petraeus e l'ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker, hanno tentato di dare nuovo vigore alla politica di Bush sull’Iraq è stato ben accolto dal governo iracheno, lo stesso non si può dire degli effetti suscitati in patria.
Nulla di imprevedibile, in entrambi i casi.
Era facile aspettarsi, infatti, che l’esecutivo che deve la sua esistenza alle scelte fatte dagli Usa per il Paese invaso non avallasse ufficialmente la prosecuzione dell’occupazione statunitense, non solo come servigio alla Casa Bianca, ma anche per l’impossibilità oggettiva delle forze di sicurezza irachene di gestire l’ingestibile. “Il governo accoglie con favore il rapporto di Crocker e Petraeus” ha sottolineato ieri il consigliere per la sicurezza nazionale, Muwaffaq al-Rubaie, nel corso di una conferenza stampa a Baghdad, fornendo il suo contributo alla teoria di Bush e dei suoi sul campo con una previsione non originale: ci sarà “nel breve termine una diminuzione delle richieste alle forze della coalizione di prendere parte a operazioni dirette di combattimento”.
Discorso diverso, invece, per la risposta ricevuta in patria, dove il comandante delle forze armate straniere in Iraq si è rivelato a tutti gli effetti come un mero portavoce della Casa Bianca e della Bush strategy.
Non ha convinto infatti la previsione di un abbozzo di ritiro a partire, approssimativamente, dalla prossima estate, partendo dalla constatazione dei “sostanziali progressi” che si sarebbero registrati sul fronte della sicurezza negli ultimi tempi.
La politica dell’aumento delle truppe, che ha portato i militari presenti in Iraq a quota 168mila, per il generale ha “ampiamente centrato” gli obiettivi, ma non è credibile né tra i banchi dell’opposizione, che sta continuando a definire la propria propaganda elettorale cavalcando l’onda del malcontento diffuso, né tra le fila dei pacifisti (cacciati mentre manifestavano il proprio dissenso in aula e fatti incriminare dal democratico Ike Skelton), né tra gli “addetti ai lavori”.
Quasi unanimi le critiche della stampa statunitense che ieri, sui principali quotidiani, ha puntato tutta l’attenzione sul rapporto presentato lunedì dinnanzi alle commissioni Esteri e Difesa della Camera, confermando il fronte in cui si sta schierando in questa nuova corsa alle presidenziali.
Le “vuote promesse e le false pretese di successo che abbiamo ascoltato da Bush per anni”, sono state messe in evidenza in un deciso commento del New York Times, in cui si sottolinea che alla “nazione” non sono arrivate quella “onesta valutazione della situazione ed una nuova prospettiva sulla strategia di guerra in Iraq” che invece erano state a più riprese annunciate da Bush.
“Il popolo americano merita di più di quello che il generale ed il diplomatico gli hanno offerto” ha chiarito, non risparmiando dall’invettiva neanche la testimonianza di Crocker, e augurandosi che “il Congresso non si lasci abbacinare dalle sue stellette, dai grafici e dalla sua retorica”. Meno critico il Washington Post, che ha puntato più sul messaggio “mesto”, sulla mancanza di ottimismo reale di quelle relazioni che sulla sostanziale poca credibilità di un rapporto costruito attorno alle esplicite esigenze del presidente Usa. La tattica della pazienza, con cui Petraeus ha invitato ad attendere per valutare sul campo i risultati, mettendo in guardia dalle “conseguenze devastanti” di un “ritiro prematuro”, non ha più spazio neanche sulle pagine del Post. Quello di cui si manifesta il bisogno è una alternativa e soprattutto la risposta concreta alla domanda: “la missione delle forze americane deve rimanere invariata?”.
A distanza di ventiquattro ore dalla sua esibizione a Capitol Hill, il generale di stanza in Iraq ha tolto qualche dubbio in merito.
Mentre nella relazione resa lunedì aveva affermato che qualunque decisione su futuri dispiegamenti delle truppe oltre l'estate del 2008 dovrebbe attendere ''fino a circa metà marzo del prossimo anno”, rispondendo ieri al senatore democratico Joseph Biden ha ammesso che di fronte alle violenze crescenti sarà difficile chiedere un ulteriore aumento delle truppe.
“Mi troverò sotto una pressione molto forte perché raccomandi ciò in quel momento”, ha dichiarato. Pressione accresciuta già nelle ultime ore alla notizia dell’uccisione di un ufficiale dell'intelligence iraniana tra i 12 presunti militanti di Al Qaida morti per un raid delle forze Usa a Samarra, 125 chilometri a nord di Baghdad, nella provincia ircahena di Salahaddin. Nuovo elemento di tensione.