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Umberto Galimberti e la morale del cristianesimo

di Francesco Lamendola - 13/09/2007

 

Recensendo, su la Repubblica del 12/09/2007, il libro di Gianfranco Ravasi Le porte del peccato. I sette vizi capitali, Umberto Galimberti sostiene che il tentativo della cultura cristiana di reintrodurre nel mondo laico e sazio dell'Occidente contemporaneo il concetto di peccato è una fatica vana e contraddittoria. Infatti, secondo lui, l'etica cristiana è un'etica della mortificazione e può avere un senso e una efficacia solo in una società povera, che non si sia ancora libertà dal bisogno. Ora, la società occidentale moderna è già passata, e da tempo, nella fase del benessere e dello spreco, quindi il cristianesimo, che è alle radici spirituali di essa, vene inevitabilmente percepito nel Sud della Terra come parte di quella abbondanza e la sua etica non appare coerente né credibile, Riportiamo il passaggio-chiave del suo ragionamento:

"Se la virtù, come il cristianesimo ce l'ha insegnata è essenzialmente moderazione se non mortificazione del desiderio e del bisogno, come è praticabile oggi in una società organizzata essenzialmente, come la pubblicità quotidianamente ci mostra, per soddisfare tutti bisogni e tutti i desideri?

"Come conciliare la cultura cristiana che tutti individuano come forma dell'Occidente con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società occidentali?

"Come conciliare l'etica della mortificazione, che il cristianesimo ci ha insegnato in tutta la sua storia caratterizzata da un 'economa di sussistenza, con l'opulenza offertaci dalla produzione e dal consumo d beni, dove la soddisfazione dei bisogni (e non la loro mortificazione) è un fattore economico, e dove la soddisfazione dei vizi è il secondo fattore dopo che i bisogni sono stati soddisfatti? Come si fa a essere cristiani e quindi mortificati " in un 'epoca in cui la società è aggregata dall'economia che per la sua sussistenza non chiede mortificazione, ma consumo e soddisfazione? Varrebbe la pena di far esplodere questa contraddizione che di solito non appare perché un piccolo trucco la nasconde. Dice il trucco: il cristianesimo è una religione, l'economia è una forma di scambio con cui si regola la produzione e la distribuzione de ben. Certo. Ma potremmo anche dire: il cristianesimo è una morale (della mortificazione) e l'economia è un 'altra morale (della soddisfazione).

"Le due morali sono incompatibili, per cui parlar e di un 'economia cristiana ha lo stesso significato e spessore logico di un circolo quadrato, con buona pace d tutti i benpensanti che ritengono di poter fare quadrare il cerchio. Nel momento infatti in cui la società è passata dallo stato di bisogno allo stato soddisfazione del bisogno, la morale del cristianesimo ha finito la sua storia, e quindi o emigra nel terzo e nel quarto mondo dove vige la mortificazione del bisogno, o sparisce. E già se ne vedono i segni, facilmente leggibili se si evita quell'altro trucco che, contrapponendo la civiltà cristiana alla civiltà islamica, nasconde la vera contrapposizione che è tra ricchezza dell'Occidente e povertà del mondo, tra i viziosi per forza e i virtuosi per necessità.

"Qui il cristianesimo, se vuoi essere credibile, deve cominciare a far nuove riflessioni a partire dalla povertà del mondo, che è il disastro etico che fa impallidire tutti i problemi morali su cui la Chiesa tanto insiste e si accanisce. "

     La conclusione implicita di questo ragionamento è che il suicido dell'Occidente (tesi cara a Galimberti) proseguirà anche mediante la distruzione della sua credibilità etico-religiosa e che, nel frattempo, bene farebbe la Chiesa a derubricare dal suo catechismo il concetto di peccato, per non essere colta in flagrante reato di contraddizione e ipocrisia.

Eppure, a dispetto del fatto che per due volte Galimberti tacci i suoi contraddittori ideali di barare al gioco (quando li accusa di negare che l'economia sia una forma di etica e quando li accusa di gettar fumo negli occhi allorché parlano di "scontro di civiltà" fra cristianesimo e islamismo), non si può dire che il suo ragionamento, in apparenza così scorrevole e levigato, non faccia ricorso a qualche astuzia significativa per corroborare la propria tesi e per minimizzare o dissimulare i suoi punti deboli.

Tanto per cominciare, ci sembra che definire l'etica del cristianesimo come un'etica della mortificazione sia una eccessiva semplificazione e risenta di una visione storica piuttosto datata, quella dello storicismo idealistico ottocentesco e del positivismo di matrice neo-marxista e neo­darwinista. Senza voler fare l'avvocato d'ufficio dell'etica cristiana, crediamo che essa si dovrebbe definire un'etica della liberazione dal bisogno, non mediante la sua soddisfazione immediata e materiale, bensì mediante il riconoscimento dei bisogni autentici della natura umana e il rigetto di quelli indotti e artificiali (come è il caso del consumismo). Vale a dire che l'etica cristiana propone semmai una mortificazione dei bisogni fasulli e una riscoperta dei bisogni veri: pertanto la mortificazione non è il suo fine né il suo aspetto caratterizzante, ma solo una parte (la pars destruens) del cammino di liberazione che all'essere umano viene proposto. Molto più importante e caratterizzante è, invece, la pars costruens, il cui fine è consentire all'essere umano un ritorno nell'Essere da cui proviene e col quale aspira a ricongiungersi.

C'è poi il fatto che definire l'economia (qualunque forma di economia, non solo quella capitalista) come una morale, equiparando l'una cosa all'altra e facendo dei due termini dei sinonimi, apre la strada a un ordine di ragionamenti ove il significato dei concetti sfuma di continuo a piacere di colui che li adopera per dimostrare una tesi precostituita. Non si dovrebbe pertanto affermare che "// cristianesimo è una morale (della mortificazione) e l'economia è un'altra morale (della soddisfazione)", ma semmai che ogni morale, come qualsiasi altro fattore culturale, ha dei rapporti storici con l'economa e che ogni economia ha dei risvolti morali. E ciò sorvolando sul fatto che nessuna religione si riduce esclusivamente a morale e, quindi, è scorretto identificare il cristianesimo semplicemente con la sua morale (che peraltro - come abbiamo visto - solo con una forzatura di tipo ideologico si può definire "della mortificazione").

La terza osservazione che vogliamo fare è che, certamente, la vera contrapposizione che attraversa il mondo odierno è quella fra umanità opulenta e sprecona ed umanità sfruttata ed emarginata; ma ciò non ha nulla a che fare con l'asserzione che il cristianesimo, per sopravvivere, dovrebbe emigrare nel terzo e quarto mondo, oppure tacere e rassegnarsi a sparire. Da buon materialista (e sia detto con tutto il rispetto per il materialismo filosofico, che è un indirizzo di pensiero pienamente legittimo e dignitoso), Galimberti pare non avere il minimo sospetto che, accanto al bisogno fisiologico, ossa esistere uno stato di bisogno spirituale; che, anzi, il disagio e la povertà spirituali sono altrettanto devastanti di quelle materiali Lo provano, in Occidente appunto, l'altissimo numero di suicidi, il ricorso massiccio agli psicofarmaci e alle psicoterapie, il diffondersi esponenziale degli stati nevrotici e depressivi. Pertanto un'etica della liberazione, come abbiamo definito quella cristiana, è più che ma interrogata da un simile stato di cose e, si fa per dire, di lavoro ne ha fin che ne vuole nella nostra società opulenta e sprecona, ma spiritualmente disastrata: altro che emigrare altrove o ridursi al silenzio! Vogliamo andare più in là e ci permettiamo di fare una sorta di profezia: nella società occidentale satura di beni materiali si sta instaurando un clima ideologico tale per cui la battaglia per la riconversione al cristianesimo, se ci sarà, sarà durissima, tanto da far impallidire il ricordo de padri gesuiti che, nel XVII secolo, pur di convertire i "pagani", si lasciavano legare al palo della tortura degli Irochesi o bruciare vivi sul rogo dalle autorità scintoiste nipponiche.

Galimberti, quindi, adopera con voluta ambiguità sia il termine mortificazione, sia il termine bisogno, ma non si prende la briga di specificare mortificazione di che cosa né di quali bisogni discuta: forse perché, diversamente, dovrebbe riconoscere che l'ansia occidentale di soddisfare ad ogni costo dei bisogni puramente artificiali, inutili per il benessere dell'individuo e spesso dannosi per la sua salute nonché per il suo equilibrio psicologico, conduce al vizio e cioè a quello che la morale cristiana, legittimamente - dal suo punto di vista - chiama peccato e contro il quale si è sempre pronunciata, anche se spesso, è vero, con i suoi rappresentanti che predicano bene e razzolano male. Però quest'ultimo aspetto, ci sia consentito dirlo, apre un altro e diverso discorso: non sarebbe infatti corretto, né metodologicamente né storicamente, imputare alla morale cristiana una ipocrisia che risiede in una parte di coloro che dicono di professarla. Galimberti parla di morale, cioè di idee; e, anche se è chiaro che qualsiasi morale cammina sulle gambe di uomini concreti, fatti di carne ed ossa, non è lecito mescolare idee e comportamenti storicamente determinati, almeno fino a quando ci si tiene nel campo della riflessione etica, cioè filosofica, e si ragiona per categorie di pensiero e non per situazioni storiche contingenti.

Che dire, infine, della tesi di Galimberti secondo la quale la Chiesa dovrebbe smetterla di "accanirsi" (?) su problemi morali secondari, mentre "il cristianesimo, se vuoi essere credibile, deve cominciare a far nuove riflessioni a partire dalla povertà del mondo, che è il disastro etico che fa impallidire" tutto il resto? Eh già, qui il filosofo non esita a vestire i panni del moralista e del predicatore e invita i suoi interlocutori cristiani, Ravasi in testa, a fare ammenda per essersi lasciati fuorviare dalla reprimenda di peccatucci veniali, mentre essi non sarebbero capaci di elaborare "nuove riflessioni" sul disastro etico della povertà nel mondo. Se così stanno le cose, ci mostri il professor Galimberti una figura autorevole dell'Occidente contemporaneo che abbia saputo fare non solo una riflessione, ma una scelta radicale paragonabile a quella di madre Teresa di Calcutta o alle migliaia e migliaia di cristiani, laici e sacerdoti, uomini e donne, che silenziosamente, quotidianamente, offrono la loro vita per condividere le sofferenze degli ultimi della Terra, non di rado affrontando il martirio da parte di proprietari terrieri, squadroni della morte, militari al soldo di governi terroristici (come il vescovo Romero a San Salvador). Noi abbiamo avuto il privilegio di conoscere alcuni di questi personaggi, ad esempio quel padre Alex Zanotelli che, dopo aver denunciato per anni e anni, dalle pagine di Nigrizia, la vergogna del traffico di armi dai Paesi ricchi a quelli poveri e le oscure commistioni fra politica e aiuti internazionali, se ne è andato a vivere nell'inferno dantesco della immensa bidonville di Nairobi, dove un milione di sciagurati vivono in mezzo ai rifiuti e hanno a disposizione meno acqua di quanta ne alimenti una sola delle piscine dei quartieri alti.

Certo, non tutti i cristiani hanno avuto la forza e la coerenza di fare scelte del genere: ma come si fa a dire che la morale cristiana, oggi, non ha imparato a fare i conti con il problema della fame nel mondo? Ci dispiace dirlo, ma questi sono discorsi da autobus, non da filosofi di professione.

Queste sono le riflessioni di qualcuno che non ha interessi o parrocchie da difendere, che nemmeno
si riconosce in una determinata confessione religiosa, ma che non può tacere davanti ad
affermazioni gratuite come quelle di Galimberti. Il quale, lo scorso 7 febbraio, nel corso di
una conferenza pubblica Conegliano, in provincia di Treviso, intitolata Le ragioni del corpo, sostenne fra l'altro,
che l'immortalità dell'anima fu più o meno una "invenzione" di S. Agostino,
mentre i cristiani dei primi quattro secoli non ci credevano affatto. Ancora semplificazioni
eccessive, ancora affermazioni arbitrarie e uso volutamente ambiguo dei concetti. I filosofi di
professione non dovrebbero presumere di poter dire qualunque cosa ad un pubblico che tanto, si sa, è
disinformato e sprovveduto. E dovrebbero ben sapere che, nella complessità del reale, proprio le
specificazioni e le sfumature sono tutto, mentre le frasi a effetto e le tesi generiche sono la morte del
ragionamento filosofico e della verità storica.