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Scioperi, consumi e decrescita. Alcune questioni.

di Carlo Gambescia - 14/09/2007

 

Stando ai primi dati raccolti e diffusi dalle associazioni di settore, sembra che ieri circa il sessanta per cento dei consumatori non abbia acquistato pane né pasta. Il che è molto incoraggiante.
Ora, al di là dei problemi specifici legati a questo “sciopero” (rialzo dei prezzi delle materie prime, speculazione, eccetera), desideriamo sottolineare, seppure sinteticamente, alcuni problemi propedeutici al ruolo che potrebbero giocare i “cittadini-consumatori” nell’alveo di un processo, diciamo così, di introduzione dal basso della decrescita.
Il primo punto della questione riguarda il modello culturale. Come cambiarlo? E soprattutto come competere con la gigantesca struttura mediatica e pubblicitaria che impone consumi crescenti. Il consumo, oltre una certa soglia fisiologica, è un fatto culturale e sociale perché si fonda su comportamenti collettivi di tipo mimetico (“Voglio avere anch’io quello che hai tu” ). Come incidere realmente sui processi collettivi?
Il secondo punto concerne il modello economico. Come cambiarlo? Ad esempio, ai consumatori ieri scesi in campo, è stato politicamente risposto che la soluzione agli aumenti di pane e pasta è nella libera concorrenza e nella liberazione dai freni di tipo monopolistico e speculativo che attualmente gravano sulla libertà di mercato. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? E che invece speculazione e monopoli non siano altro che un frutto “naturale” (ma avvelenato) del capitalismo “liberale” ? E che in realtà la regola sia proprio rappresentata dagli oligopoli che giocano sui prezzi e non da un numero sterminato di micro-imprese in equa e leale competizione? Se è così, come fuoriuscire dal capitalismo "irriformabile" ?
Il terzo punto rinvia, più precisamente, al modello politico della decrescita. Perché fuoriuscire dal capitalismo “globalizzatore” e oligopolistico implica il ritorno alle produzioni locali; recupero che, a sua volta, richiede la nascita di spazi autocentrati, anche di grandi dimensioni, ( si pensi a quello europeo-occidentale), capaci di gestirsi politicamente ed economicamente in modo autonomo. E così opporsi alle scontate reazioni dei fautori della globalizzazione. Dal momento che una piccola comunità autogestita, non potrebbe resistere, da sola, alle pressioni esterne, soprattutto di tipo economico. Si pensi alla questione della moneta; problema che può essere risolto all’interno, magari abolendo o sostituendo il denaro con altri meccanismi, ma non - attenzione - all’esterno, negli scambi internazionali, dove la richiesta di pagamento in moneta “vera”, di solito quella delle nazioni potenti militarmente, tende a diventare un’arma di ricatto, da parte del più forte. Di qui la necessità, per le piccole comunità di federarsi in grandi spazi economicamente autosufficienti, in grado, secondo le necessità, di rinunciare al commercio internazionale. Ovviamente l’idea federale o confederale, dal momento che risulta impossibile che il denaro possa venire abolito in tutto il mondo nello stesso momento, impone la creazione di strutture politiche e militari comuni, funzionali a scelte rapide e impegnative. Alla decrescita, per essere felice, serve la spada. Inutile farsi illusioni su possibili girotondi universali…
Ecco, ci siamo limitati a segnalare alcuni punti. Ora, come si dice, la parola spetta ai lettori.