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Abbiate il coraggio di delirare. L’«insensato» allarga i confini della nostra razionalità

di Remo Bodei - 14/09/2007




DA REMO BODEI una lezione sulla necessità di aprirsi a ciò che «non è nella norma», perché l’«insensato» allarga i confini della nostra pigra, timorosa o iperdifensiva razionalità. E ci dà un sapere nuovo

Propongo a chi ascolta di cominciare con un esperimento mentale. Pensi al fluttuare degli astronauti nello spazio cosmico: sul piano del senso comune, eravamo abituati a credere che la forza di gravità possedesse una validità assoluta tale da trattenere con i piedi per terra anche gli abitanti degli antipodi, senza sospettare, a livello di senso comune, che la sua assenza, pur non negandola, desse luogo al levitare dei corpi. Allo stesso modo, quando riflettiamo sulla follia e sul delirio, dobbiamo liberarci concettualmente da quella «forza di gravità» psichica che ci assicurava immediatamente e indissolubilmente alla nostra immagine standardizzata della razionalità.
Dobbiamo cioè metterci di fronte a situazioni che, pur nel loro apparire spesso assurde e contorte, possono farci intravedere altri mondi non del tutto incompatibili con il nostro. In questo modo, la forza di gravità della ragione non viene negata dalla sua assenza, purché tale ragione, che definisco «ospitale», sia capace di considerare e di accogliere esperienze che vanno al di là dei limiti della norma o di ciò che è generalmente riconosciuto come ragionevole e sensato all’interno di una comunità, e di comprendere che esse, pur nella loro tragicità, ci arricchiscono, ci fanno vivere altre vite parallele alla nostra, ci consentono di esperire altre possibilità, anche creative, del linguaggio e della ideazione.
Ma, soprattutto, allargano i confini della nostra pigra, timorosa o iperdifensiva razionalità. Una ragione ospitale, comprensiva, è, appunto, quel tipo di razionalità che lascia alla follia le sue logiche private, il suo modo di organizzare i vissuti, i pensieri, la percezione del tempo e si dispone, senza pregiudizi, ad analizzarli. Ciò non vuol dire inventarsi un centauro concettuale, composto per una metà di razionalità e per l’altra di irrazionalità. La ragione ospitale è una ragione in movimento, che sa benissimo che esistono varie famiglie di logiche, ma che non rinuncia a ricondurle al ceppo comune di una razionalità argomentativamente condivisibile.
Occorre evitare i modelli di razionalità chiusa e autosufficiente, che considera la follia, i deliri, le passioni o il sogno completamente privi di senso. Penso, al contrario, che i deliri del folle - pur dentro una comunicazione patologicamente distorta - abbiano un loro senso e che servano ad aumentare e ad articolare la nostra conoscenza del mondo.
La psichiatria dell’Ottocento, in particolare Pinel ed Esquirol, aveva concepito la follia e il delirio come un dérèglement des passions, uno «sregolamento» delle passioni. Il delirio è quindi il risultato di emozioni estreme che spingono a oltrepassare la lira cioè, in latino, il seminato, quello spazio fertile delimitato da due solchi. Eccesso e sterilità caratterizzano quindi, tradizionalmente, il delirio, ma l’accento cade oggi, generalmente, più sull’aspetto cognitivo che su quello emotivo, tanto nel caso dell’eccesso quanto della sterilità. Il delirante, da un lato, oltrepassa i limiti imposti dall’esperienza e dalla logica condivisa e, dall’altro, le sue non germogliano perché non cadono sul terreno adatto.
Nella psichiatria e nella filosofia del Novecento il rapporto delirio-passione è stato sostanzialmente dimenticato e, soprattutto, non si è tenuto conto dell’incastro tra una logica cognitiva e una logica affettiva che presiedono al delirio. Vi è, infatti, nel delirio quella che in termini psichiatrici si può chiamare una overinclusion affettiva. Cos’è l’overinclusion? Restando al piano cognitivo si è osservato che nella formazione dei concetti i cosiddetti pazzi, gli schizofrenici, i deliranti mettono insieme sotto lo stesso concetto delle cose che non c’entrano, per esempio nella categorie di mobile ci mettono S.Giuseppe la donna (che, secondo la famosa romanza del Rigoletto «è mobile»).
Includono quindi nozioni in eccesso che non rientrano in un determinato concetto, violano le regole della buona definizione che procede per genere prossimo e differenza specifica: se voglio definire correttamente un quadrato, dico che è un quadrilatero (genere prossimo) con lati ed angoli uguali (differenza specifica). Se lo chiamo una figura geometrica sono generico (perché ce ne sono tante), se trascuro i lati uguali posso confonderlo con il rettangolo e, se non menziono gli angoli uguali, con un rombo.
Contro la teoria di Janet e di Jung, secondo cui la malattia mentale è il risultato di un «abbassamento del livello mentale» (abbaissement du niveau mental), la psichiatria più recente (Frith o Ciompi) ha messo in evidenza il fatto che, l’iperinclusione deriva, in maniera paradossale, dall’iperconsapevolezza del delirante. Questi non è cioè in grado di elaborare, filtrandolo, l’enorme flusso di informazioni che gli giunge dal mondo esterno ed interno e, specialmente, quel di più che nella persona clinicamente sana resta al di sotto della soglia di coscienza o, se vi giunge, viene immediatamente eliminato o non tenuto in conto. Di conseguenza, i deliri non costituiscono affatto il prodotto di una coscienza torbida, ma il risultato dello sforzo fallito di interpretare coerentemente la messe di dati in arrivo.
Correggerei questa ipotesi nel senso che il flusso non è completamente privo di filtri. Cambia il il filtro: la coscienza è desta e in grado di accogliere molto di ciò che normalmente è considerato insignificante, ma questo surplus di dati è pur sempre recepito secondo altri criteri, laschi ma significativi. Si può persino dire che le logiche del delirio sono modellate sulle forme di questi filtri, che selezionano il vissuto e il pensato significativi facendoli passare attraverso le strettoie della coscienza. Se mi passate l’immagine casalinga, accade come in certe macchine per fare la pasta: secondo le sagome metalliche si usano escono, spaghetti, tagliolini, penne rigate ecc., ma la pasta è sempre la stessa.
Si può perfino giungere ad accettare la teoria di Eugène Minkowski, per il quale «la forma specifica dell’idea delirante (…)non è altro insomma che il tentativo del pensiero, rimasto intatto, di stabilire un nesso logico tra le diverse pietre dell’edificio in rovina».
Anche a molti di noi può capitare, nei momenti di maggior sconforto, di avere l’impressione che l’avvenire sia sbarrato, che la vita sia finita ancor prima dell’inesorabile giungere della morte. Il delirio nasce però dall’avvertire come permanente, ineluttabile e senza sbocco una condizione che, per la maggior parte degli uomini, rappresenta una momentanea occlusione del futuro.
Obbligato a vivere l’invivibile, lo schizofrenico si costruisce un nuovo mondo capace di accoglierlo e proteggerlo. A questo scopo utilizza opportunisticamente tutti i materiali che incontra per perfezionare il suo delirio. Uno psichiatra francese, Racamier, paragona il delirio non ad un’invasione barbarica che distrugge i fertili campi della ragione, ma alla centuriazione romana, alla divisione dei territori conquistati in preselle regolari tra i veterani. Il delirio rappresenta una forma di conquista e colonizzazione della mente talvolta molto elaborata, tanto è vero che diversi pazienti non desiderano essere curati per non perdere il proprio «capolavoro delirante».
In conclusione, la differenza più significativa tra il sapere comune e quello dei deliranti sembra riscontrasi nel fatto che il primo pone i limiti e criteri di controllo alla «ragione», mentre il secondo è ab-solutus, completamente slegato da ogni vincolo, sfrenato, eccessivo, debordante. A commento di quanto affermava Montaigne, ossia che il delirio è soltanto umano, perché gli animali tengono lo spirito «a guinzaglio», si può dire che il delirante lo ha sciolto, per fuggire verso un mondo capace di soddisfare la sua fame di irrealtà. A Montaigne (che nel 1580 aveva, tra l’altro, visitato Torquato Tasso, ormai completamente pazzo, rinchiuso nell’ospedale Sant’Anna di Ferrara) non era tuttavia sfuggita la frequenza con cui la follia colpisce proprio gli individui di mente pronta, acuta e agile. Da qui la sua provocatoria e inquietante proposta: «Volete un uomo sano, lo volete ben regolato e in posizione salda e sicura? Avvolgetelo di tenebre, di ozio e di torpore. Dobbiamo istupidirci per diventare saggi, e abbacinarci per sapere dirigerci».
Vi è della saggezza nel consiglio di abbassare la soglia della stupidità necessaria per restare sani e nell’osare avventurarsi in pensieri e affetti che turbano e scuotono impedendo alla nostra intelligenza e di ottundersi e di accecarsi.
Ogni tanto bisognerebbe avere il coraggio di delirare (in senso etimologico) o, detto in termini musicali, di delirare un po’ ma non troppo. Un po’ di delirio è sempre meglio del continuo torpore. Eppure, quanto avanti ci si può spingere nell’affrontare pensieri abissali o esperienza sconvolgenti senza rischiare di perdere il lume della ragione?