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Se Evola diventa il filosofo della libertà

di Fertilio Dario - 15/09/2007

Massimo Donà riscopre il maestro spirituale del pensiero reazionario
     
Per molti fascisti del ventennio fu «il magico barone»: ingombrante, forse anche leggermente menagramo, da esorcizzare con ironia. Agli occhi degli «anti», invece, Julius Evola era soltanto un razzista inqualificabile e un po' fuori di cervello. Caduto il regime, hanno continuato ad aleggiargli intorno odore di zolfo («complice dei nazisti, teorico della razza, ispiratore della destra radicale, presunto responsabile del terrorismo nero») e una specie di interdetto filosofico, avallato da personalità come Ugo Spirito ed Eugenio Garin. Col tempo, il tabù è andato stemperandosi e i suoi libri, sia pure riservati a un pubblico di nicchia, sono diventati long-seller. Oggi le carte si rimescolano, perché esce una nuova edizione di una delle sue opere fondamentali, la Fenomenologia dell' individuo assoluto, pubblicata una prima volta nel 1930 e poi riproposta solo nel 1974. E c' è un colpo di scena: la prefazione, firmata dal filosofo Massimo Donà, contiene una definizione quanto meno impegnativa: «filosofo della libertà». O, per citare alla lettera un passaggio chiave: «La sua è una radicale filosofia della libertà». Ma come, non stiamo parlando dello stesso Julius Evola che, non esistendo più razze pure, invitava a soppesare attentamente gli «incroci» per scoprire la percentuale di «arianità» che contenevano? Il medesimo «magico barone» pronto a riconoscere nelle SS «una nuova nobiltà politica razzialmente, moralmente e spiritualmente selezionata»? E ancora nel 1969, quando l' eugenetica nazista era morta e sepolta, ammoniva gli americani a risolvere il problema razziale sgomberando «dai bianchi uno degli Stati minori dell' Unione per mettervi tutti i negri statunitensi»?. Ebbene sì, proprio lui. Tuttavia, e qui viene il bello, il Massimo Donà che lancia l' ultra revisionistica rivalutazione di Evola non è affatto uscito dalle catacombe del pensiero reazionario: allievo di Emanuele Severino, collaboratore di Massimo Cacciari, oggi è titolare della cattedra di «ontologia fondamentale» all' università San Raffaele di Milano. Particolare clamoroso, è collocato a sinistra. E tuttavia il suo outing non si può considerare una sorpresa. Non solo per il processo di riconciliazione in corso da anni fra il pensiero più anticonformista della sinistra e i vari Céline, Hamsun, Pound eccetera, ovvero gli autori di destra un tempo considerati irrecuperabili. Ma anche perché, in realtà, lo stesso Massimo Cacciari negli anni scorsi si era vantato di aver «sdoganato» il pensiero di Evola, apprezzando il suo contributo ai movimenti delle avanguardie artistiche del Novecento, oltre che gli studi sull' «idealismo magico» che lo avevano contrapposto a Gentile. Oltre a lui, tra i «rivalutatori a oltranza» si era distinto un altro filosofo, Franco Volpi. Ma certo nessuno si era spinto lontano come Massimo Donà. Non è semplice la sua prefazione, che spesso scivola nello specialismo; eppure i tratti fondamentali sono di una chiarezza indiscutibile. «Per troppo tempo rimosso dalla cultura italiana»: è questa la denuncia di Donà riguardo ad Evola, accompagnata dalla decisa negazione che sia mai stato «un apologeta del fascismo», se non eventualmente di un «fascismo ideale», nel senso di «ciò che sarebbe potuto essere, ma di fatto mai davvero è stato», ovvero un «razzismo mai strettamente biologico, ma eminentemente spirituale». Ed ecco il gran passo: nel suo pensiero, argomenta Donà, «Evola guarda a una Destra ideale intesa come forma politica che, sola, potrebbe farci guadagnare una libertà non strettamente negativa», nonché «un ambiente propizio per lo sviluppo della personalità e della vera libertà». Dopo una simile premessa, il filosofo disquisisce attorno alla concezione evoliana dell' Io «come sede dell' originaria potenza produttrice di un Geist assolutamente autofondantesi». Domina il tutto «l' infinita potenza» di questo Io idealistico e trascendentale, tanto da non «essere più costretto a render ragione di un destino assolutamente superiore». Qui Evola si apre un varco verso il regno dell' assoluta libertà: «Una libertà intesa come qualità costitutiva ed originaria dell' Io», erede di quel «libero arbitrio» difeso dalla grande filosofia rinascimentale contro «i colpi mortali sferrati a questo proposito da Martin Lutero», capace addirittura di «volere l' impossibile», cioè che il «passato non sia mai stato» e le cose in definitiva possano andare «altrimenti» rispetto al regno della necessità. Anche l' uomo di Evola insomma, come quello di Nietzsche, è pronto «a diventare ciò che è». Più libero di Hegel, ancora prigioniero delle sue dialettiche idealistiche, e più radicale persino di Michelstaedter, appesantito dal suo pessimismo: ecco Julius Evola nuova versione, mago e alchimista, affabulatore neopagano in grado di ammaliare pensatori di sinistra e non. Non tutti, però: un saggio di Gianni Scipione Rossi - recensito sul Corriere da Giovanni Belardelli - ne ha denunciato le contraddizioni, proponendosi di sfatare la «leggenda» del razzismo «solo spirituale» di Evola, che invece - benché alimentato dai suoi seguaci - si sarebbe rivelato «privo di reale consistenza». Ma finirà così? O, come è probabile, il «magico filosofo» sta per diventare l' oggetto di una nuova battaglia revisionistica? Il libro: Julius Evola, «Fenomenologia dell' individuo assoluto», ed. Mediterranee, a cura di Gianfranco de Turris, prefazione di Massimo Donà, pp. 280, 21,90