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Il ricordo di Sabra e Chatila

di Milena Nebbia - 15/09/2007

Il ricordo di Sabra e Chatila
La commemorazione per i 25 anni della strage nel campo profughi palestinese in Libano

 
 
Le pareti della sala in cui viene accolta la delegazione italiana del Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” (la cui missione quest’anno è stata dedicata anche al fondatore del comitato stesso, il collega Stefano Chiarini scomparso recentemente), sono tappezzate di foto degli abitanti del campo profughi palestinese massacrati 25 anni fa.

la piazza dedicata alle vittime dell'eccidio - foto di Laura Montanari/Graffiti PressUn dolore che non passa. E’ circa mezzogiorno, il tetto di lamiera trasuda calore, i due ventilatori posti ai lati gettano folate di aria calda. La stanza è stipata di persone. In prima fila ci sono le vedove del massacro, tutte velate con in mano i ritratti dei propri figli, mariti e fratelli sterminati. Una di loro, all’improvviso, si alza e piangendo comincia a urlare in arabo. Si chiama Hamali, avrà circa sessant’anni: ha perso quattro figli nel massacro, due li ha ritrovati per la strada del campo senza testa. Il suo grido di dolore, come di chi ha una ferita ancora aperta e sanguinante, pietrifica la sala, un’onda di commozione la percorre, anche l’interprete, Samir, fatica a riprendere a parlare, si scusa. Eppure chissà già quante volte avrà assistito a scene come questa. Ma il dolore di questa donna, è così vivo, così straziante, che ogni discorso, ogni tentativo di consolazione perde significato. La commemorazione dell’eccidio del 16 settembre 1982 ha toccato il suo momento più vero: tutto il resto, la marcia, la cerimonia ufficiale, la deposizione della corona di fiori nel luogo che ricorda il massacro, si svuotano di significato, diventano un corollario.
Ma ricordare è importante. “Iniziative come questa – ha detto Qassen Aina, il coordinatore delle Ong palestinesi e arabe in Libano - servono a riportare l’attenzione sulla situazione dei campi profughi palestinesi. Il quadro di crescente tensione creatosi dopo i fatti di Nahr el-Bared (il campo profughi che dal 20 maggio è teatro di scontri tra il movimento islamico estremista di Fatah al Islam e l’esercito libanese e che ha costretto 15.mila palestinesi a scappare nel vicino campo di Beddawi creando una situazione di emergenza umanitaria), ci conferma la necessità di azioni che riportino l’attenzione dei media, dell’opinione pubblica mondiale sulla situazione che vivono i profughi palestinesi in Libano, le discriminazioni di cui sono vittime e sul riconoscimento del loro diritto al ritorno”.

i parenti delle vittime alla celebrazione - foto di Laura Montanari/Graffiti PressLa storia. Il pretesto della strage di Sabra e Chatila fu il tentato assassinio dell’ambasciatore israeliano in Gran Bretagna Argov, avvenuto a Londra il 4 giugno 1982 e attribuito a un’organizzazione palestinese dissidente. L'episodio fornì il pretesto per lanciare la cosiddetta operazione “Pace in Galilea”. In origine l’intervento doveva essere un’incursione in territorio libanese di 40 chilometri, ma l’allora ministro della difesa, Ariel Sharon, decise di continuare l’offensiva fino a Beirut. Dopo due mesi di assedio israeliano alla capitale libanese, che costò 18mila morti e 30mila feriti, si aprì la strada ad una soluzione negoziale.
Il 19 agosto 1982, l'allora ministro degli Esteri libanese chiese l’intervento di una forza multinazionale di interposizione. Secondo il piano messo a punto dal mediatore statunitense Philip Habib, le forze dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) sarebbero state evacuate da Beirut entro il 4 settembre, sotto la protezione del contingente neutrale composto da statunitensi, francesi e italiani. Il primo settembre tutti i componenti dell’Olp avevano lasciato il Libano. Il contingente multinazionale lasciò il paese il 10, in anticipo rispetto al calendario stabilito. Nel frattempo il parlamento libanese aveva eletto il nuovo presidente, Beshir Gemayel, cristiano e leader delle falangi, le milizie cristiane, il cui piano neanche troppo nascosto era quello di cacciare via dal territorio libanese tutti i palestinesi. Il 12 settembre Gemayel incontrò Sharon, che due giorni prima aveva dichiarato che in Libano rimanevano ancora 2mila “terroristi” palestinesi, alludendo agli abitanti di Sabra e Chatila. Il 14 settembre un colpo di scena: Gemayel rimane ucciso in un attentato compiuto da un libanese cristiano collegato con un movimento dissidente. In seguito si cercherà di coprire le responsabilità del massacro, facendo passare l’irruzione delle milizie falangiste come un moto di rabbia per l’uccisione di Gemayel. In realtà la strage era già stata preparata durante i colloqui che lo stesso Sharon ammise di aver avuto con Gemayel ed altri esponenti dei falangisti. Il 15 settembre Sharon dette ordine alle truppe israeliane di non entrare nel campo, e contemporaneamente si installò personalmente nel palazzo dell’ambasciata del Kuwait, dalle cui finestre si può osservare chiaramente il campo di Sabra e Shatila. Il 16, alle cinque del pomeriggio, le truppe falangiste iniziarono ad entrare nel campo, che per tutta la durata della strage rimase circondato dall’esercito israeliano. Per 40 ore le truppe falangiste poterono compiere indisturbate la loro missione punitiva nei confronti degli abitanti del campo. Alla fine il bilancio sarà pesantissimo:centinaia le abitazioni distrutte e un conto delle vittime oscillante tra le mille e le tremila. La scena del campo di Chatila quando vi entrarono gli osservatori stranieri il sabato mattina era un incubo: donne, bambini, vecchi e giovani, giacevano sotto il sole cocente per le strade del campo. Ogni viuzza raccontava la propria storia di orrori.

ragazzini in manifestazione - foto di Laura Montanari/Graffiti PressUn passato doloroso. Il campo profughi palestinese di Sabra e Chatila è abitato attualmente da 17mila persone, che vivono stipate in poco più di un chilometro quadrato. Camminando lungo gli stretti vicoli e gettando uno sguardo all’interno delle povere abitazioni, in cui la luce del sole arriva di rado, poiché le abitazioni si sono sviluppate in altezza, si coglie il profondo senso di dignità di questo popolo: anche in uno stanzone occupato da dieci persone, l’ordine e la pulizia sono la regola, i bambini corrono dietro ai visitatori, ma mai, assolutamente mai, per chiedere qualcosa, soltanto per stringere loro la mano, per scambiare quell’unica frase di inglese che conoscono: “What’s your name?”. I loro genitori probabilmente erano poco più che ragazzini quando avvenne il massacro, ma anche per loro questo non è un campo come un altro, la memoria di quella tragedia viene trasmessa attraverso racconti degli adulti, così come ci dice Ahmad, 18 anni - tra i fortunati che vivono fuori dal campo- mentre segue il corteo che dall’ambasciata del Kuwait ha raggiunto il luogo della fossa comune: “Certo, io non ero ancora nato, ma sono qui per mantenere viva la memoria di quei terribili giorni, il sacrificio della nostra gente non va dimenticato e, anche per onorare la loro memoria, dobbiamo continuare a chiedere il riconoscimento dei diritti del nostro popolo”.
Secondo la Carta di Norimberga, la IV Convenzione dell’Aia e la Convenzione di Ginevra del 12/8/49, l’accaduto rientra nella definizione di “crimine di genocidio”. Sono passati 25 anni, ma nessuno è mai stato condannato o inquisito per la strage.