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Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo

di Antonio Gurnari - 17/09/2007

 

Frank Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del xxi secolo, tr. it., Cortina, Milano, 2007, pp. 212, “Minima” n. 87. [Ed. or.: Where have all intellectuals gone? Confronting 21st century philistinism, Continuum press, 2004].

 

Un grido di dolore, questo di Furedi, contro il decadimento della concezione nobile ed elevata della attività intellettiva e artistica. Che fornisce una rappresentazione minutamente documentata della forme in cui tale decadimento si esprime. Che piglia con chiarezza posizione contro il ‘filisteismo’ di cui si fa menzione nel titolo.

Ma, pur con tutto questo, alla fine, solo un grido di dolore. Perché, anzitutto, l’analisi delle cause resta assai circoscritta. Perché ― chiedo ― si è arrivati a tanto, a questo paesaggio desolante, in cui, il tratto più essenziale, è il “relativismo culturale’, anzitutto delle élites, che è un altro modo di dire che non vi sono standard di ordine oggettivo e superiore (“la verità con la V maiuscola”)? Dare espressione a tale assenza di fede in siffatta maiuscola verità, come fa Furedi, non è la risposta, bensì il  p r o b l e m a. Quindi: perché la maiuscola verità ha potuto dileguare? Furedi non dà risposta alcuna.

Ancora. L’appassionato pamphlet furediano non dice neppure nulla rispetto al  c h i  e al  c o m e, eventualmente, possa modificare le condizioni che hanno generato la presente situazione di relativismo e, a seguire, le sue implicazioni. Rispetto al ‘chi’, pare che egli addossi, più che ai fattori ‘esterni’, questo onere agli stessi intellettuali; rispetto al ‘come’, invocando una “battaglia delle idee per le menti e i cuori del pubblico” (p. 196). Ebbene, rispetto alla analisi delle cause, credo che Furedi avrebbe dovuto fare il ‘giro largo’: io avrei senz’altro richiamato l’affermazione, dalla rivoluzione francese in qua, di una concezione antiaristocratica, o democratica, di un egualitarismo che, ibridando gli aspetti politici (prevalenti sino agli inizi del ventesimo secolo) e quelli consumistici (durante lo svolgimento di questo stesso secolo: se ne veda la ricostruzione dell’ascesa e del trionfo indiscusso in V. De Grazia, L’impero irresistibile. La società americana alla conquista del mondo), ha operato nello spingere ‘al ribasso’ ogni e qualsiasi standard; avrei altresì richiamato l’esaurirsi del modello comunicativo di matrice tipo-grafica, che ha plasmato un modo di rappresentare la realtà e di strutturarla, così da favorire attenzione, articolazione, penetrazione, sospingimento delle attività cognitive ‘oltre e avanti’ (cfr. Neil Postman, Divertirsi da morire, Elisabeth Eisenstein, Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna), e il subentrargli del modello ‘iconico’ associato ai mezzi di  t e l e -comunicazione che si affermano a partire dai primi del secolo scorso; ancora, avrei messo in luce l’effetto ingenerato nell’immaginario collettivo planetario dal crollo di sistemi, come quelli del socialismo di stato, fortemente associati a concezioni del mondo tipicamente ‘moderne’, organicamente e compiutamente strutturate circa lo ‘stato desiderabile e giusto’; e forse qualche altra cosa.

Per quanto attiene al  s o g g e t t o, o ai soggetti, che  p o s s o n o  reagire allo squallore regressivo dell’attuale modello culturale, l’appello ai diretti interessati, i ‘produttori di cultura’, gli  i n t e l l e t t u a l i, mi pare giusto, ma sulla base non di una visione ‘testimonialistica’ (come pare sia quella dell’autore), ma di una concezione ‘sabbiagranellistica’: ogni fare introduce nel sistema un fatto, e questo fatto può produrre effetti, alcuni dei quali, a breve, rispondenti agli obiettivi per cui è stato effettuato, altri meno, altri restando neutri, altri generando ‘effetti perversi’ (eterogenesi dei fini), ma intanto gestendo necessariamente il presente in modo di principio conforme alla ‘convenienza’ degli esiti attesi.

Qualche seria perplessità la nutro, però, in ordine al ‘come’, a quella ‘battaglia di idee per le menti e i cuori del pubblico’. Perché, se, come penso, è fondata l’analisi postmaniana della cultura dello spettacolo ― approccio diverso dalla debordiana ‘società dello spettacolo’ ― allora il disegno di Furedi è sprovvisto di fondamento reale: infatti, se il pubblico non è in realtà ‘traviato’ (come egli teorizza) da élites autolesionistiche e in ritirata, ma è, davvero, in quanto composto da individui ‘iconici’, incapace di impegnarsi in attività cognitive attive, e di cui bisogna catturarne l’attenzione con una qualche sorta di spot o di réclame, che ne è allora di una battaglia che, per i mezzi che impiega, ha l’effetto di rinnovare  e rafforzare ciò contro cui essa combatte? Ma forse sono troppo pessimista, e, forse anche, un po’ in contraddizione con me stesso, almeno nella misura in cui mi iscrivo al partito dei ‘sabbiagranellisti’…