Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Palestina solo per i non-palestinesi? (simpatizzanti non inclusi)

Palestina solo per i non-palestinesi? (simpatizzanti non inclusi)

di Anna Baltzer - 17/09/2007

Fonte: www.jerusalem-holy-land.org

 

 

 

 

Dopo quasi due anni dalla produzione del libro (Witness in Palestine: diario di un’ebrea americana nei Territori Occupati), girando, organizzando, promuovendo, sono di nuovo nel mio freddo appartamento nel West Bank.

Atterrata all’aeroporto Ben Gurion  ieri pomeriggio. Come al solito c’erano facce sorridenti ed i grandi cartelli aeroportuali che mi auguravano un “Benvenuto in Israele”, sinché non raggiunsi il controllo passaporti.

Dopo che la ragazza addetta al controllo digitò le informazioni relative la mia identità, accettando di non timbrare il visto d’entrata sul mio passaporto (un timbro israeliano sul passaporto vi può tenere fuori da diverse nazioni mediorientali), incominciò un po’ a conversare ed io cominciai a guardarmi intorno per cercare di capire cosa stesse succedendo.

Nel giro di 30 secondi fui circondata da tre guardie della sicurezza, che mi chiesero quante borse avessi con me, e altre assurde domande, informando immediatamente via radio,  e spingendoci nell’Area di Sicurezza (Israele è l’unico posto dove non abbia dovuto ritirare i bagagli!). Quindi mi lasciarono in una sala d’attesa dove mi ritrovai a scambiare sorrisi con un’altra mezza dozzina di persone che aspettavano di essere vagliate, per lo più con la pelle più scura della mia.

Immaginai che ci fosse da aspettare per un po’ e allora tirai fuori dell’insalata avanzata e delle melanzane che avevo impacchettato in un piccolo involucro (di quelli in dotazione per i passeggeri con problemi di volo…), cosa che sembrò divertire la guardia che mi osservava. Gliene offrii un po’, e mi guardò come se fossi matta. Gli dissi che non mi piaceva gettare via la roba.

 

Prima che potessi terminare il mio pasto, le altre guardie della sicurezza ritornarono con i miei bagagli e ci trasferimmo nella successiva area di sicurezza. Avrei potuto guidare io stessa il gruppo, talmente tante volte passai di lì, ma decisi di lasciarli camminare innanzi. “Devono pensare che io sia una persona molto importante”, commentai allegramente con una delle cinque guardie che portavano le mie valigie e che mi stavano scortando, mentre sorpassavamo le circa cinquanta persone che aspettavano in fila.

 

La ricerca fu più approfondita del solito – ispezionata a fondo in ogni mia fessura, in una stanza chiusa, da una donna molto gentile, e senza dover rimuovere gli indumenti. I miei bagagli soffrirono una ricerca più minuziosa, poiché la guardia esaminò  con attenzione ogni centimetro delle cose che avevo con me. Mi aspettavo qualcosa del genere, chiaramente, e avevo cancellato ogni fotografia, dettagli, o informazioni riguardo ai contatti di lavoro, del WPS, o di qualsiasi palestinese dal mio computer, ipod, e telefonino (sebbene si presupponga che debbano cercare solo armi, l’implicazione di qualsiasi palestinese in attività di resistenza ne fa un obiettivo d’indagini, anche se sono impegnati in attività non-violente). Questa non è solo una gran seccatura – devo riprogrammare dozzine di numeri di telefono del mio cellulare ogni volta, e rimuovere tutti i dati dal mio computer – ma è anche completamente assurdo. Perchè sezionare ogni penna e vido-cassetta che ho portato, quando per mia conoscenza non ci sono precedenti di attivisti internazionali per i diritti umani che abbiano commesso attacchi violenti contro Israele? Credono veramente che io possa essere la prima pacifista internazionale a portare esplosivi (magari nella mia penna stilo), o stanno cercando altro - forse informazioni? O è semplicemente una forma di molestia per stabilire la loro autorità e farmi pensare due volte prima di ritornare?

 

Certo, io pongo una sorta di minaccia, che è la minaccia allo status quo.

Israele non può continuare con la sua politica di occupazione e insediamenti, se la gente, in tutto il mondo, particolarmente negli USA, ne conosce i particolari e ne parla a voce alta. Ci sono un sacco di informazioni a disposizione, e la consapevolezza cresce con il crescere delle voci e storie palestinesi che vengono ascoltate.

Se Israele è la fiorente democrazia e ricercatrice di pace che reclama di essere, perchè chi monitorizza le sue azioni e da voce ai senza voce dovrebbe essere una minaccia?

 

I Rapporti sull’Occupazione  sono diventati un tale problema per Israele che lo scorso mese di giugno hanno negato l’ingresso al mio amico e collega Paul Larudee, un accordatore di pianoforti di 60anni, Conferenziere per la Fulbright, ed consigliere governativo per gli USA in Arabia Saudita, come anche volontario per il Movimento Internazionale di Solidarietà (International Solidarity Movement).

L’ISM è un’organizzazione composta da palestinesi, israeliani e internazionali dedicati alla resistenza all’occupazione israeliana della terra palestinese usando metodi non-violenti, diretti ed etici (www.palsolidarity.org).

Sull’aereo avevo letto una pubblicazione della storia di Paul, cui era stato negato l’ingresso, resistendo ad un’involontaria detenzione, facendosi amici e giocando in prigione, ed infine perdendo il suo caso in tribunale, tutto in spirito di compassionevole non-violenza (ho lasciato la pubblicazione incriminata nella tasca del sedile di fronte al mio, quale sorpresa per il prossimo viaggiatore da Israele. Se siete interessati a leggerlo, andate al 10 Luglio del “Diario di Prigionia”, al fondo del suo blog: www.hurriyya.blogspot.com ).

L’ironia, infatti, è che attivisti come me e Paul non stanno neppure cercando di penetrare il territorio israeliano. Noi stiamo cercando di raggiungere il West Bank, sulla terra palestinese internazionalmente riconosciuta , dove Israele non ha alcuna autorità legale, in accordo alla legge internazionalee a dozzine di risoluzioni ONU.

Invece Israele impedisce il funzionamento dell’unico aeroporto palestinese – quello di Gaza – e controlla tutte le frontiere, così i volontari delle operazioni di solidarietà e umanitarie devono passare attraverso i controlli di polizia della frontiera israeliana, anche se non hanno alcuna intenzione di entrare in Israele.

È chiaro che, come stranieri, Paul ed io potremmo non necessariamente essere ammessi in Palestina, ma questa dovrebbe essere una decisione palestinese e non israeliana.

 

Altra ironia è che il lavoro di Paul, e mio, sostengono esclusivamente la resistenza non violenta, anche di fronte a gran brutalità.

Paul l’ha espresso chiaramente in numerosi suoi rapporti e dichiarazioni: ”La reppressione israeliana dei volontari per i diritti umani è una cinica contraddizione delle loro ricorrenti dichiarazioni, dove auspicano che i palestinesi ed i loro sostenitori debbano usare tattiche non-violente…per piacere coloro i quali, ignorando la persistenza pervasiva del movimento non-violento palestinese continuano a domandare, “Dov’è il Ghandi palestinese?”.

È istruttivo considerare la misura in cui Israele andrà assicurando che il dissenso e la resistenza non-violenti sono stati eliminati.

Se Israele sceglie di trattare tali movimenti con tale aggressività, non ci dovrebbe essere di cui sorprendersi se le vittime della sua repressione ricorrono poi a maggior violenza quale espressione del loro malcontento per le ingiustizie subite.

 

Ispirata dagli aneddoti della detenzione di Paul sulla resistenza creativa, ero pronta a tutto ieri, ma alla fine delle ispezioni e di una serie di domande ripetitive una guardia della sicurezza mi riconsegnò il passaporto dicendomi:”Va bene, tu puoi andare, buona giornata”.

 

Nel mio passaporto c’era un evidente visto d’ingresso del Ben Gurion Airport.

Alzai lo sguardo verso la guardia e dissi, “Ve ne siete dimenticati?”(…che non volevo il passaporto timbrato…)

 

“No”, disse, “Lo sapevamo che non lo volevi, ma te l’abbiamo timbrato lo stesso”

 

“Per quale motivo?” chiesi stupefatta. Lui scrollò le spalle. Azzardai ancora, “Così non potrò visitare altre nazioni mediorientali?”

 

“No, puoi farti fare un passaporto nuovo”

 

Avevo capito, e dissi, “Dispettosi?”

 

Lui sorrise e si girò per tornare al suo lavoro. Anch’io dovetti sorridere, non perchè lo trovassi divertente, ma perchè ero ancora lì.

 

Ero ovviamente felice di non essere stata rispedita indietro, ma mentre prendevo il treno per Tel Aviv pensai a tutta quella gente che non era stata così fortunata negli anni passati.

 

Ad oltre 15000 possessori di passaporti stranieri era stato negato di entrare nei territori palestinesi negli ultimi cinque anni, molti di loro palestinesi con le mogli, con case, bambini, terra, lavoro, e altri mezzi di sostentamento in Palestina.

Molti di coloro ai quali è stato negato l’ingresso hanno vissuto in Palestina per decenni, con i permessi che scadevano ogni tre mesi, e che avrebbero dovuto perennemente rinnovare.

Ma Israele ha recentemente iniziato ad emettere gli “ultimi permessi”, così da obbligare i residenti ad andarsene. Vi dò un esempio.

 

Una coppia palestinese si era trasferita negli Stati Uniti d’America. Essi avevano due bambini, ambedue nativi americani. Essi decisero di ritornare in Palestina, ma Israele rifiutò la residenza per i loro bambini americani (…fate attenzione, sul territorio palestinese…Mentre è da tener presente che la doppia cittadinanza, americana-israeliana, è comune in Israele e tra gli insediamenti del West Bank).

Per cinque anni la coppia rinnovò il permesso ogni tre mesi per i loro figli, sinchè un giorno Israele disse che ai loro bambini, di 6 e 8 anni, non era più concesso di vivere lì.

La coppia fu obbligata a lasciare la Palestina.

Questo è solo uno dei molti aspetti della nuova pratica Israeliana, che, come dicono esperti legali, dovrebbe svuotare il West Bank di oltre 500,000 palestinesi in breve tempo.

Perchè i residenti palestinesi se ne vanno per tenere unite le famiglie.

 

Tra gli obiettivi di questa politica ci sono stati anche accademici stranieri e conferenzieri delle università palestinesi, medici, musicisti, giornalisti e avvocati per i diritti umani.

A causa dell’embargo internazionale dipendente dagli USA, che impedisce di alleviare l’esplosione della crisi umanitaria, i palestinesi sono adesso più isolati che mai dall’assistenza internazionale.

E per una società che dà grande importanza a valori quali la famiglia, l’educazione, e la vita, come pare sia per i palestinesi, la politica israeliana è un forte incentivo all’emigrazione, che significa sempre meno palestinesi ed un forte incremento della demografia giudea.

Circa sei milioni di rifugiati palestinesi nel mondo non potranno mai visitare la Palestina, la loro terra madre.

Ma io, Anna -bianca, americana, giudea- sono qui da ieri, e mi accanirò per fare ciò che i rifugiati non possono: lottare per il diritto dei palestinesi alla libertà ed alla propria terra.

Certamente è cosa di loro competenza, non mia, ma lo considero un mio privilegio.

Mi ha portato qui ieri, e mi ha circondato oggi come una bolla facendomi volteggiare attraverso i servizi di  sicurezza e la stazione degli autobus di Tel Aviv, con tre enormi valige (due palestinesi dietro di me, senza bagagli, furono bloccati e atterrati), facendomi guizzare attraverso i West Bank palestinesi, su un autobus di coloni ebrei, su una strada per soli israeliani.

Ovunque ci sono privilegi, ma forse non dovrebbe essere sempre così.

 

By Anna Baltzer

www.AnnaInTheMiddleEast.com

a Jewish-American Columbia graduate

volunteer with the International Women’s Peace Service

 

Traduzione di Filippo Fortunato Pilato

per www.jerusalem-holy-land.org