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I partiti attuali sono in grado di autoriformarsi?

di Carlo Gambescia - 18/09/2007

 

Sotto il profilo sociologico i partiti, come espressione viva di una certa fazione politica e strumento di difesa di particolari individui, ma anche di ceti o classi sociali, sono sempre esistiti. Basta scorrere qualsiasi manuale di storia greca, romana e medievale.
Tuttavia negli ultimi due secoli i partiti moderni, le cui origini istituzionali risalgono allo sviluppo della monarchia costituzionale inglese e alle grandi assemblee rivoluzionarie francesi, si sono gradualmente trasformati in legali e funzionali strumenti rappresentativi di ideologie e interessi e di selezione del personale politico. Il che ha indubbiamente rappresentato un oggettivo passo in avanti, rispetto alle antiche e sanguinose lotte tra fazioni avverse. Inoltre il Novecento ha visto nascere il partito democratico di massa ( si pensi ai grandi partiti socialisti); il partito unico (si pensi ai partiti fascisti e nazionalsocialisti e al partito comunista sovietico); ma ha anche evidenziato le insufficienze del cosiddetto governo esclusivo dei partiti soprattutto nelle democrazie post-Seconda Guerra Mondiale. Perché?
Non bisogna mai dimenticare che il partito moderno è un gruppo sociale prima che politico, e come ogni gruppo sociale, risponde a due caratteristiche sociologiche fondamentali: a) tende a svilupparsi a danno di altri gruppi sociali ; b) tende a costituirsi, al suo interno, secondo criteri gerarchici, perché laddove c’è organizzazione c’è “gerarchizzazione”. Ora, entro certi limiti funzionali, sia lo sviluppo sociale che le tendenze oligarchiche sono un fenomeno fisiologico, e quindi socialmente accettabile. Il che però non significa che ogni sistema sociale non abbia un suo punto limite. In Russia il partito comunista, rimasto al potere per più di settant’anni è imploso, dopo aver raggiunto i limiti sociali di tollerabilità e funzionalità. I partiti fascisti e nazionalsocialisti, sconfitti sul campo, attraverso una guerra, hanno trovato proprio nella guerra il proprio punto limite. In Italia, la Democrazia Cristiana si è dissolta in seguito a intollerabili e disfunzionali scandali politici.
Pertanto si deve tenere conto della natura sociale dei partiti. Di qui una regolarità sociologica: una società sarà tanto meno vincolata ai partiti quanto più sarà pluralista e ricca di gruppi sociali alternativi, o comunque in grado di contenere l’eccessivo sviluppo esterno dei partiti. Quanto alla tendenze oligarchiche (altra regolarità sociologica), si tratta di fenomeni interni a ogni gruppo sociale, che non possono essere eliminati, ma soltanto mitigati attraverso una veloce rotazione delle élite al comando. Rotazione che può essere facilitata dal grado di apertura di un partito al resto della società. E in particolare dalla sua natura dottrinaria: dal momento che quanto più un partito è ideologico tanto più resta chiuso agli apporti esterni. Ovviamente, esiste anche il rischio contrario: che partiti fondati solo sugli interessi, possano essere colonizzati, a loro volta, da altri gruppi sociali, ad esempio di formazione economica o tecnica. Insomma, è sempre un problema di equilibrio storico e sociale.
In Italia, per ragioni storiche e culturali legate al tardivo sviluppo politico ed economico, che qui non possiamo approfondire, i partiti non potevano non trasformarsi in forze, spesso, colonizzatrici di una società priva di un vero tessuto civile “nazionale”. Di qui, soprattutto nell’Italia Repubblicana, il succedersi di ondate “movimentiste” di segno oppositivo. Semplificando al massimo possiamo distinguerne almeno quattro: il qualunquismo nell’immediato dopoguerra; i movimenti, anche sindacali, legati alla contestazione sessantottina; i movimenti di Mani pulite; e infine, in questi giorni, il cosiddetto grillismo. Che, tuttavia, non ha ancora assunto una forma ben precisa.
Ora, il punto non è demonizzare i movimenti, ma costituire nei tempi lunghi (almeno una generazione), una società “più solidale” e pluralista. Il problema, ripetiamo, prima che politologico è sociologico. La protesta dei movimenti nei riguardi della democrazia rappresentativa dei partiti, indica sempre il raggiungimento del punto limite di tollerabilità e funzionalità sociali. Al qualunquismo, che criticava le "partitocrazie" resistenziali, si rispose con la “ricostruzione” sociale ed economica degasperiana, al Sessantotto con le riforme sociali degli anni Settanta (riforma universitaria, servizio sanitario nazionale, eccetera); a Mani Pulite, con le riforme politiche (il bipartitismo): una risposta purtroppo insufficiente, perché esclusivamente politica e politologica (si pensi all’elitario dibattito sui sistemi elettorali, interessante, ma “settoriale”). Insufficienza che spiega però l’ attuale esplosione del grillismo.
Ma come si risponderà a Grillo? Ecco il vero problema. Gli attuali partiti, di destra come di sinistra, sono in grado di autoriformarsi e favorire il pluralismo e la solidarietà sociali?