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Il libro della settimana: Leonardo Becchetti, Il denaro fa la felicità?

di Carlo Gambescia - 19/09/2007

Il libro della settimana: Leonardo Becchetti, Il denaro fa la felicità?, Editori Laterza 2007, pp. 144, Euro 10,00

Ci dispiace per il professor Leonardo Becchetti, stimato economista, ma il primo studioso a occuparsi, già nella prima metà del Novecento, del rapporto tra economia e felicità, fu Roberto Michels. Ci spieghiamo meglio.
Di Becchetti, docente all’Università di Roma Tor Vergata, è in libreria Il denaro fa la felicità? (Editori Laterza 2007, pp. 144, euro 10,00). Un testo denso ma fruibile anche dai non addetti ai lavori. Dove ci si occupa dello studio e della misurazione della felicità, dal punto di vista delle scienze sociali, e in particolare economiche.
Infatti, non si tratta più di un “missione impossibile”, come si riteneva in passato. Perché oggi, grazie ai sondaggi di opinione, che si basano su interviste, facilmente “strutturabili” e “somministrabili” , è possibile stabilire alcuni punti fermi, di cui però parleremo più avanti. Quel che invece ci ha sorpreso è non avere letto nella sua bibliografia, tra i nomi di studiosi stranieri (Easterlin, Scitowsky, Akerlof, Sen) e italiani (Bruni), quello del nostro Roberto Michels. Il quale va invece considerato il padre di questa nuova disciplina, che potremmo qui chiamare “felicitologia”. Neologismo, non proprio felice, che tuttavia identifica un settore che si muove ai confini della psicologia, della sociologia e dell’economia. Comunque sia, Michels scrisse nel lontano 1918, Economia e felicità (Vallardi). Un libro dove si criticava, tra le altre cose, come appunto oggi fa Becchetti, l’economia pura, di stampo utilitarista, tutta cifre e tabelle. Un bel testo che meriterebbe di essere ristampato. Peccato.
Ma veniamo a Il denaro fa la felicità?
Cominciamo da un primo punto fermo, probabilmente per alcuni fin troppo scontato. Il denaro può contribuire alla felicità, ma da solo non basta. Perché? Secondo Becchetti il denaro, inteso non tanto come conseguimento della ricchezza smisurata, ma come esito di una giusta retribuzione lavorativa, fa la felicità dell’uomo, quando intorno a lui, sussiste un vigoroso sistema di relazioni sociali. Per farla breve: famiglia, amici, associazioni, Ma soprattutto occorre la consapevolezza individuale che non sì è mai quel che si guadagna, ma quel che si fa in termini del proprio onorevole contributo sociale, a qualsiasi livello. Ma sono anche intriganti gli esempi che Becchetti fa a proposito del volontariato. Le ricerche infatti mostrano quanto alle origini di questo fenomeno, oggi abbastanza diffuso, vi sia la gratificazione sociale e morale: il senso di fare un lavoro socialmente utile, e spesso meritorio. Come dire: non si vive di solo pane…
E qui si apre anche un’interessante parentesi sul rapporto tra altruismo, felicità e salute. Alcuni studi illustrano come il disinteresse - certo, non fino all’autodissoluzione - renda più felici e allunghi la vita. Gli ottimisti, coloro che affrontano la vita con il sorriso e la generosità, vivono più a lungo. Qui però - e il professor Becchetti ci perdoni di nuovo - andavano ricordati gli studi empirici e pionieristici di Pitirim A. Sorokin, risalenti agli anni Cinquanta del Novecento, sugli effetti benefici di un sano altruismo, su se stessi e gli altri. Ricerche tra l’altro, oggi disponibili anche in lingua italiana (P.A. Sorokin, Il potere e le vie dell'amore, Città Nuova 2004).
Passando dal privato al pubblico, Becchetti si sofferma sul rapporto tra politica e felicità, ponendosi la seguente domanda: lo Stato deve promuovere la felicità dei cittadini? In realtà, come ben sanno economisti e sociologi si tratta di un interrogativo spinoso, perché le indagini mostrano che i singoli hanno con le politiche pubbliche un rapporto contraddittorio: per un verso cercano la protezione dello Stato (in termini di pensioni, assicurazione sociali, eccetera), per l’altro aspirano a far coincidere la felicità con il massimo della libertà dallo volere dello Stato, soprattutto in economia (meno tasse, meno vincoli legislativi, eccetera). Di qui quella difficoltà oggettiva a far quadrare il cerchio tra le politiche sociali dello “stato etico”, come lo definisce non benevolmente Becchetti, e la ricerca di una sfrenata libertà individuale. Attraverso la quale accumulare denaro ( e dunque di “felicità”), da spendere in beni socialmente inutili, ma desiderabili.
Tuttavia la sua ricetta è semplice, probabilmente troppo: “ Massimizzare la felicità dei cittadini può voler dire creare una cornice di regole e lasciare, poi, alla vitalità della società civile il compito di fornire beni e servizi sociali, rendendo i cittadini protagonisti e responsabili della realizzazione dei lori desideri di felicità”. Spesso però in politica non è così facile trovare un accordo sulle “regole”. Soprattutto quando manca la fiducia verso i governanti e l’ idem sentire tra le forze politiche.
Va perciò recuperato, come ci ha insegnato, Albert O. Hirschman (Felicità privata e felicità pubblica, il Mulino 2003) - altro autore assente nel libro di Becchetti - il gusto condiviso del bene pubblico: dello spirito di servizio, nonché del valore esemplare dei comportamenti di coloro che sono ai vertici. Le “regole”, da sole, non bastano mai. Perché se mancano esemplarità e fiducia, le “regole” possono essere sempre violate, all’insegna del famigerato “perché lui sì, io no”…
E’ chiaro perciò, quanto l’Italia di oggi, assetata di facili ricchezze, si trovi su una china pericolosa. Ecco allora, la necessità di immaginare almeno un percorso teorico per ricostruire una certa di idea di felicità al tempo stesso pubblica e privata, basata su valori comunitari. Una felicità, insomma, non egoistica, ma capace di recepire il senso dei doveri pubblici e privati, verso se stessi e i gruppi sociali, cui si appartiene socialmente. Dal momento che gli studi “felicitologici” mostrano come la gratificazione morale del singolo, nasca da quel rispetto che si vivifica e cresce intorno a coloro che si “spendono” per gli altri, nella sincera consapevolezza che il denaro non dia la felicità.
In conclusione, la “felicitologia”, come scienza, deve puntare sull’idea di comunità. E probabilmente Michels lo aveva già capito nel lontano 1918.