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Il passo delle oche (recensione)

di Stenio Solinas - 19/09/2007

Il passo delle oche di

Alessandro Giuli

(Einaudi, 176 pagine,

14,50 euri) è un bellissimo

pamphlet fin dal

titolo. In quel plurale

pennuto c’è lo scarto

caricaturale che differenzia la presenza al

singolare di una cadenza militare rigidamente

consapevole, dal tronfio e ridondante

movimento di volatili da cortile e senza fissa

dimora, appesantiti da un fisico infelice,

condannati a scatti improvvisi un po’ qua e

un po’ là. “L’identità irrisolta dei neofascisti”,

come recita il sottotitolo, è infatti proprio

questa, un’andatura senza meta, ovvero

una meta che si qualifica e si nutre della sua

andatura: ora avanti, ora indietro, ora a

destra, ora a sinistra, ora di fianco, ma sempre

restando in fondo nello stesso posto, lì

dove si celebra il trionfo di tutte le tattiche

e il vuoto di ogni strategia.

Giuli ha poco più di trent’anni, uno stile

scabro, nessuna indulgenza per il giornalese,

un periodare secco eppure aulico, nel senso

nobile del termine, una vena ironico-amara

con tratti di pietas. Per analizzare il percorso

politico di Alleanza Nazionale, il suo libro

parte da un dato di fatto così sintetizzabile:

“L’altro ieri neofascisti per caso, ieri missini

per necessità, oggi postfascisti per convinzione

liberatoria e domani antifascisti per

logica di causa-effetto”. Messo così, Il passo

delle oche sfugge alla solita e ormai stanca

diatriba su abiure e tradimenti e si concentra

sul problema di un’identità di destra sfuggente,

quanto conclamata.

Nato nel 1975, a Giuli è stata risparmiata una

giovinezza missina, e questo gli consente un

approccio etologico singolare. “Dentro AN

abita un complesso tremendo. Il complesso di

chi abbia sofferto il buio delle catacombe missine

svilluppando un profilo rettilare per autodifesa

e nessuna altra passione che non sia

quella bassa e duratura del risentimento.

L’ego rettilare si manifesta nell’organismo

dell’animale che per paura di un attacco

esterno concentra il sangue negli organi vitali

riducendo il calore sanguigno periferico”.

Il retaggio catacombale da un lato, la necessità

di trasferire un’attitudine passiva, da autodifesa,

appunto, nell’agone di una lotta politica

attiva e carnale, è in sé elemento di schizofrenia.

Lo testimonia l’eccesso di presenzialismo

da un lato, il voler sempre e

comunque far sentire la propria voce nel terrore

che d’improvviso essa possa essere di

nuovo silenziata, l’incapacità di trovare il tono

giusto per esporla. Da ministri, da deputati,

da presidenti di regione, da sindaci si troverà

nelle loro dichiarazioni il battutismo spesso

becero e fine a sé stesso, l’ovvietà ammantata

di retorica, la disinvoltura di chi abbraccia un

pensiero per tranquillamente contraddirlo

nella dichiarazione successiva. È quello che

Giuli, parlando di Gianfranco Fini, definisce

il “pensare breve”, ovvero l’idea che per l’analisi

ci sia tempo: quel che conta è esserci,

sempre e comunque.

Il retaggio e/o incubo catacombale è anche

foriero - secondo Giuli - di una “sindrome da

sottosuolo” che il venire alla luce del sole ha

capovolto con

effetti grotteschi. Lì dove un tempo c’era una

mania persecutoria, alimentata tuttavia da dati

di fatto, oggi c’è il suo opposto, ossia una

sorta di abbaglio da impunità, il poter fare

tutto, il non doversi negare niente. Al di là di

ogni valutazione giuridica, il retroterra delle

vicende umane legate a Vallettopoli

o al cosiddetto Sanità-Gate sta proprio

in questa non metabolizzata euforizzazione

da vita all’aria aperta.

Nel pamphlet l’autore dà ampio

spazio a Gianfranco Fini, e non

potrebbe essere altrimenti. Senza di

lui, Alleanza Nazionale non esisterebbe,

e in quest’ottica il pensiero, se

così lo vogliamo chiamare, dello

stesso Fini si è evoluto nel solco di

una convinzione che vede ormai quel

partito più un onere che un onore, più

un impaccio che un valore aggiunto.

Consapevole che c’è “un’enorme

sproporzione tra il micropotere detenuto

all’interno, una piccola satrapia

inespugnabile, e la scarsa credibilità

delle sue chance di capitanare una

rivoluzione politica nella Destra

nazionale ed europea”, Fini ha in

fondo deciso di risolverla usandolo

come “carburante personale” per

l’approdo in un contenitore più

ampio in cui l’etichetta di destra non

avrà più alcuna ragione di esistere.

Per una strana eterogenesi dei fini

(con la minuscola) si dovrà a lui,

insomma, l’eliminazione di quella

identità nel cui nome si era cancellata

la precedente denominazione

neofascista. Al nulla, come si vede,

non c’è mai fine (al singolare e

sempre con la minuscola).

E gli altri? In un partito cesaristico,

l’elemento correntizio è un

paravento, ovvero un gioco delle

parti che nasconde la mancanza di reali e credibili

alternative. Nel caso in questione, l’assenza

di competitors è aggravata dall’appartenere

più o meno tutti allo stesso ambito.

Gasparri, Storace, La Russa, l’imprinting è

quello almirantiano-finiano... Restano fuori

gli Urso e gli Alemanno, ma al primo si deve

una deriva liberal-liberista poi approdata a un

neo-destrismo politeista che conferma la

sostanziale strumentalità di ogni scelta.

Quanto al secondo, l’essere stato ministro non

è bastato a dargli un pensiero e una caratura

da leader.

Fini, dunque, è il deus ex machina di AN,

nonché il suo motore immobile: se ne attende

ogni giorno l’apparizione, se ne riconosce

ogni giorno l’insostituibilità. Ma mentre nei

suoi sottoposti l’ebbrezza della gloria non

supera i confini di una realizzazione personale,

qui siamo di fronte, come nota Giuli, “a

una personalità non sempre all’altezza delle

ambizioni”. È un leader che “non sopporta il

tradimento delle urne”, ovvero un politico

dall’ego sovrabbondante cui però non corrisponde

la conoscenza della realtà che lo circonda

e che incolpa quest’ultima perché si

ostina “a negargli ciò che lo spirito del tempo

ha stabilito per lui”. È una variante del

“destino cinico e baro” di saragattiana

memoria, aggravata però dal fatto che il vecchio

leader socialdemocratico credeva in

qualcosa, laddove l’ormai cinquantenne

leader aennino non ha mai creduto in nulla,

se non in sé stesso. Che poi, politicamente, è

la stessa cosa.

Questo spiega anche la necessità di vestirsi di

panni altrui. Gli ultimi, in ordine di tempo,

sono quelli di Nicolas Sarkozy, e fa un po’ sorridere

un leader affetto e afflitto da una sindrome

mimetica che non trova mai però nell’imitato

una vera sponda cui fare riferimento.

Più Fini applaude, celebrandone sui muri le

vittorie con tanto di manifesti, e facendo da

prefatore italiano ai suoi libri francesi, più dall’altro

lato non giunge alcuna eco... Anche

qui, è l’ombra lunga di Berlusconi a fare la

differenza: Berlusconi che su Sarkozy può

lasciar cadere un “è stato un mio avvocato”,

Berlusconi che di Sarkozy può orgogliosamente

dire “ha vinto imitando me”.

Sulla mancanza di cultura, in un ambiente già

di per sé refrattario alla cultura, Giuli scrive

pagine condivisibili, ma non nuove. Interessante

- ma, ahimé, datata - è la sua visione

di un ancoraggio a destra all’insegna dello

stile, mutuata da una visione evoliana elitaria

e antimoderna, inservibile in una società di

massa e per un partito che la voglia in qualche

modo rappresentare. Lì dove Alleanza nazionale

si attovaglia nell’onnivora ingestioneindigestione

di qualsiasi cibo intellettuale,

Giuli le oppone una cucina tradizionale, ma

penitenziale. Di certo autoctona, perché la sua

idiosincrasia per i suggerimenti culinarioideologici

d’oltralpe, lo porta a citazioni orecchiate

e quindi inesatte, da correggere in una

prossima ristampa. Montherlant ha una “t” e

non una “d” alla fine del cognome, Edmond

Radiguet non ha una “e” alla fine del suo

nome... Ma queste, in un tessuto altrimenti

eccellente, sono sì puntualizzazioni ortografiche

evoliane, fuori dal tempo...