In Iraq ha vinto solo il regime di Teheran
di Roberto Zavaglia - 19/09/2007
L
unedì scorso, il generaleDavid Petraeus, capo delle
forze USA in Iraq, elencando,
davanti al Congresso, i progressi delle
sue truppe, si è particolarmente
soffermato sul “successo” nella provincia
di Anbar, dove i sunniti avrebbero
aiutato i militari statunitensi a
infliggere un colpo decisivo alle
milizie di Al Qaeda, scacciandole
dalla zona. Tre giorni dopo è giunta
la notizia che Abu Risha, il più
importante notabile schieratosi con le
forze occupanti, è stato ucciso in un
attentato. Evidentemente, anche nella
“regione modello” le cose non vanno
come i vertici USA amerebbero credere.
Non è detto che le tanto attese relazioni
del generale e dell’ambasciatore
in Iraq, Ryan Crocker, siano del
tutto menzognere. La questione è che
le parole dei due assomigliano a
quelle di un condannato a morte il
quale si compiacesse di essere guarito
dall’influenza. Per dirla come il
generale Wesley Clark, l’ex comandante
NATO nella guerra contro la
Jugoslavia, se alcuni progressi ci
possono essere stati, sono però del
tutto insufficienti.
Per la verità, tanto il militare come il
diplomatico non hanno parlato di una
futura vittoria, ma, come ha detto
Petraeus, della speranza che «col
tempo sia possibile conseguire i
nostri obiettivi in Iraq, anche se questo
non sarà facile né immediato».
Tale circonlocuzione, più che la convinzione
di essere sulla strada giusta,
rappresenta un paracadute lanciato
all’amico Bush nel tentativo di sottrarlo
agli attacchi dei Democratici.
Il Presidente ha bisogno di prendere
tempo sull’Iraq per evitare che le
prossime elezioni si trasformino in
una disfatta per i Repubblicani. La
dichiarazione del generale sulla possibilità
di incominciare un lento e
parziale ritiro concede a Bush la
chance di provare a convincere il
Paese che le cose stiano migliorando.
Il Congresso ha ascoltato delle relazioni
dal tono sobrio, improntate a
un assai cauto ottimismo. Il generale
ha sottolineato la riduzione
delle violenze settarie, leperdite inflitte alle milizie di Al
Qaeda e la diminuzione degli
attacchi della guerriglia. Sull’identità
e le attività degli insorti,
però, non ha detto niente,
lasciando falsamente credere
che la resistenza contro gli
occupanti sia soprattutto opera
dei jihadisti, definiti tutti quanti,
con approssimazione propagandistica,
come militanti di Al
Qaeda la quale, nella realtà,
non è certo la tentacolare organizzazione
di massa dipinta dai
media. L’ambasciatore Crocker
ha insistito sul fatto che la ricostruzione
politica ed economica
dell’Iraq è ardua perché la
società civile era stata distrutta
dal sadico totalitarismo di Saddam.
Neanche un accenno al
disastro provocato dall’invasione,
come se gli Stati Uniti
non portassero alcuna responsabilità
per quattro anni e mezzo
di massacri e distruzioni.
Il tentativo di far apparire un
successo il “surge”, ordinato da
Bush all’inizio dell’anno, si
scontra con la convinzione
degli iracheni, il 70% dei quali
ritiene che la sicurezza sia
addirittura diminuita. Nel frattempo
il numero delle persone
fuggite all’estero - tra cui moltissimi
tecnici e intellettuali,
con le prevedibili ricadute
negative sul futuro del Paese -
è salito a 2,2 milioni di persone
in una nazione di 27 milioni di
abitanti, alle quali bisogna
aggiungere anche un 1.900.000
profughi interni che spesso
sopravvivono in condizioni
disperate. È solo grazie ai programmi
di aiuto alimentare che
campano 5 milioni di iracheni,
ma è il 43% dell’intera popolazione
che versa in condizioni
di assoluta povertà, mentre
l’80% fatica a disporre di cure
sanitarie. Sulla disoccupazione
non vi sono dati certi, ma, nonostante
i progressi economici
vantati da Crocker, la percentuale
di persone senza un vero
e proprio lavoro dovrebbe
aggirarsi intorno al 50%.
E tutto questo in un Paese il
quale, prima che gli USA vi
introducessero il vangelo dei
diritti dell’uomo, avrà avuto
tanti problemi, ma era all’avanguardia
nel mondo arabo
per assistenza sanitaria e sociale
e dove la miseria era estremamente
circoscritta. La maggioranza
della popolazione ora
pensa che si viveva meglio sotto
Saddam, perfino nel duro
periodo dell’embargo internazionale.
È difficile darle torto,
se sono almeno in parte corretti
i calcoli della rivista scientifica
Lancet
che, nell’ottobre dell’annoscorso, contava in
655mila i morti causati, più o
meno direttamente, dall’invasione.
Per la cronaca, c’è chi si
è preso la briga di effettuare
una proiezione di quel computo
fino ad oggi, arrivando a
oltre un milione di vittime.
Gli USA che hanno provocato
questa tragedia non solo non
sanno come farla cessare, ma
nemmeno hanno idea di come
sganciarsene senza subire danni
strategici rilevanti.
È chiaro come l’unico vincitore
nel caos iracheno sia, ad
oggi, la Repubblica Islamica
dell’Iran. Già ora, attraverso le
milizie sciite alleate, Teheran
controlla parte del Sud del Paese.
Gli inglesi, perfino i tenaci
e bellicosi inglesi, hanno compreso
che la partita è perduta e,
nei giorni scorsi, hanno definitivamente
levato le tende da
Bassora, lasciandola all’esercito
governativo che, al momento
opportuno, ben poco potrà
contro gli estremisti sciiti i
quali, per altro, sono largamente
presenti nelle sue file.
L’angoscia dell’Amministrazione
è alimentata dalla convinzione
che un ritiro, progressivo
o fulmineo, favorirebbe le
mire degli Ayatollah sull’Iraq,
ma nemmeno i candidati
democratici alla Presidenza
sanno come evitare un simile
scacco. Per conservare la situazione
attuale o per effettuare
altri “progressi” gli USA
dovrebbero mantenere o, addirittura,
rafforzare il loro impegno
militare. Sebbene la società
statunitense, a differenza di
quanto si pensava, abbia dimostrato,
pur con il disagio e le
proteste prevedibili, di sapere
assorbire una elevata quantità
di “notizie negative” e un
numero di perdite umane abbastanza
consistente, è difficile
ipotizzare un’occupazione a
tempo indeterminato. È noto
che sono state costruite alcune
grandi basi, che hanno tutto
l’aspetto di essere permanenti,
dalle quali, anche in caso di
ritiro del grosso delle truppe,
l’esercito USA potrebbe mantenere
una pressione sulle forze
iraniane nel caso Teheran
minacciasse altri Paesi della
regione, in particolare l’Arabia
Saudita, strategicamente decisiva.
È difficile immaginare il futuro
dell’Iraq, il giorno in cui gli
statunitensi decideranno di
andarsene.
La stampa non è stata, in questi
anni, capace di offrirci una reale
fotografia della situazione
del Paese. Non conosciamo
nemmeno la composizione e
l’entità di una guerriglia che è
capace di tenere testa al più
potente esercito del mondo, ma
sembra mancare di un coordinamento
nazionale e non è in
grado di porsi come interlocutore
riconosciuto a livello
internazionale.
Dalle fonti alternative sul campo
- soprattutto blog e giornalisti
indipendenti che descrivono
le difficoltà e le violenze quotidiane
- apprendiamo però
abbastanza per comprendere
che il Paese tra i due fiumi è
condannato a vivere giorni
oscuri ancora per un tempo
non breve.