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I miti greci: mito e realtà in Robert Graves

di Umberto Bianchi - 19/09/2007

 

I miti greci: mito e realtà in Robert Graves

Una lettura fondamentale per chi intenda affrontare il problema delle radici dell’Occidente è offerta da “I miti greci” di Robert Graves. Anche se datato al 1954, questa mastodontica e minuziosa raccolta dei miti greci costituisce una pietra miliare nello studio della mitologia e della storia delle religioni, visto che il testo non si limita ad una semplice opera di descrizione dei motivi mitici, bensì ne affronta il problema delle origini, comportando in tal modo una originale visione di insieme che finisce giuocoforza con il coinvolgere il problema delle radici della nostra civiltà. Punto cardine del testo è l’immagine della mitologia greca come punto d’incontro tra due correnti di civilizzazione; da una parte la civiltà pre-indoeuropea e le sue divinità telluriche, nettamente improntate da una decisa preminenza dell’elemento femminile su quello maschile. E’ il regno della Dea Terra, quella Grande Madre la cui incessante e copiosa fecondità necessita una continua e periodica offerta di sacrifici umani maschili. Le crudeli leggi della società matriarcale fanno sì che un re subordinato alla regina, sia stagionalmente sacrificato. Affogato, decapitato, lanciato da una rupe sul mare, trascinato da una biga in corsa o ucciso dal proprio successore, il re verrà smembrato e divorato, i suoi resti sparsi ai punti cardinali posti a delimitare il microcosmo territoriale delle varie comunità d’appartenenza. In tal modo sarà garantita quella vitale continuità, tutta legata ai ritmi stagionali, sanciti dalle fasi della Luna, la cui natura femminile e notturna sembra ribadire la supremazia dell’elemento femminile nell’equilibrio del cosmo. Dall’altra parte le tribù indoeuropee, inizialmente rappresentate da Ioni ed Eoli, e via via arricchita dalla presenza di Achei e Dori, tutti egualmente accomunati da una visione contrapposta a quella delle tribù Pelasgiche pre-indoeuropee. Qui la residenza degli Dei è direttamente collocata tra le sfere celesti; a farla da padrone divinità maschili come Zeus e le dee in una posizione sicuramente più subordinata. Questa concezione si riflette in un ordinamento sociale patriarcale; a comandare è l’uomo, mentre la donna, si trova ora a dover condividere le antiche responsabilità in una posizione subordinata. Sebbene contrapposte, queste due culture, incontrandosi daranno luogo a quella splendida amalgama che risulterà essere la civiltà ellenica. Il passaggio non sarà immediato, svolgendosi in un arco di tempo che andrà dal 13° al 10° secolo AC, approssimativamente. Le trasformazioni da una società matriarcale ad una patriarcale saranno graduali. Inizialmente l’apporto eolico e ionico non intaccherà un gran che lo status quo matriarcale, limitandosi all’introduzione di nuove figure divine come Zeus ed Apollo. Gradualmente il re sacro rifiuterà di farsi sacrificare, mandando al proprio posto un fanciullo, sino alla completa sostituzione della regina-madre con il rex-pater, nel ruolo di indiscusso ed assoluto reggitore dei destini della comunità. Di tutto questo sembra esservi traccia nello smisurato corpus mitologico ellenico. L’estromissione della pre-ellenica Estia dal consiglio degli Olimpi a favore della presenza di Dioniso, sembrerebbero rappresentare una valida prova a riguardo. Il delicato equilibrio del consiglio degli dei, rappresentato da sei dei e sei dee viene in tal modo modificato a favore di una più incisiva presenza maschile, dopo una rivolta delle popolazioni pre elleniche dopo la quale il corpus teologico subisce un ulteriore rimaneggiamento. Le primordiali guerre divine tra Zeus e Crono, e tra Zeus ed i Titani ribelli, sembrerebbero ulteriormente riconfermare tale ipotesi. In tal modo il Graves-pensiero si adatta e plasma di sé l’intero “corpus” mitologico e religioso ellenico. Dalle origini del creato sino al mito di Odisseo, il testo segue il filo di una narrazione genealogica, volta cioè a mostrare il dipanarsi della vicenda della grande famiglia ellenica; all’indomani della propria creazione uomini, dei e ninfe si accoppiano, si incrociano, si scontrano. La nascita di regni, città, eroi, guerre, vicende mitiche e quasi storiche (come nel caso della guerra di Troia) nel proprio svolgersi segna in modo indelebile la specificità culturale dell’ecumene ellenica, che in tal modo eleverà sé stessa ad immagine e specchio del mondo intero. L’elleno si sente in tal modo in comunione con il divino con cui condivide origini e vicissitudini. Ogni città, ogni dinastia, ogni eroe può qui vantare origini sovrannaturali. Sin qui tutto bene, dunque. Il punto debole del testo sta nell’impostazione che Graves dà all’intero corpus mitologico. Figlio della scuola evoluzionista frazeriana ed affascinato dalle idee del Bachofen, (magistralmente espresse ne “Il matriarcato”), Graves riversa per intero sul suo testo i risultati degli studi di questi due autori, dando luogo ad un’operazione quanto mai azzardata, in quanto rischia di deformare irrimediabilmente contenuti e senso della mitologia ellenica. Fare di ogni vicenda mitica, anche quella meno nota ed importante, la metafora vivente dello scontro tra il matriarcato ed il patriarcato, e vedendo in essa il riproporsi dei precedenti riti matriarcali, riportando il mito nel sin troppo ristretto alveo della sociologia storica, tutto ciò è pericoloso e fuorviante. Dire, per esempio, che la vicenda del volo di Icaro debba essere la metafora dell’antico sacrificio del re sacro in veste di “farmakòs” (ovvero quale vittima sacrificale lanciata dall’alto di una scogliera con due ali posticce, sic!) oppure fare della vicenda del ritorno di Odisseo un’ ulteriore prova del sacrificio stagionale del re sacro, è cosa sì tentatrice, ma quanto mai distorsiva. Stesso discorso vale per l’intera vicenda di Eracle e le sue fatiche, declinate anche qui nel nome della solita reminiscenza rituale legata al matriarcato. Punto secondo. Graves ha la pericolosa tendenza a storicizzare il mito, sottolineando ed enfatizzando le presunte origini mediorientali (libiche, palestinesi, etc.) della civiltà greca, facendosi scudo delle innegabili similitudini culturali determinate dalla vicinanza geografica delle varie civiltà mediterranee. La civiltà greca rappresenta un vero e proprio “unicum” all’interno dell’ambito euro-mediterraneo, la cui centralità non è minimamente paragonabile né assimilabile alle aggregazioni semitiche del Mediterraneo che vivevano della luce e del riflesso delle grandi civilizzazioni egizie, mesopotamiche ed ittite, senza però possederne né la grandezza, né l’originalità. Stesso discorso vale per le selvagge popolazioni libiche, indicate tra coloro da cui la civiltà ellenica avrebbe preso le mosse. Quella greca è tra le più eccelse tra le civiltà indoeuropee; frutto di una originale sintesi tra popolazioni europidi pre-indoeuropee (Pelasgi) e gli indo-ariani propriamente detti, risente appieno dello slancio civilizzatore di questi ultimi. Come testimoniato dalla leggenda dello sdegno provato da Zeus rispetto all’antropofagia rituale praticata da Licaone, usando fanciulli imberbi, a cui farà seguito un purificatore diluvio universale, o dalla vicenda del combattimento tra i civili Lapiti ed i selvaggi Centauri, o dalla sconfitta dei Titani, o ancora dalla pratica di concedere molto spesso agli omicidi di purificarsi ritualmente per le proprie azioni dinnanzi agli Dei, la Grecia indoeuropea, iperborea, ariana, mostra di possedere un elemento in più che forse i semiti o i libi del Mediterraneo, adoratori di selvagge deità femminili, conoscevano poco o niente affatto: la “pietas”. Quella pietas che, permettendo di valutare con giustizia ed equità, crea ad una civiltà inusitate opportunità di crescita e sviluppo, cosa che in effetti accadde con la Grecia.
L’intero testo del Graves è gravato da un eccesso di storicizzazione che contraddice con la natura del mito, in sé atemporale e carica di simbolismi.
Molto spesso il mito (e la religione ad esso connessa) si fanno veicolo privilegiato di metafore il cui significato va da motivi strettamente interrelati al lato psichico individuale, sino ad assumere significati di più ampio senso coinvolgenti l’intero ordine cosmico. Ecco, questo è il fascino del mito: sapersi far carico di tutta una serie di significati in grado di rinviare continuamente ad una forma di sapere recondito e sfuggente a qualsiasi tentativo classificatorio, come invece la Modernità in tutte le sue espressioni vorrebbe imporre. Permane la bellezza del racconto, il fascino del contatto con una cultura tanto lontana nel tempo, ma tanto vicina a noi spiritualmente, in grado di farci ancora sognare e desiderare un mondo “altro” da quello rappresentato dall’arida realtà in cui oggidì viviamo.