Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L'Imperatore Giulano

L'Imperatore Giulano

di Francesco Lamendola - 20/09/2007

 

 

       In questo saggio si traccia un ritratto dell'imperatore romano Flavio Claudio Giuliano, che la tradizione cattolica ha bollato con l'epiteto di "apostata" per aver abiurato la religione cristiana, nella quale era stato forzatamente cresciuto, e per aver tentato di ripristinare il culto pagano. Nato nel 331, fronteggiò in Gallia un'invasione di popoli germanici, dal 356 al 359, per conto dell'imperatore Costanzo II, figlio di Costantino il Grande. Nel corso di tale campagna riuscì a infliggere una sconfitta decisiva agli Alamanni, nel 357, a Strasburgo, liberando tutte le province romane fino al Reno e pacificandole con una saggia azione di governo. Divenuto imperatore nel 351, alla morte improvvisa di Costanzo II (che evitò all'Impero la sciagura di una nuova guerra civile), morì a sua volta nel corso di una invasione della Persia sassanide, dopo essersi spinto fin sotto le mura di Ctesifonte, la capitale nemica. Fu anche filosofo e insigne scrittore, le cui opere sono state conservate e si possono raccogliere in due gruppi: i "Discorsi" e le "Lettere".

  

      Al fine di non dilatare eccessivamente la nostra ricerca, ci limiteremo qui a considerare gli ultimi due anni di vita di Giuliano, durante i quali fu unico sovrano dell'Impero Romano, escludendo quindi gli anni in cui fu Cesare per le province galliche, nei quali aveva dato prova di insospettate doti di stratega e condottiero d'eserciti.

     Inoltre, concentreremo la nostra attenzione sulla sua politica religiosa e, poi, sulla campagna militare contro i Persiani; quest'ultima, infatti, era nei suoi progetti funzionale alla prima e, se fosse tornato a Roma vittorioso, è certo che avrebbe cercato di suggellare i suoi sforzi volti alla restaurazione del paganesimo, varando una legislazione ancor più accentuatamente anticristiana e promuovendo in tutto e per tutto un ritorno dello Stato agli antichi culti.

 

 

SOMMARIO.

 

I.                   La personalitò di Giuliano nella storiografia.

II.                Le fonti.

III.             Ingresso di Giuliano a Costantinopoli.

IV.             Suoi primi provvedimenti.

V.                Sua riforma della corte.

VI.             Amministra la giustizia.

VII.          Promuove la ripresa del paganesimo.

VIII.       Sua politica verso la Chiesa.

IX.             Il paganesimo in Occidente e in Oriente.

X.                Politica interna ed estera.

XI.             Giuliano lascia Costantinopoli per Antiochia.

XII.          L'ambiente cristiano.

XIII.       Politica anticristiana di Giuliano.

XIV.       Linciaggio del vescovo Giorgio ad Alessandria d'Egitto.

XV.          Giuliano irriso dagli abitanti di Antiochia,

XVI.       Suo contegno durante il soggiorno in città.

XVII.     Il "Misopogon".

XVIII.   Riapre il tempio di Apollo a Dafne.

XIX.       Fa chiudere, dopo l'incendio di esso, la basilica cristiana.

XX.          Prepara la guerra contro la Persia,

XXI.       Proposte di pace di Sciaphur a Giuliano.

XXII.     Giuliano le respinge.

XXIII.   Cerca invano di far ricostruire il Tempio di Gerusalemme.

XXIV.   Raduna la flotta e l'esercito sull'Eufrate.

XXV.     Dà disposizioni al re d'Armenia e riceve ambasciatori saraceni.

XXVI.   Distacca una parte dell'esercito e la affida a Procopio e Sebastiano.

XXVII.                     Sue manifestazioni di superstizione.

XXVIII.                  Tiene un discorso all'esercito a Cercusio.

XXIX.    Raggiunge Doura-Europos.

XXX.      Conquista la fortezza persiana di Anatha.

XXXI.   Supera, senza prenderle, le fortezze di Thilutha ed Achiacala.

XXXII.                     Le fatiche della marcia in Mesopotamia.

XXXIII.                  Massacro di alcune donne a Diacira, evacuata dagli abitanti.

XXXIV.                  Raggiunge le città di Osogardana e Macepracta.

XXXV.                     Prime scaramucce col nemico.

XXXVI.                  Incertezza sulle intenzioni di Sciaphur.

XXXVII.               L'esercito supera il fiume Naarmalcha combattendo.

XXXVIII.            Conquista la città di Pirisabora.

XXXIX.                  Prende d'assalto l'acropoli e la conquista dopo dura lotta.

XL.          Durissima battaglia e conquista di Maiozamalcha.

XLI.       L'esercito romano si accampa presso Seleucia.

XLII.     Orrori romani e persiani a Seleucia.

XLIII.   Ulteriore avanzata e vittoriosa battaglia davanti a Ctesifonte.

XLIV.   Piani di Giuliano e consiglio di guerra.

XLV.     Conversione lungo il Tigri e autodistruzione della flotta romana.

XLVI.   Passaggio del fiume Duro.

XLVII.                     Nuovo consiglio di guerra nel campo romano.

XLVIII.                  La nuova marcia verso nord è una ritirata.

XLIX.   Viene avvistato un esercito in marcia.

L.                Continue scaramucce con la cavalleria persiana.

LI.             Battaglia di Maranga e vittoria romana.

LII.          L'esercito romano soffre la fame.

LIII.       Grande battaglia fra Tummara e Sumera; Giuliano è mortalmente ferito.

LIV.       Vittoria romana e morte di Giuliano.

LV.          Valutazione complessiva della sua personalità e della sua opera.

 

 

I.

      Per tutta l'età moderna la figura dell'imperatore Giuliano ha esercitato un fascino particolare su quasi tutti gli storici dell'ultimo periodo di Roma antica. Egli venne esaltato dalla storiografia illuminista in misura direttamente proporzionale alle calunnie malevole con le quali la storiografia cristiana del suo tempo lo presentò ai posteri. In età romantica, egli divenne oggetto di una riflessione più sfumata e problematica, quasi un caso emblematico delle contraddizioni e della conflittualità interna dell'uomo di ogni tempo. È noto che  Henrik Ibsen ne fu in gioventù talmente affascinato, da comporre un lunghissimo dramma in dieci atti - nel 1873, in  Germania -, Kaiser og Galilaer (ossia Cesare e Galileo), non privo di felici intuizioni psicologiche, e che fu l'ultima delle sue opere a carattere romantico.

      Né la storiografia contemporanea ha saputo riguardarlo con una maggiore obiettività, cadendo non di rado in esagerazioni ed equivoci piuttosto vistosi. Leggendo le pagine, ad esempio - peraltro pregevolissime e veramente affascinanti - di Corrado Barbagallo, si finisce quasi per dubitare se l'imperatore Giuliano fu un uomo o un dio. Egli scrive, tra l'altro, che il governo di Giuliano "fu un ritorno all'Impero illuminato, alla felice età di Augusto, di Traiano, di Marco Aurelio"; caduto, si direbbe, come un angelo dalle ali spezzate, nello squallore semibarbarico del IV secolo, autentica età del ferro. In un certo senso, par di poter concludere, egli scomparve così presto, senza lasciar tracce durevoli della sua opera, perché il secolo era troppo barbaro, troppo indegno di lui…

      Senonchè, nella storia (e non occorre chiamare in causa la Storia con la "S" maiuscola, alla quale noi non crediamo) simili ritorni non esistono e non possono esistere. Dire che l'impero di Giuliano fu un ritorno agli Antonini è una enormità, più o meno come lo sarebbe affermare che l'Impero germanico di Guglielmo II fu un ritorno a quello di Ottone il Grande. La storia non passa mai invano, non si ferma e non ritorna; per usare l'espressione di Eraclito, "non ci si può mai bagnare due volte nella stessa acqua".

      Non cè dubbio che, nella esaltazione di Giuliano operata da storici come il Barbagallo, la reazione agli ingiusti giudizi degli storici cristiani antichi ha avuto il suo peso. Ma è anche chiaro che per questa strada non si va lontano. Nonostante la scottante attualità di taluni problemi posti dalla figura e dall'opera dell'imperatore Giuliano, oggi, a distanza di tanti secoli e di tante critiche di segno opposto, dovrebbe esser giunto il momento della valutazione serena e sgombra di polemiche preconcette. Si scoprirà allora che il "caso" di Giuliano, quantunque  complesso e indubbiamente affascinante, è stato gonfiato dalle diatribe a un grado tale, da creargli intorno una sorta di alone leggendario, che può e deve essere dissipato da uno sforzo di conoscenza libera da pregiudizi.

     

II.

      Della personalità di Giuliano, dei suoi studi filosofici, delle sue iniziazioni ai Misteri, dei suoi vagheggiamenti del passato, del suo carattere integerrimo e della sua acuta intelligenza, molto è stato detto. La sua infelice e solitaria giovinezza, vissuta sotto la spada di Damocle di un ordine imperiale che avrebbe potuto mandarlo a morte in qualsiasi momento, com'era accaduto a suo fratello; la sua nominaa Cesare da parte di Costanzo II, l'ultimo figlio di Costantino il Grande sopravvissuto alle tremende guerre civili scoppiate alla morte del padre; le sue strepitose vittorie in Gallia, che gli permisero di ricacciare l'invasione germanica quando ormai tutti i i suoi generali sembravano disperare del successo; la proclamazione ad Augusto da parte delle truppe, i preparativi per la guerra civile e la morte improvvisa di Costanzo, di ritorno dal teatro di operazioni persiano, che gli aveva spalancato senza colpo ferire le porte di Costantinopoli, lasciandolo unico padrone di tutto l'immenso Impero… Tutto questo sembra più creazione di un romanziere che storia realmente accaduta, e da sempre ha esercitato un fascino profondo sui suoi biografi e sugli storici della tarda antichità.

      Giuliano imperatore, però, non fu meno straordinario di Giuliano Cesare, e a ragione il Gibbon si domandava con stupore se era mai possibile credere che soli diciotto mesi separino l'inizio del suo regno dalla morte improvvisa sul campo di battaglia, in Mesopotamia.

      Noi abbiamo comunque la fortuna di disporre, per il regno di Giuliano in generale e per la sua personalità di uomo in particolare, dell'opera di uno storico contemporaneo veramente d'eccezione: un greco di Antiochia che a Roma imparò il latino e che in lingua latina scrisse le sue Historiae in trentun libri - Ammiano Marcellino, ufficiale di artiglieria nelle campagne contro la Persia, prima sotto Costanzo II e poi sotto lo stesso Giuliano. Egli spicca di gran lunga, nel panorama della storiografia del tardo Impero, per la sua imparzialità e serenità di giudizio, che appaiono due volte eccezionali: per i tempi e per l'uomo. Per i tempi che - come è noto - a causa soprattutto di controversie religiose, erano tutt'altro che propizi alla serenità della valutazione storica; per l'uomo, perché Ammiano, oltre ad essere un contemporaneo di Giuliano e un ufficiale del suo esercito (era nato ad Antiochia verso il 330 e morì a Roma circa l'anno 400), ne fu anche un sincero ammiratore. Che il pagano Ammiano non si sia lasciato prender la mano dall'esaltazione del suo idolo; che il fanatismo religioso allora imperversante abbia così poco offuscato il suo giudizio, tanto da consentirgli una nobile equanimità verso i cristiani e addirittura una critica severa di alcune azioni di Giuliano: tutto ciò deve ritenersi veramente straordinario. È strano che con una simile fonte a disposizione si sia continuato, anche in tempi recentissimi, a romanzare, nel bene o nel male, la figura di questo imperatore.

       Un' utile fonte di rincalzo è costituita da Zosimo (secolo V), storico greco del quale poco o nulla sappiamo, se non che ebbe facoltà critiche non solo infinitamente inferiori a quelle di Ammiano, ma decisamente mediocri in senso assoluto. Anche Zosimo, come Ammiano, fu un pagano; ma più acrimonioso, più invelenito nei confronti dei cristiani e ben lontano dalla generosa e intelligente imparzialità del suo predecessore. Il suo racconto risente di una certa piattezza e ci illumina più sui fatti, che sulle loro cause ed origini. Però, siccome in molti luoghi ci offre delle informazioni parallele a quelle di Ammiano, ma discordanti nei particolari, si può dedurre che quest'ultimo sia stato solo una delle fonti di Zosimo, che può dunque essere utilizzato come una utile fonte supplementare.

 

III.

      Il giovane imperatore Giuliano, appena trentunenne, aveva fatto il suo ingresso trionfale a Costantinopoli l'11 dicembre del 361, poco dopo aver appreso che suo cugino Costanzo, legittimo Augusto, era morto improvvisamente a Mobsucrene, in Cilicia, per una malattia. Dovette essere uno spettacolo indimenticabile, quello del popolo di Costantinopoli, uomini e donne, giovani e vecchi (aetas omnis et sexus. Amm., XXII, 2, 4), che accorreva a vedere quel giovane straordinario, dall'aspetto comune, anzi modesto, di non alta statura, del quale si raccontavano a gara le cose più entusiasmanti, lo splendore delle vittorie, la fermezza e al tempo stesso mitezza del governo, la velocità straordinaria nelle marce guerresche.

      A Giuliano, poi - cosa che non era da poco - una sorte benevola risparmiava l'ingresso nella capitale d'Oriente nelle vesti odiose del fratricida. A tutti era noto come fosse avvenuta la sua acclamazione ad Augusto, in Gallia, per iniziativa delle truppe e non per sua manifesta istigazione; come anzi, secondo si diceva, in un primo tempo fosse stato riluttante ad accettare, e avesse tentato di resistere. Così pure, la circostanza che aveva posto fine ai giorni di Costanzo in quel villaggio dimenticato, laggiù nella lontana Cilicia, aveva risparmiato al mondo romano non solamente gli orrori di una nuova guerra civile, ma altresì lo spettacolo della lotta fratricida tra due cugini, uno dei quali - che il destino aveva riservato alla sovranità esclusiva - era debitore all'altro del titolo di Cesare e del governo dell'occidente. Giuliano non dovette levare un dito contro il proprio antico benefattore, mente agli occhi dell'opinione pubblica - così superstiziosa e suggestionabile - la scomparsa repentina di Costanzo dovette far l'impressione di una specie di giudizio divino, che seguendo le sue vie imperscrutabili tagliava il nodo spinoso delle contese umane.

 

IV.

      La magnifica onestà morale di Ammiano, però, ci informa che Giuliano, fin dalle sue prime azioni di governo, dimostrò chiaramente a tutti di non essere un dio. Al termine di una guerra civile, e sia pure pressochè incruenta come quella testè conclusa, era nel normale ordine delle cose che il vincitore si abbandonasse alle rappresaglie nei confronti dei partigiani dello sconfitto. Pure, dalla saggezza e dalla clemenza di Giuliano, il filosofo austero, il salvatore delle città galliche, ci si aspettava qualche cosa di più della solita macabra parentesi di sangue. Giustizia vuole  si riconosca che alcune delle persone da lui condannate meritavano una punizione esemplare, ed essa era invocata a gran voce dalla stessa popolazione. Giuliano non si astenne però dal confondere la sua causa privata con quella dello Stato e cercò di perseguitare perfino quei funzionari che avevano avuto qualche parte, e sia pure alla lontana, nella morte di suo fratello Gallo. Quanto ad Apodemio, agente del servizio segreto, e a Paolo, segretario di Stato, le loro malefatte esigevano una punizione, ma il rogo, cui furono condannati vivi, non può non gettare una luce sinistra sui tempi, sulla società e sul governo che di tali sistemi facevano tranquillamente uso.

      Di peggio fece Giuliano quando permise che il comes largitionum, Ursulo, venisse ucciso dopo il suo ingresso a Costantinopoli. Quella morte fu una doppia ingiustizia perché Ursulo era stato uno dei pochi a favorire Giuliano durante il suo governo nelle Gallie, e sotto la sua responsabilità aveva consentito l'invio al giovane Cesare di quei mezzi finanziari, dei quali la gelosia di Costanzo lo aveva lasciato privo. Dopo la sua morte, Giuliano tentò giustificarsi dicendo che Ursulo era stato ucciso dai soldati senza che egli avesse impartito alcun ordine, ma ciò poteva essere soltanto o una confessione d'impotenza, o una scaltra simulazione. Quando poi si aggiunga che a presiedere questi processi contro i vecchi partigiani di Costanzo si trovava Arbizione, personaggio di ben nota doppiezza e mancanza di scrupoli - il quale, oltretutto, aveva costituita una diretta minaccia alla vita stessa di Giuliano - si avrà un quadro completo dei primi errori in cui l'imperatore, trascinato dalla sua irruenza giovanile e dalla sua inesperienza, si lasciò indurre a dispetto delle sue molte virtù.

 

V.

      Più meritorio fu il comportamento di Giuliano allorchè prese possesso del palazzo imperiale di Costantinopoli ed ebbe agio di toccar con mano la babilonica, incredibile folla di personaggi equivoci e corrotti, di parassiti, di barbieri, di eunuchi, che colà prosperavano come tafani molesti e succhiavano quantità inverosimili di denaro dalle casse dello Stato. Ovunque volgesse lo sguardo, Giuliano poteva vedere il lusso barbarico, la moltitudine dei clienti, degli inservienti, degli arruffoni, lo spreco materiale e il cattivo esempio morale, dei quali il suo predecessore s'era circondato. Quella vista era intollerabile per il sobrio filosofo, abituato a un tenore di vita disadorno e quasi spartano, a una operosità non ostentata, all'amore per lo studio solitario e al disprezzo dei piaceri, così come delle ricchezze. Perciò la sua reazione sdegnata fu quella di cacciare immediatamente dalla corte tutti gli eunuchi, i cuochi e i barbieri, senza distinzione alcuna, senza voler separare l'onesto dal corrotto, né prestare ascolto a chicchessia. Anche in ciò Giuliano diede prova di fermezza e di virile austerità, ma anche di una certa qual intransigenza e di uno spirito eccessivamente rigido, dimenticando che la maggiore virtù di un sovrano, dopo l'onestà e la fermezza, è certamente la duttilità e, con essa, la capacità di distinguere nelle varie situazioni.

      Giuliano aveva lungamente studiato la filosofia, ma il suo carattere - benchè temprato da uno stile di vita addirittura ascetico - non aveva perduto quell'ardore tipico della gioventù, specialmente, poi, di chi in gioventù è stato lungamente condannato a dissimulare e a soffrire in silenzio, pena la vita, come aveva dovuto fare lui sotto Costanzo. Si mostrò insomma uomo d'assalto più che pondrerato e ragionevole amministratore, il che non avrebbe tardato a deludere molti dei suoi sudditi e perfino alcuni dei suoi amici e sostenitori. Nel caso della cacciata dei parassiti dal palazzo imperiale, non possiamo negare che il provvedimento di Giuliano nasceva da una sentita esigenza interiore di decoro e di moralità, e che la corruzione e gli sprechi invalsi sotto i governo di Costantino e dei suoi figli erano stati tali, che lo sdegno del giovane sovrano desta - se non altro - la nostra simpatia. Bisogna anche tener presente, tuttavia, che l'apparato di corte voluto dai suoi predecessori era in linea con la divinizzazione del sovrano sul modello delle monarchie orientali, cui Diocleziano, in particolare, aveva impresso una svolta decisiva; e Giuliano, atteggiandosi a princeps augusteo, andava contro le fondamenta ideologiche del proprio stesso potere.

      Un solo episodio per illuminare tutto un mondo. Giuliano aveva fatto chiamare un barbiere per tagliarsd i capelli. Venne un uomo vestito così sontuosamente, da parere un alto funzionario più che un semplice barbiere. L'imperatore sbottò: - Non ho fatto venire un procuratore del fisco, ma un barbiere!- (Amm., XXII,5, 9). Poi volle informarsi di quale fosse la paga di quell'uomo sotto Costanzo: gli fu risposto che percepiva quotidianamente venti razioni di frumento, altrettante di foraggio per gli animali, un grosso stipendio annuo e, in più, delle remunerazioni speciali per le prestazioni straordinarie. Questa era divenuta la corte di Costantinopoli sotto la dinastia di Costantino.

 

VI.

      Tutto preso dal suo sogno di restaurare gli antichi costumi e le buone, vecchie abitudini dell'Impero di un tempo, Giuliano adottò la consuetudine di recarsi personalmente nella curia per amministrarvi la giustizia, come un principe di antica data. Egli voleva indubbiamente ricostituire il senso della legalità e dell'efficienza del potere imperiale agli occhi del popolo, dopo il rilassamento e la confusione imperanti sotto il regno di Costanzo. Al tempo stesso, desiderava stringere rapporti amichevoli col Senato di Costantinopoli, città cristiana per eccellenza, in vista dell'avvio della sua politica religiosa a favore dei culti pagani, che certamente gli avrebbe suscitato contro molti risentimenti e molte critiche. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, Giuliano diede prova di un notevole attaccamento alla tradizione e alla correttezza formale, tanto da rasentare l'ostentazione. Basti dire che, una volta, giunse al punto di infliggersi un' ammenda da sé medesimo, quando seppe di aver svolto, inavvertitamente, le funzioni di un altro magistrato.

      Non sappiamo fino a che punto tutto ciò imopessionasse il Senato di Costantinopoli. Giuliano agiva rettamente, ma dava un po' l' impressione di voler recitare a freddo la parte di Traiano, l'optimus princeps, nei confronti del Senato romano della fine del I e dell'inizio del II secolo. Dimenticava che troppo tempo era passato da allora, e che, oltretutto, il Senato di Costantinopoli non era quello di Roma. A Roma la sua linea di condotta avrebbe sortito certo buoni risultati, perchè, a dispetto dei tempi, la città del Tevere vantava un'antica tradizione di indipendenza alla quale i suoi patrizi erano molto attaccati. Ma Costantinopoli era una città vergine di tradizioni repubblicane, anzi vergine di tradizioni in senso assoluto, ed era stata creata da Costantino come gemma della sua autocratica corona e come una novella Zenobia da ostentare, carica di catene d'oro, nel trionfo del suo dispotismo orientalizzante. I senatori della Nuova Roma sul Bosforo non rimpiangevano alcuna libertà, perché non l'avevano mai conosciuta; per loro, cristianissimi, la persona del cristiano imperatore era sacra e intoccabile; solo che Giuliano non era cristiano… Insomma, anche da questo lato la politica di Giuliano doveva apparire a dir poco utopistica, preoccupata più di correr dietro ai sogni e alle chimere di un passato esaltante, ma ormai estraneo, piuttosto che di tener conto dei dati della situazione reale.

      Se qualche singolo episodio può gettare una luce illuminante sul carattere e sulla personalità di un uomo, non sarà inutile ricordare un fatto accaduto in Senato, e non sfuggito, come al solito, all'acutissimo senso critico di Ammiano (cfr: XXII, 7, 3). L'imperatore stava amministrando, come sua abitudine, la giustizia nell'aula del Senato; quand'ecco giungergli la notizia che era arrivato il filosofo Massimo, del quale egli aveva grandissima stima. Allora, certo con grande stupore di tutti i senatori, e corse ad abbracciare Massimo, baciandolo e poi riportandolo seco nell'aula del Senato. Ammiano dice che in quella occasione Giuliano avrebbe meritato la mordace osservazione di Cicerone, che vi sono dei filosofi i quali scrivono interi trattati sul disprezzo della celebrità e degli elogi degli uomini, ma poi, sul frontespizio di quegli stessi trattati, vogliono che appaia a caratteri cubitali il loro nome perché tutti possano notarlo a prima vista.

 

VII.

      Fu subito dopo il suo ingresso trionfale a Costantinopoli che Giuliano, mettendo da parte ogni indugio, s'indusse a render pubblico il suo culto verso le antiche divinità, che fino ad allora aveva dissimulato o quantomeno evitato di pubblicizzare eccessivamente. Durante il suo governo in Gallia nelle funzioni di Cesare, egli non si era voluto esporre in materia religiosa, per non compromettere la sua popolarità; anzi, dopo la sua proclamazione ad Augusto, durante una festività cristiana egli si era unito nella preghiera ai cristiani di Vienne per raccogliere simpatie anche da quella parte, in vista del duello finale con Costanzo.  

       Adesso, però, scomparso Costanzo e riunificato l'Impero nelle sue sole mani, egli non ritenne di esitare più a lungo e diede libera manifestazione alla sua devozione pagana, suscitando, com'era naturale, sorpresa, stupore e sdegno tra la popolazione costantinopolitana, quasi totalmente cristiana, e specialmente tra i monaci, il clero e la parte più intransigente e rigorista della chiesa.  Ma la religione degli dèi antichi era formalmente proscritta, a causa degli editti e delle disposizioni in materia di suo zio Costantino il Grande e di suo cugino Costanzo II, onde, per prima cosa, Giuliano ordinò in maniera esplicita la riapertura dei templi già chiusi, l'immolazione di vittime e il ristabilimento dei culti antichi, su un piede di perfetta parità con la religione cristiana.

      Osservatore intelligente della realtà circostante, benché non di rado ottenebrato dal proprio idealismo fanatico, Giuliano non tardò a individuare nella disciplinata articolazione del clero cristiano una delle maggiori ragioni della superiorità organizzativa e propagandistica del cristianesimo sui vecchi culti. Di conseguenza, rivolse grandi sforzi all'instaurazione di un clero pagano regolare, modellato su quello cristiano, che provvedesse in maniera continuativa, non empirica né saltuaria, a mantener viva la fiamma della religiosità pagana. Questo doveva certamente essere un primo passo per restituire una maggior competitività agli antichi culti nei confronti del cristianesimo, che tanti progressi aveva fatto con l'organizzazione mirabile della sua chiesa

      Era anche, però, una confessione di debolezza, poiché una religione, o un insieme di religioni, che cerchi di reggersi con gli editti e con le riforme organizzative, confessa in partenza il proprio intimo fallimento e la necessità di ricominciare tutto daccapo. Ma il paganesimo antico era troppo vecchio e stanco per poter riprendere con nuovo vigore l'aspra battaglia. Fin da allora si venne delineando il carattere tragico della riscossa religiosa del tardo paganesimo sotto il breve regno dii Giuliano, determinato dalla circostanza di dipendere in misura decisiva  dalla personale esistenza e  dalla iniziativa inesausta di un singolo uomo. In termini di moderna medicina si potrebbe dire che che il paganesimo era tenuto in vita mediante una sorta di accanimento terapeutico. E quando la mano che controllava le varie apparecchiature venne meno, senza aver avuto il tempo di consolidare l'opera, anche il respiro della religione pagana cesserà per sempre.

 

VIII.

      Nessuno potrebbe negare la nobiltà teorica dei provvedimenti religiosi di Giuliano. Egli affermava il principio della piena libertà di coscienza per tutti i sudditi, non solo per quelli di una certa religione, ma per tutti coloro che adoravano in forme diverse la divinità. In linea teorica (e sottolineiamo teorica), le leggi emanate da Giuliano nell'inverno del 361-362 si ponevano in poeretta coerenza e armonia con gli editti di galerio del 311 e di Costantinoil grande del 313. Anche nel cosiddetto "editto di Milano", il primo imperatore cristiano aveva rivendicato per ogni uomo il diritto alla libertà interiore in materia religiosa, principio nobilissimo che ben presto egli stesso aveva calpestato. Apparentemente, dunque, i provvedimenti di Giuliano non miravano che a ristabilire la giustizia, contestando la posizione di predominio che il culto cristiano si era arrogato, col favore degli imperatori, nei confronti di tutte le altre fedi religiose.

      In pratica, tuttavia, ciascuno poteva vedere come una posizione, e sia pure arbitraria, conquistata da una singola religione sulle sue rivali nell'ambito di una data società, non poteva esser rimessa in discussione se non allo scopo non dichiarata di scalzarla dal suo predominio e infine, se possibile, dalla vita stessa dello Stato. Poiché Giuliano doveva fare i conti con una religione che aveva avuto il tempo di organizzarsi saldamente all'interno dell'Impero e di estendere le sue ramificazioni in tutti i settori della vita civile, e che era seguita, se non dalla maggioranza, certo dalla parte più attiva e intraprendente della popolazione, sulle prime non osò lasciar  trasparire le sue intenzioni ultime, e si compiacque di atteggiarsi a campione di una encomiabile, ma astratta ed equivoca, libertà universale.