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Il "modo" italiano di fare "peacekeeping"

di Fabio Mini * - 20/09/2007




Mi fa piacere che l’intervento del generale Cecchi abbia toccato argomenti che stanno a cuore a molti colleghi e che fanno parte del pacchetto di pensieri che da anni vado esprimendo. La "via italiana" al peacekeeping, il rispetto dell’altro, l’incontro anziché lo scontro e la conquista delle menti e dei cuori sono tuttavia parole che possono servire ad elaborare concetti diversi. Anche diametralmente opposti.

Cecchi le ha usate per presentare una concezione rispettabile delle nostre operazioni che tuttavia non rispecchia né il vero “modo” italiano di fare peacekeeping (personalmente tendo ad evitare valenze filosofiche come quelle suggerite dal termine “via”) né le condizioni nelle quali negli ultimi anni abbiamo impiegato i nostri soldati.

Si deve infatti proprio all’attuale dirigenza militare, di cui Cecchi fa parte nonostante qualche evidente tardivo pentimento, il rigetto sistematico di tutto il capitale di prestigio accumulato in anni di peacekeeping.

Un eventuale tentativo di appropriazione di tale concezione da parte dell’attuale vertice sarebbe indebito e menzognero. La cosiddetta "via italiana" al peacekeeping, iniziata in Libano e maturata in Albania, Somalia, Mozambico e oggi di nuovo in Libano, non ha nulla a che vedere con la guerra alla Serbia, all’Afghanistan e all’Iraq.

In ogni missione il peacekeeping italiano è stato messo a dura prova dalle pretese dei vari comandanti internazionali e spesso dall’acquiescenza di quelli nostrani. Se oggi sopravvive in Bosnia, Kosovo e Libano o in qualche punto dell’Afghanistan è soltanto grazie a comandanti sul campo particolarmente intelligenti o caparbi e non ad una filosofia emanata dall’alto.

Il modo italiano di fare peacekeeping viene dal basso, è puntiforme e non è codificato o promosso da nessun vertice. Anzi spesso è stato contrastato e gli stessi vertici ancora oggi non lo hanno capito, non lo hanno individuato e continuano a dibattersi tra impulsi di bellicismo represso, buonismo fuori luogo e funambolismi di qualsiasi natura guardando sempre in direzione dell’alto e mai del basso.

La "via italiana" che in questi ultimi sette anni è stata indicata alle nostre truppe dai vertici è perciò tutt’altro che da celebrare. E’ la via che continua a chiamare peacekeeping delle operazioni di guerra in territorio di guerra a fianco di alleati in guerra soltanto per nascondere i veri scopi ed eludere le stesse leggi nazionali.

In queste situazioni l’unica "via italiana" che ci viene ormai riconosciuta con disprezzo è quella di non dire mai di no a quello che i potenti chiedono, ma di non impegnarsi mai fino in fondo. Questo atteggiamento non è una caratteristica dei soldati ma del vertice che gioca sulla capacità e sulla flessibilità delle truppe per continuare ad assecondare l’ambiguità e l’equilibrismo.

Questa "via italiana" imposta da questo o quel governo non ha mai trovato obiezioni da parte militare neppure quando veniva chiesto di fare esattamente il contrario di ciò che era necessario e di ciò che gli impegni avrebbero richiesto.

Il riferimento all’Iraq come ad un esempio della cosiddetta "via italiana" al peacekeeping, in questo senso suona come un insulto all’intelligenza di tutti e alla memoria di chi ci ha lasciato la pelle. In Iraq abbiamo partecipato ad una guerra senza volerla fare, senza avere interessi, al di fuori del quadro giuridico internazionale, rischiando di più proprio per voler eludere la realtà.

Abbiamo fatto tutto questo soltanto in ossequio all’esigenza di americani e inglesi di avere un numero tale di nazioni al fianco da poter presentare la guerra come un fatto d’interesse collettivo. Per far parte di questo numeretto ci siamo uniti a nazioni assolutamente insussistenti sul piano della sicurezza internazionale, abbiamo avallato menzogne e nefandezze ed abbiamo spaccato il fronte europeo.

Per difendere questo numeretto gli americani hanno sopportato che alcuni contingenti, fra cui quello italiano, si spacciassero per peacekeeping e si ritenessero esentati dalle operazioni di guerra e di occupazione. In Iraq abbiamo adottato una “"via italiana"” fatta di buonismo e di acquiescenza imponendo dall’alto misure di sicurezza inappropriate alla situazione.

Quando ci hanno fatto saltare in aria una caserma e diciannove uomini, i nostri vertici hanno imposto la “"via italiana"” della chiusura nei “bozzoli d’acciaio” che Cecchi oggi critica. Per mesi il territorio è stato lasciato libero da qualsiasi controllo italiano.

Nassiryia è diventata terra di conquista di inglesi e americani e dei rispettivi avversari. Non era sotto il controllo di nessuno e quando il successivo contingente ha voluto rialzare un poco la testa e cercare di dare un senso alla propria missione operativa ha dovuto difendersi con le armi per tentare di riassumere una parvenza di controllo del territorio.

E’ appena il caso di ricordare che dall’Iraq ci siamo ritirati non per coerenza con una filosofia, ma per un cambio di governo ed in ossequio ad una parte di quel governo che considerava l’intervento in Iraq illegale, ingiusto e nefando e che il contributo alla sicurezza o alla ricostruzione dell’Iraq fornito dai nostri contingenti era praticamente nullo.

Se questi termini non sono stati usati nella motivazione del ritiro del nostro contingente è soltanto per assecondare l’equilibrismo politico nei rapporti con gli americani. Ma ci hanno pensato gli stessi alleati a stigmatizzare il nostro ritiro dichiarandolo ininfluente.

La "via italiana" al peacekeeping imposta dal vertice è stata perciò quella più amara e difficile per qualsiasi esercito: abbandonare gli alleati nel bel mezzo dell’azione. Si è trattato di riprendere una storica "via italiana" di umiliazione che si è sommata all’umiliazione precedente inflitta a chi si chiedeva di andare in guerra fingendo di essere in pace. Fortunatamente anche in Iraq le truppe hanno saputo mantenere vivo il modo italiano rispettando se stessi, aiutando gli altri e mantenendo la propria dignità.

Una cosa analoga è successa in Afghanistan dove l’iniziale orientamento a riassumere il ruolo tradizionale di peacekeeping e assistenza, formulato con l’adesione alla coalizione di volenterosi che ha dato vita ad Isaf, è stato stravolto prima dall’assunzione di comando della Nato e poi dall’unione della Nato alla guerra di Enduring Freedom.

La “via italiana” scelta dai vertici si è perciò espressa ancora una volta con l’astensione di fatto dalle operazioni alleate e con la solita ambiguità di considerare peacekeeping ciò che è guerra. In nessun caso, sia in Iraq che in Afghanistan, è stata mai tentata la “via” di convincere gli alleati ad un cambio di strategia. Così l’unica “"via italiana"” proposta dai nostri vertici è stata quella fatta di indecisioni, ammiccamenti, sudditanza e ipocrisia.

Una via che si è affermata grazie alla capacità di perseguire due obiettivi: acquisire meriti presso il politico di turno (nazionale o estero), spendere poco o soltanto lo “spendibile”. L’esercito e i soldati sono stati riconosciuti tra i più idonei ad essere “spesi” a basso costo per far guadagnare posizioni di potere individuale o finanziare programmi per nuove navi e aerei.

Nonostante tutto questo, o forse proprio per questo, il modo italiano di fare peacekeeping si è rafforzato e dove è riuscito a prevalere è diventato il punto di riferimento anche per altre compagini militari e per le comunità civili, ma per motivi diversi da quelli descritti da Cecchi ed in condizioni tutt’altro che felici.

Il modo italiano non è quello della “conquista delle menti e dei cuori” della popolazione che è invece il modo tipicamente britannico di gestire la colonizzazione e le occupazioni militari. Non è neppure la dimostrazione del rispetto dell’altro che è invece il mantra della guerra psicologica americana per separare e ghettizzare chiunque sia diverso. E non è fatto di rinuncia pregiudiziale allo scontro per favorire l’incontro.

Il modello italiano di peacekeeping, che ancora sopravvive ma che ogni giorno si scontra con il fanatismo bellicista di alcuni comandanti o con quello ottusamente buonista di altri. si basa sulla “priorità della funzione sicurezza” in ogni attività militare. Il peacekeeper italiano è un professionista della sicurezza innanzitutto e poi, se ci sono tempo e risorse, se non c’è nessun altro e se la sicurezza è garantita, può diventare un assistente umanitario e perfino un samaritano. La sicurezza non si limita alle minacce di natura militare, ma comprende quelle della criminalità, delle ingiustizie sociali, delle discriminazioni e delle arretratezze economiche.

Il modo italiano si basa sul rispetto di se stessi e della propria cultura di civiltà come premessa per il rispetto degli altri. E gli “altri” non sono oggetti esterni ed estranei da gratificare di un sorriso falso mentre si masticano insulti o di una entità da catalogare, ma sono la proiezione di se stessi nelle loro condizioni. Solo chi non ha rispetto né di sé né della propria cultura può abbandonarsi a crimini e a prevaricazioni anche se in guerra.

Nel modo italiano non si ama fare la guerra a fianco di chi non rispetta se stesso al punto di torturare e uccidere innocenti disarmati o di chi non riconosce agli altri neppure il ruolo di avversario legittimo. Nel modo italiano non è la dimostrazione formale di rispetto o la capacità di comunicare a far guadagnare la fiducia degli altri.

Molti altri contingenti sono perfino più cortesi e altri ancora hanno molti più soldi per pagarsi bravi interpreti. Ma istintivamente il soldato del modo italiano di peacekeeping trasmette la sensazione potente di vedere se stesso negli altri e questo è un fattore di stima immediato.

Il modo italiano rifiuta i pregiudizi religiosi ed etnici o di genere, rifiuta le ideologie assolutiste sia del bene che del male. Rifiuta lo sfruttamento per interessi di bottega e non vuole “conquistare” e “vincere” le menti e i cuori con le minacce o le blandizie e la corruzione, ma vuole “guadagnarseli” con la determinazione, la professionalità, l’umanità e l’esempio.

Il modo italiano non rifugge dallo scontro per principio né lo accetta soltanto se vi è costretto dalla provocazione o dalla minaccia alla propria vita. Il soldato è disposto e pronto allo scontro purché ve ne siano la ragione e la legittimità.

Una “ragione” fondamentale è la consapevolezza che la sua vita e la sua missione sono importanti per tutti e non deve essere sciupata. Per questo vuole armi efficienti, regole chiare e i mezzi per proteggersi e proteggere. Non sono tanti i rappresentanti di questo “modo” e sono tutti autodidatti. Devono ringraziare solo se stessi per essere stati capaci di resistere alle deviazioni e ai tentennamenti dei loro capi. E noi tutti dovremmo ringraziare loro per lo stesso motivo.

* Generale di Corpo d'Armata in ausiliaria.

Nota redazionale: col consenso dell'Autore, pubblichiamo il seguente intervento scritto dal generale di Corpo d'Armata Fabio Mini. Si tratta d'una risposta all'articolo del generale Filiberto Cecchi "La via italiana al peace-keeping", pubblicato il 4 luglio 2007 sul sito della rivista "LiMes".